Il CSM e la questione della rappresentanza di genere
1. Il contesto
Da oltre un anno la magistratura italiana vive un profondo travaglio e assiste attonita alla progressiva erosione della sua credibilità e della fiducia che in lei ripongono i cittadini italiani.
Le inchieste di Perugia hanno fatto venire alla luce una trama composita, ordita da centri di potere, nella quale le pratiche spartitorie hanno finito per travalicare le stesse correnti che quelle logiche hanno favorito (o, sempre più deboli, non hanno saputo contrastare con forza sufficiente) per tessere un sistema clientelare di tipo microcorporativo su base personalistica e localistica.
Ci troviamo ora nel mezzo di una crisi sistemica di tipo multifattoriale, che può essere affrontata solo avendo chiaro il senso e i termini della sua complessità.
Alla base della crisi c’è sicuramente la questione morale in magistratura, in tutte le sue molteplici implicazioni, ma c’è anche un problema di regole. Etica dei comportamenti e regole di comportamento devono tenersi insieme, perché anche l’agire sostenuto dalle più oneste intenzioni fatica a funzionare in presenza di cattive regole e le migliori regole funzionano male senza un adeguato portato etico.
La magistratura e la sua tenuta etica sono franate nella deriva di una miscela esplosiva, quella che si è creata nella saldatura tra la legge elettorale n. 44/2002, la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 e la normazione primaria e secondaria sulla dirigenza e le nomine.
La legge elettorale del 2002, nata dichiaratamente per contrastare il peso delle correnti nella selezione dei componenti del Consiglio superiore, per una eterogenesi dei fini ha realizzato un effetto diametralmente opposto: ha finito per attribuire alle correnti un potere di designazione esclusiva dei componenti il CSM e le ha condotte a occupare ogni spazio di rappresentanza, giungendo fin quasi a elidere il confronto democratico che dovrebbe essere alla base di ogni competizione elettorale.
La cartina al tornasole di questa affermazione è nelle ultime elezioni per la categoria di pubblico ministero, nella quale sono stati presentati quattro candidati per quattro posti.
Le deprecabili pratiche consociative e spartitorie non sono nate con la legge del 2002, ma la legge elettorale, al di là delle sue intenzioni, ha concorso a creare le condizioni che hanno favorito le degenerazioni che sono sotto gli occhi di tutti, perché la previsione del maggioritario puro e di collegi unici nazionali per categoria ha, nei fatti, reso impossibile la proposizione e l’affermazione di candidature autonome rispetto ai gruppi associati e ha indotto questi ultimi a organizzarsi come macchine di ricerca del consenso e di costruzione di clientele, mettendo sempre più in crisi la loro ragione fondativa, che era – ed è – l’elaborazione politico-culturale secondo diverse aree di riferimento e orientamento.
Ne è derivato un progressivo e pericoloso scollamento tra la base della magistratura, l’associazionismo e l’autogoverno, nel quale ben si comprende come gli eletti siano stati sempre meno sensibili agli interessi generali e piuttosto attenti a quelli particolari dei propri elettori, specie dei potentati personali e locali che ne hanno deciso la designazione. Potentati locali e personali che hanno finito, essi stessi, per strumentalizzare le correnti e le loro dirigenze, sempre più incapaci di mediare le spinte e gli interessi particolari per far prevalere l’interesse generale e di indirizzare le scelte dei consiglieri in modo coerente con i valori e i principi in nome dei quali erano stati eletti (e la cui attuazione avevano assunto come impegno in campagna elettorale).
Questo sistema è stato correlativamente alimentato dall’arrivismo di tanti e da un’ansia di carriera che, in alcuni casi, non ha risparmiato neppure i più capaci tra noi. Un arrivismo e un carrierismo che la normativa primaria e secondaria che disciplina il percorso professionale del magistrato, il sistema delle nomine e degli incarichi, hanno esaltato al massimo grado, insinuando nei magistrati un’aspettativa, quando non l’idea, di un “diritto alla carriera”.
Un’idea che rischia di mettere in crisi il modello costituzionale della magistratura quale potere orizzontale e diffuso.
2. Gli obiettivi minimi della legge elettorale
Il tema è dunque complesso e sarebbe ingenuo attribuire alla legge elettorale un potere salvifico.
E tuttavia, la riforma della legge elettorale se non è da sola la soluzione del problema, è sicuramente parte della soluzione.
Con questa consapevolezza abbiamo da tempo avviato all’interno del gruppo di AreaDG un lavoro di studio e riflessione sfociato in un seminario partecipato e ricco di contenuti che si è tenuto il 15 febbraio scorso in Cassazione.
All’esito di questo lavoro collettivo non abbiamo avuto la presunzione di elaborare una nostra proposta di articolato o di indicare come nostra, tra le tante proposte in campo, una piuttosto che un’altra ipotesi.
Intanto perché siamo consapevoli dell’elevato tecnicismo che è proprio della legge elettorale, poi perché riteniamo che questo non sia il nostro compito e che il contributo più proficuo da parte nostra stia piuttosto nell’individuare quali siano gli obiettivi minimi che una legge elettorale deve soddisfare per essere una buona legge e analizzare, quindi, le proposte in campo in funzione di quegli obiettivi.
In altre parole: se la legge del 2002 era una legge dichiaratamente contro qualcuno o qualcosa, a noi sembra che l’approccio dovrebbe oggi mutare in positivo, con la costruzione di una legge elettorale “per”, ossia per individuare, tra le diverse proposte, quella che può soddisfare al massimo grado alcuni obiettivi e trovare un giusto punto di equilibrio tra gli interessi in gioco.
Preliminare a questa analisi, tuttavia, è stabilire il ruolo che attribuiamo al CSM, perché la legge elettorale non è neutra neppure da questo punto di vista. E quindi, come è stato efficacemente detto, occorre partire dalla domanda : quale legge elettorale per quale CSM?
Noi siamo profondamente convinti che la legge elettorale debba anzitutto salvaguardare e promuovere la politicità dell’organo, che nulla ha a che vedere con la cosiddetta “politicizzazione” del Consiglio, delle correnti e della magistratura.
È stato correttamente osservato che, nel disegno costituzionale, il CSM non è un organo meramente amministrativo preposto alla gestione burocratica delle carriere dei magistrati, ma è un organo di rilievo costituzionale, caratterizzato da una complessità di funzioni, nella cui esplicazione esso esprime, ovviamente nell’ambito ristretto dell’amministrazione della giustizia, delle opzioni politiche, tenendo presente l’ampiezza e le molteplici implicazioni di tale espressione. Per tale ragione, molte delle decisioni che il CSM adotta non possono che essere il frutto di mediazioni tra impostazioni e visioni culturali chiamate a confrontarsi, presenti nella società (componente laica) e nella magistratura (componente togata).
In ciò sta la correlazione tra l’autogoverno e le correnti nelle quali si riflette, o dovrebbe riflettersi, la varietà culturale interna alla magistratura. Il fatto che le correnti non siano state all’altezza di questo compito, in quanto completamente assorbite dal far prevalere non tanto le proprie opzioni culturali, ma gli interessi particolari dei propri associati e dei grandi elettori – siano essi persone in grado di coagulare ampie fette di consenso o di territori, secondo una logica ormai microcorporativa – è un fattore di cui si deve necessariamente tenere conto e che richiede correttivi, ad iniziare dalla legge elettorale, ma che non può condurre ad abiurare al modello tracciato dalla Costituzione.
Se quindi la legge elettorale dovrebbe anzitutto salvaguardare la politicità dell’organo, perché tale è il disegno costituzionale, va esclusa in radice ogni forma di selezione della componente togata per sorteggio, sia a valle sia a monte.
Si tratta di un meccanismo che è incostituzionale, non solo perché contrario alla chiara lettera dell’art. 104 Cost., ma perché, per così dire, ontologicamente incompatibile con il modello costituzionale e, a ben a ben vedere, non compatibile neppure con la più riduttiva visione del ruolo del CSM. Anche se, per mero esercizio dialettico, si volesse considerare il CSM come un organo di alta amministrazione, il sorteggio dei suoi componenti sarebbe in conflitto con il principio di imparzialità e buon andamento della PA, che impone di selezionare secondo merito. Il sorteggio, infatti, non fornisce alcuna garanzia di una selezione in termini di qualità e competenza e risponde all’idea secondo cui “uno vale uno”. Ma nessun pubblico funzionario è nominato per sorteggio, e i rari casi conosciuti vengono ricordati dalla dottrina per segnalare l’inefficacia del meccanismo. Un meccanismo che fa venir meno, soprattutto, la responsabilità. Perché il sorteggiato, libero da qualunque investitura, non dovendo rispondere ad alcuno, avrebbe ottime possibilità di diventare centro di potere e punto di riferimento di favori e raccomandazioni, sicché non fornirebbe affatto migliori garanzie etiche di coloro che vengono invece investiti della rappresentanza attraverso meccanismi di selezione democratica.
Ma, soprattutto, il gioco a dadi non è compatibile con il disegno costituzionale che ha voluto fare dell’organo di autogoverno l’istituzione preposta a garantire l’indipendenza interna ed esterna della magistratura, riconoscendole il compito di concorrere alla determinazione dell’indirizzo “politico” in tema di amministrazione della giustizia.
Corollario dell’intrinseca “politicità” dell’organo è che la sua composizione deve riflettere il pluralismo culturale esistente nella magistratura; pluralismo che non si esaurisce nelle correnti (che ne sono una parte importante e, a nostro avviso, irrinunciabile), ma si pone come esigenza che gli eletti siano, come è stato detto, espressione della “differente realtà del corpo sociale della magistratura”.
3. La questione di genere
Ora, una parte di questa differente realtà del corpo sociale della magistratura è rappresentata dalle donne che lo compongono, le quali sono state storicamente e sono tuttora sottorappresentate.
Nella storia del CSM si sono succeduti 15 Consigli e 7 diverse leggi elettorali, nessuna delle quali si è fatta carico di prevedere un correttivo, quale che fosse, per assicurare, o anche solo favorire, una equilibrata rappresentanza di genere in Consiglio.
Il risultato è che nella storia del CSM abbiamo avuto solo 28 donne consigliere, con percentuali che si attestano introno al 25%: Una percentuale che è lievemente salita solo nell’ultima consiliatura, dove però il Parlamento ha ritenuto che, nel panorama dell’accademia e della politica italiana, non vi fosse una sola donna all’altezza di comporre, quale membro laico, il CSM.
L’esistenza di un problema di sottorappresentanza di genere nel CSM, dunque, è indiscutibile e certificata dalla cruda oggettività dei numeri.
Se è vero che scontiamo un tardivo e faticoso ingresso delle donne in una professione che è stata loro interdetta fino al 1963, è altrettanto vero che le donne in magistratura hanno ampiamente recuperato terreno, costituendo ormai il 54% del totale dei magistrati e il 60% della magistratura giovane.
Quando però dall’accesso e dalla formazione – quindi, da una selezione che si basa esclusivamente sul merito – si passa a selezioni che presuppongono scelte di natura politica in senso proprio o in senso lato, la realtà cambia del tutto e constatiamo allora che la percentuale di donne che ricopre uffici direttivi, ruoli apicali e di leadership è nettamente più bassa di quella maschile e del tutto squilibrata.
Se poi volgiamo lo sguardo verso il Consiglio, i dati non hanno bisogno di commento: su sedici togati, sei donne; nessuna donna tra i membri laici; nessuna donna nel comitato di presidenza, del quale, peraltro, nessuna donna ha mai fatto parte.
Quanto all’Associazione nazionale magistrati, dove pure correttivi più efficaci sono stati introdotti, dobbiamo però constatare che essa annovera nella sua storia una sola donna presidente: Elena Paciotti, per noi un modello e un punto di riferimento, uno dei migliori presidenti che l’ANM abbia avuto.
Perché accade che nel passaggio dalla formazione e dall’accesso alla professione verso ruoli apicali e di leadership, nella rappresentanza in CSM come nell’ANM, le donne sono così fortemente penalizzate?
La questione si lega indubbiamente al tema della genitorialità senza tuttavia esaurirsi in esso.
Un tema, questo, che nella magistratura assume una complessità particolare perché il nostro è un lavoro che è nato, ed è restato per lungo tempo, appannaggio degli uomini e i modelli di organizzazione (modelli che noi stesse abbiamo introiettato e perpetuato) sono modelli maschili che non contemplano spazi e tempi per la cura dei figli e dei carichi di famiglia. Perché la nostra organizzazione del lavoro è molto rigida e per nulla flessibile. Perché è molto difficile che una donna magistrato possa sostenere un lavoro estremamente impegnativo, farsi carico della cura della famiglia e dei prossimi congiunti – carichi che continuano a gravare in prevalenza sulle spalle delle donne, e anche delle donne magistrato – e trovare il tempo, lo spazio e la possibilità di vedere riconosciuta, anche in famiglia, la propria aspirazione a seguire altri impegni – dalla produzione scientifica, alla convegnistica, alla politica associativa nazionale – che sono il viatico della competizione elettorale.
Ma anche questo non basta a spiegare il problema, che trova cause più radicate e profonde. Infatti, anche quando il personale politico femminile c’è e, con fatica, si forma, viene comunque penalizzato. Proprio come nella politica generale, gli elettori hanno meno fiducia nelle donne e i gruppi ritengono più rischioso puntare sulle donne, consapevoli che esse scontano una discriminazione che è anzitutto culturale, frutto di nodi, sottoculture e retaggi tuttora insuperati.
Ma se le donne sono una parte ormai numericamente prevalente del corpo sociale della magistratura e se tutti i discorsi che abbiamo fatto (e sono certa che faremo nel corso di questo convegno) sulla politicità dell’organo, sulla rappresentanza e sul pluralismo hanno fondamento, non possiamo ignorare che di questi discorsi il tema dell'equilibrata rappresentanza di genere costituisce un imprescindibile corollario e questo obiettivo deve essere perseguito dalla prossima legge di riforma del sistema elettorale del CSM con pari dignità rispetto agli altri.
Non è una questione di rivendicazione corporativa, ma di eguaglianza e di democrazia.
È una parte del corpo sociale che attende di poter contribuire a formare gli indirizzi politici del Consiglio, e quindi le scelte dell’autogoverno, non per ambizione di potere, ma per portare in quelle scelte una specificità che appartiene alle donne: una cultura della politica che è differente da quella maschile, perché nasce da un approccio differente al potere e riflette la vocazione alla cura, alla capacità di farsi carico dei problemi di tutti, all’accoglienza, alla mediazione.
A decenni di distanza dall’ingresso delle donne in magistratura, constatiamo che rimangono inalterati meccanismi di esclusione che si traducono in un deficit di democrazia all’interno dell’istituzione: perché non può definirsi diversamente la situazione di un organo che, dovendo rappresentare un intero corpo sociale, le sue differenze e sensibilità, non veda rappresentato in modo equilibrato una parte di esso; anzi la parte più numerosa di esso.
Un problema di eguaglianza e di democrazia tuttora irrisolto, la cui soluzione è ineludibile e improcrastinabile.
Siamo convinti che questo non sia e non possa essere, come è avvenuto in passato, un obiettivo sacrificabile a vantaggio di altri, ma debba, con pari dignità, trovare una equilibrata e soddisfacente soluzione nella nuova legge elettorale.
Per questo chiediamo ai nostri relatori – e lo facciamo in apertura del convegno per significare l’importanza che per noi riveste il tema – di dare il loro contributo, nei rispettivi ruoli e competenze, per affrontare questo nodo politico e trovare, nelle pieghe del tecnicismo, soluzioni e correttivi che possano finalmente dare risposta a una domanda di democrazia e di eguaglianza e alla richiesta del riconoscimento di una pari dignità.
Intervento al convegno
“Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”,
Roma, 23 giugno 2020.