Intervento

Lirio Abbate

Buongiorno. Sarò molto sintetico.

Come diceva poco fa il procuratore De Lucia – non spetta a me dirlo – la mafia non finisce con l’arresto di Matteo Messina Denaro. Quello che vi posso offrire in questa breve esposizione è un’osservazione, anzi un osservatorio dal basso, dalla terra, dalla strada. In cui posso raccontare che c’è una mafia che è ancora viva. Ma non c’è soltanto Cosa nostra. C’è una mafia molto forte che si chiama ‘ndrangheta. C’è una mafia ancora più violenta e sanguinaria che la chiamiamo giornalisticamente mafia del Gargano, che uccide, fa esplosioni. Mi ricorda molto i corleonesi degli anni Settanta, soltanto che alcuni a Bari non la riconoscono ancora. E poi c’è una mafia ancora forte, che si infiltra nelle amministrazioni pubbliche del Nord. C’è, in buona sostanza, una mafia che la vittima sente ancora oggi sulla propria pelle e la vive ancora oggi con molta, molta paura. E, quindi, l’arresto ben venga. Dopo trent’anni di Matteo Messina Denaro è un arresto che chiude un capitolo, ma non chiude Cosa nostra.

Questo osservatorio parte dal basso, dalla strada e questo vi posso raccontare. Giuridicamente e giudiziariamente siete voi maestri, siete voi le persone a cui io mi affido: però il territorio mi dice che ancora oggi è controllato. Ancora oggi si fanno degli arresti a Palermo, a Reggio Calabria, a Locri, a Foggia. E ci sono decine di altri giovani che prendono il posto delle persone arrestate. E mi chiedo perché tutto questo accade. Perché accade, oggi, nel 2023. E me lo chiedo perché c’è una mancanza di risposta – fra virgolette –istituzionale. Perché c’è un welfare mafioso, che in molte zone è molto più forte di quello che lo Stato riesce ad offrire. Perché c’è l’esempio di quello che è il metodo che Messina Denaro ci ha portato. Siamo a Palermo, siamo in Sicilia ed è l’esempio più vicino a noi. Non nascondiamocelo: ai ragazzi laureati che non riuscivano a trovare lavoro e che si affidavano ai boss del territorio questi mafiosi offrivano lavoro nei supermercati di Matteo Messina Denaro. E loro sapevano chi era il vero proprietario. Anche se mal pagati e sfruttati, lavoravano lì. Centinaia di persone venivano pagate e stipendiate in attività del mafioso. E, quindi, dove le istituzioni non arrivano, dove c’è una lenta risposta dello Stato, la mafia si infila, si infiltra. E si infiltra ancora oggi.

Quindi ci sono volte – non parlo soltanto della Sicilia, parlo del Meridione – che mafiosi si sostituiscono ai giudici, diventando loro stessi giudici e arbitri. Lo abbiamo visto a Roma. Il dottore Cascini ne è testimone: a Roma. L’abbiamo visto in altri posti, dove personaggi che hanno un potere sul territorio riescono ad avere anche un potere per dirimere le questioni fra imprenditori o fra creditori o debitori.

E tutto questo non può avvenire. Ma tutto questo va raccontato e va illuminato. Tutto questo va documentato. E quando lo racconti, non sempre piace a qualcuno.

E poi c’è anche un altro particolare, che l’informazione mette in evidenza quando parla che oltre il welfare mafioso c’è anche una cultura che è deviata. Quando vedo che c’è una maestra, che viene arrestata perché favorisce, apertamente e di fatto, la latitanza di un boss e ne favorisce il clan… io penso che noi tutti abbiamo perso. Perché che è una maestra che fa da formatore a un gruppo di giovani e penso che quella maestra è deviata. Penso che quei ragazzi non potranno mai crescere con una formazione vera e reale. Soprattutto, quando si parla di Sicilia, quando si parla del trapanese e di alcuni posti in particolare del trapanese.

Tutto questo è avvenuto. Tutto questo c’è. Tutto questo lo abbiamo raccontato. A qualcuno fa male? Forse allo stesso provveditore? Non lo so. Forse qualcuno, lo stesso preside, non si è accorto? Non lo so. Mi sembra un po’ come quando il direttore di una filiale di una banca non sa che fra i propri clienti c’è l’usuraio. Secondo me, è un cattivo direttore di filiale.

Così come va raccontato che c’è una situazione carceraria che è devastante, ma per i detenuti comuni, diciamo fino all’alta sicurezza, dove ci sono anche dodici persone in una cella. Ma il 41-bis no. Il 41-bis, che è il carcere impermeabile. Perché lo chiamo così? Perché Mauro Palma mi ha insegnato a chiamarlo così. E il carcere del 41-bis non è un carcere da tortura, lo dice anche l’Europa. Quelli al 41-bis non sono così sovraffollati, né vengono torturati. Eppure mi risulta che ancora oggi, dopo che c’è questo governo – abbiamo sentito fino a stamattina e nei giorni scorsi sui giornali – parlano e raccontano di lotta alla mafia e, praticamente poi, nei provvedimenti invece c’è un contrasto. Di lotta se ne fa ben poca, se non grazie all’abnegazione, al lavoro di magistrati, di forze dell’ordine.

Ecco, vediamo, che proprio in questi giorni ci sono nuove circolari sul 41-bis da parte del Dap. Ufficialmente il 41-bis non lo cancelli. Però, se il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, seguite le linee magari del gabinetto del ministro o di qualcun altro, dà delle indicazioni particolari… il 41-bis sulla carta rimane, ma viene molto violato. E penso che non abbia più quello che Mauro Palma mi ha insegnato a chiamare, cioè il “carcere impermeabile”. Però ce l’hai il 41-bis: nessuno potrà mai dire che è stato cancellato. Viene violato. E oggi queste ipotesi sono in corso, ci sono delle bozze raccapriccianti.

E tutto questo, rifacendosi anche a quello che diceva il presidente Conte, non è un filo rosso: è un filo nero. Un filo nero che lega tutto questo. Molto nero. Perché i diritti sono sotto attacco. E se mettiamo insieme tutte queste cose, un filo nero che, tirandolo, non viene fuori una bella figura. Perché è vero che c’è chi vuole cambiare la storia o chi la vuole raccontare diversamente. Con i neri che ricoprono ruoli che a volte uno non immagina, come nella strage del 2 agosto, che è una strage nera per la quale siamo arrivati ad una conferma non solo l’altro giorno al processo d’appello, ma ad una sentenza in primo grado – la cui attività è stata avocata dalla Procura generale – in cui sono riusciti a ottenere dei risultati e delle prove grazie alla tecnologia!  Che parola grossa, grazie alla tecnologia... e che cos’era nel 2020? Ma è mai possibile che un ufficio di procura non fosse stato dotato di un programma OCR che poteva trasformare la carta in documenti con ricerca nel testo?

E questo è stato fatto grazie anche ai familiari delle vittime. Perché noi qui parliamo di diritti sotto attacco, ma di diritti sotto attacco anche dei familiari delle vittime che non vengono mai ricordate. Di cui, da parte di questo Governo, non si fa mai menzione o tutela. Ogni volta che si arresta qualcuno, un mafioso o qualcun altro, è giusto costituzionalmente che venga difeso. Ma perché far parlare soltanto quella parte? Quando si fanno dei provvedimenti si parla soltanto della parte di chi è indagato. Ma indagato per quali fatti? E i fatti hanno avuto delle vittime? Queste vittime hanno dei familiari? E quindi bisogna anche stare da quella parte.

Abbiamo cercato di risollevare su la strage di Ustica. È un fatto giudiziario, va benissimo. L’informazione cammina parallelamente. Avremmo voluto che dei quesiti che ha aperto e risollevato un politico che ha vissuto in quegli anni, magari potevano essere presi da questo Governo per chiedere a un altro Governo se era vero o cosa mancava. Nulla di tutto questo mi risulta che sia stato fatto. Le uniche risposte che ci sono state date giornalisticamente è chiedere se il presidente Amato avesse delle prove, perché c’erano state delle cose giudiziarie.

Siamo arrivati al punto che bisogna mettere uno stop alla delega alla magistratura. La politica, ma soprattutto anche questo Governo, deve iniziare a prendersi le proprie responsabilità, non delegare più al magistratura, che è stata per trent’anni supplente della politica in molti casi e in molti problemi che riguardano il nostro Paese.

Ho sentito stamattina di nuovo il ministro Nordio e ho ripensato ad alcune cose. Ho pensato, soprattutto, che si sta cercando di mettere un freno ai cronisti giudiziari, impedendo di fare il loro lavoro, informando l’opinione pubblica di quello che succede nei palazzi di giustizia. È una linea che sta seguendo il governo Meloni con il Guardasigilli Carlo Nordio ed è, a parer mio, una linea autoritaria. È rivolta a silenziare completamente l’informazione giudiziaria con un solo obiettivo: non disturbare il manovratore. E non raccontare all’opinione pubblica cosa sta facendo e ha fatto la politica.

Tutto ciò, secondo me, è antidemocratico. Anzi è anticostituzionale. Perché un paese autoritario, proprio come nei paesi autoritari, dove i giornalisti scomodi fanno una brutta fine, è quando un giorno dopo l’altro ci sono esponenti di spicco del governo che si scagliano contro l’informazione. Le conseguenze possono essere ancora più pericolose.

E, quindi, è vero: la destra governa l’Italia perché ha vinto le elezioni. Però non è autorizzata a negare agli italiani il diritto di essere informati su cosa succede nei palazzi di giustizia. E mi riferisco proprio alla riforma del ministro Nordio. Non è garantismo rendere obbligatorio il silenzio su chi finisce sotto inchiesta. No. Nordio si è proclamato garantista, sin dalle sue prime battute in Parlamento. E vorrei ricordare che garantismo è, soprattutto, garantire una libera informazione, mentre il bavaglio alla libertà di stampa non è garantire le garanzie.

Trascrizione a cura della redazione,
in attesa di approvazione dal relatore

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