Creare un nuovo rapporto tra elettorato e rappresentanza
La premessa è che la riforma elettorale non risolve certo tutti i problemi ma, al contempo, è necessaria. Questa necessità per gli addetti ai lavori, per quanti osservano e studiano le dinamiche consiliari, non è stata scoperta con l’inchiesta di Perugia; il Ministro Orlando lo ha ricordato, anche perché lui stesso istituì una Commissione di studio della riforma elettorale ma, ancora prima, il Ministro Cancellieri pensò ad un intervento riformatore con il sistema del panachage, mantenendo liste concorrenti col divieto di intitolazione della lista ai gruppi, liste che venivano individuate secondo l’ordine cronologico di presentazione.
La questione era anche all’attenzione della magistratura associata.
Quasi all’indomani della riforma del 2002, in una delle riunioni associative cui a quel tempo si partecipava in molti, e che erano caratterizzate da un dibattito politicamente strutturato, si disse che quella legge immetteva nel corpo della magistratura un veleno a rilascio lento.
Ebbene, i fatti emersi dall’inchiesta di Perugia, e quello che ruota intorno, hanno dato la prova che quel veleno ha prodotto i suoi dannosi effetti; ciò nonostante, sono cautamente ottimista.
Una riforma del sistema elettorale, per quanto non sia di per sé sufficiente, avrà grande efficacia per la ripresa di una relazione virtuosa tra il sistema di governo autonomo e la magistratura.
Con la consapevolezza, però, che quel che emerge – se posso dire con una battuta adattando il titolo di un fortunato volume del Novecento – accanto al tradimento dei togati è il fallimento della componente laica del Consiglio superiore, che non ha saputo o potuto, almeno nell’ultimo ampio periodo, esercitare quella forza d’interdizione rispetto alla tentazione corporativa della magistratura, che ci si attendeva. E per questo aspetto la crisi del Consiglio superiore chiama in causa anche il Parlamento, non solo la magistratura.
Il mio cauto ottimismo verso un’intelligente riforma del meccanismo elettorale si basa sulla considerazione della storia del Consiglio superiore, costellata da continue riforme del sistema elettorale, dal ’58 al 2002, sempre strettamente legate alla vita dell’associazionismo giudiziario.
Quella storia può essere idealmente scomposta in due grandi periodi: un primo, durante il quale l’associazionismo è stato protagonista di una battaglia politica volta alla liberazione dei magistrati dall’egemonia gerarchica della corporazione della magistratura alta, quella di Cassazione; il secondo periodo – dal ’90 in poi – in cui, invece, l’associazionismo è stato non il soggetto attivo di un disegno politico autenticamente democratico e ispirato ai valori costituzionali, ma il destinatario di misure volte a limitarne il ruolo sulla scena politico-istituzionale, a favorire la liberazione, questa volta del Consiglio superiore, dalla sua incombente presenza.
La riforma del 2002 ha voluto assestare il colpo finale all’associazionismo e alle sue articolazioni interne e però ha realizzato una diversa situazione, ossia la mortificazione del Consiglio, che si è verificata per mezzo dello svilimento dell’impegno e del ruolo dell’associazione.
A questo punto giova porsi un quesito: a Costituzione invariata, il sistema elettorale è ineliminabile, lo abbiamo detto tutti, basta leggere la disposizione della Carta costituzionale per capire come il meccanismo elettorale non possa essere eluso; ma allora, se così è, è interessante cercare di comprendere quale fosse – e lo dico dinnanzi ad illustri costituzionalisti – l’idea del Costituente.
Una rappresentanza seppure parziale della magistratura da parte del Consiglio superiore, il quale ha pure una composizione mista, e che con il meccanismo elettorale di nomina trova una forma di responsabilità di fronte all’elettorato?
Storicamente, questa forma di responsabilità – voluta o meno dal legislatore costituzionale – si è concretizzata in una valutazione del corpo elettorale attraverso i corpi intermedi dell’associazionismo; quando questo sistema è venuto meno – sostanzialmente con la riforma del 2002 – è venuta a mancare anche la possibilità per l’elettore di poter esprimere una valutazione sull’operato di chi lo ha rappresentato.
Il punto di forza del meccanismo elettorale è che esso consente il controllo su come viene svolto il mandato e questo sempre è stato fatto attraverso le correnti dell’associazione. È per questa ragione storica che guardo con favore alla proposta del prof. Silvestri, perché il collegamento tra candidati consente di avere un’idea, un progetto intorno alla magistratura da inverare nell’esercizio del mandato consiliare e costituisce anche uno strumento di verifica a beneficio dell’elettore che ha scommesso sulla bontà di quel programma elettorale.
Se, al contrario, il voto è espresso soltanto in funzione dei singoli candidati, notabili moralmente qualificati, non si ha la possibilità di vagliare il modo in cui hanno interpretato il mandato elettorale, e quindi il sistema rinuncia a qualunque forma di controllo.
L’altro punto a cui intendo accennare è che il sorteggio, lo si è diffusamente detto, è incostituzionale e giuridicamente irricevibile a Costituzione invariata; quel che però è d’interesse è soffermarsi sulle ragioni sociologiche che spiegano perché esso piaccia tanto e soprattutto a fasce non minoritarie della magistratura, che è pur sempre un’elite del Paese e che dovrebbe quindi comprendere la consistenza valoriale di un sistema elettorale.
L’idea invece che sia preferibile che il mandato consiliare sia esercitato da chi è riluttante, da chi non vuole l’incarico, da chi è scelto dal caso, non è competente o non si è formato nella politica associativa è la prova del tasso di impoliticità che segna anche la magistratura.
Non va però trascurato, di contro, che il fascino del sorteggio deriva anche dal fatto che non si ha più fiducia da parte di settori sempre più consistenti della magistratura nel Consiglio superiore, a cui si guarda con significativa diffidenza.
E allora si preferisce che sia il caso a scegliere poiché è venuto meno quel rapporto di corrispondenza fiduciaria che nel periodo del sistema proporzionale con liste concorrenti aveva caratterizzato i rapporti tra le due istituzioni, tra il Consiglio superiore e la Magistratura.
Dico ciò non dimenticando quello che giustamente ha detto l’onorevole Bongiorno: il Consiglio non è l’organo di rappresentanza dei magistrati, ma un’istituzione del Paese; e però non bisogna dimenticare che è stata una precisa scelta costituzionale di valorizzare il rapporto elettorale con i magistrati, per far sì che il Consiglio stesso funzioni correttamente e a beneficio del Paese.
Nella situazione in cui ci si trova anche il Consiglio superiore ha dunque le sue colpe: non ha evitato che il tono politico dell’Istituzione diminuisse progressivamente nel tempo, non impegnandosi più, almeno come prima avveniva, sulle grandi questioni che per anni animarono anche il dibattito dottrinale. A quando risale l’ultima relazione al Parlamento sullo stato della giustizia del Consiglio Superiore? A quando risale l’ultima vicenda sui rapporti con il Comitato di Presidenza o, aspetto ancor più delicato, con la Presidenza della Repubblica in ordine alla formazione dell’ordine del giorno e al potere di non iscrizione di pratiche richieste da consiglieri o dalla Commissione referente?
Il Consiglio superiore, questa l’impressione che da questi ultimi anni si ricava, si è ripiegato soprattutto sul versante dell’amministrazione delle carriere, anche perché indotto, va riconosciuto, dalla riforma ordinamentale del 2006 e poi a quella di riduzione dell’età pensionabile del 2014, che hanno moltiplicato le pratiche di conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi.
Anche per questa via si è allentato il rapporto fiduciario tra Consiglio superiore e Magistratura: più che occuparsi della messa a punto di programmi di medio-lungo periodo, di trovare soluzioni per i tantissimi problemi che oggi gravano sul sistema giudiziario, il Consiglio superiore si è concentrato prevalentemente sulle nomine e sulle carriere.
Eppure, grandi questioni incombono: penso ad esempio al tema della magistratura onoraria, che ha visto impegnati Governo e Parlamento nella scorsa legislatura con il varo di una legge di riforma che chiama il Consiglio superiore ad un importante compito attuativo e ad un cambio di visione rispetto ad un tradizionale assetto che ha fatto il suo tempo e che non è più sostenibile.
Penso ancora a quel che le cronache relative all’inchiesta di Perugia consegnano, ossia che molti dei profili critici del sistema afferiscono alla gestione delle Procure della Repubblica.
La diffusività del potere inquirente, che – sulla falsariga di quello giudicante – consentiva che non si esasperassero tensioni intorno al tema dell’azione penale, alla titolarità e alla gestione di queste delicatissime attribuzioni, oggi, e ormai da tempo, non è un adeguato contrappeso.
La tendenza, anche legislativa, è verso una concentrazione di poteri e responsabilità e ciò fa sì che la questione delle nomine ai posti direttivi di questi uffici sia sempre più delicata e politicamente sensibile.
Oggi più di ieri v’è dunque necessità che il Consiglio superiore mantenga e rafforzi un ruolo politico, premessa indispensabile affinché possa e sappia governare con autorevolezza e credibilità momenti particolarmente delicati per la vita democratica del Paese, con la consapevolezza dei problemi strutturali dell’amministrazione della giustizia dalla cui soluzione dipende l’adeguatezza della risposta al bisogno di tutela dei diritti.
In tale prospettiva credo che colgano nel segno le riflessioni del prof. Silvestri: se il Consiglio superiore non è una Direzione generale del personale e nemmeno una Commissione di concorso, l’errore in cui forse incorre, con eccessiva ingenuità, è di produrre norme e normette nell’illusione che possano dare conto di come in concreto viene esercitata l’ampia discrezionalità nelle nomine, quando invece il risultato che viene ad essere è quello di un ginepraio di regole in cui è lo stesso Consiglio superiore a muoversi non sempre con coerenza, con una crescita, invece che una diminuzione, della credibilità della sua azione agli occhi quanto meno dell’utenza giudiziaria.
Occorre che il Consiglio superiore riacquisti consapevolezza del suo profilo politico-istituzionale e operi sul versante delle nomine non cercando di giustificare con illeggibili circolari regolative le sue scelte; ma collocando le decisioni sugli incarichi, almeno quelli negli uffici più importanti, in programmi di azione che rispondano ad una precisa idea di giurisdizione, in modo che per tale via possa essere resa comprensibile e compresa la singola nomina.
Quando invece si cerca, come oggi accade, di giustificare l’operato sulle nomine esclusivamente sul piano del merito, dei curricula, sul piano di chi è più bravo o meno bravo, aumentano il rischio di contrapposizioni polemiche e l’incapacità di comprendere la direzione politica dell’attività consiliare.
Il recupero di questa necessaria vitalità politica dell’Istituzione implica il rafforzamento e non l’annientamento dell’associazionismo: basi considerare che non vi sono esperienze storiche di un Consiglio superiore sradicato dal contesto associativo. Anzi, proprio la considerazione di quanto è avvenuto ci rende avvertiti che i momenti più critici del Consiglio sono stati conseguenza della peggior riforma del suo sistema elettorale, con la legge n. 44 del 2002. Quando si è inceppato, complice la legge n. 44 del 2002, il meccanismo che vedeva le correnti centri di elaborazione culturale, esse sono rimaste sul campo soltanto come organizzazioni elettorali; ed hanno dato il peggio.
L’immediato futuro dovrà essere indirizzato a creare un nuovo rapporto tra elettorato e rappresentanza; ancora una volta la proposta del prof. Silvestri coglie il nucleo della questione, perché quello di cui si avverte il bisogno è la messa a punto di un sistema di responsabilizzazione della componente togata – quella laica risponderà al Parlamento – e ciò potrà essere fatto solo restituendo forza ai corpi intermedi, e quindi all’associazionismo e alle sue articolazioni.
Intervento al convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”,
Roma 23 giugno 2020