Il sistema di elezione dei componenti togati del CSM
1. Il riformatore avveduto
Sarebbe altamente opportuno che gli aspiranti reformatores legum, prima di proporre le loro innovazioni, riflettessero sempre attentamente su una risalente testimonianza storica e su una moderna riflessione filosofica.
La prima è la legge del laccio, fatta risalire da un’incerta tradizione, come è noto, a Caronda (legislatore ricordato con ammirazione anche da Aristotele) [1], ma attribuibile, in realtà, a Zaleuco o comunque alla tradizione locrese [2], stando alla quale il proponente di ogni nuova legge doveva presentarsi all’assemblea popolare con un laccio al collo, dal quale sarebbe stato strozzato se la sua proposta fosse stata respinta.
La seconda è la dottrina della “Heterogonie der Zwecke” di Wilhelm Wundt: in base a questa vera e propria “legge” dell’eterogenesi dei fini, raramente alle intenzioni dell’agente corrispondono i risultati desiderati, sicché “Jedes nach Zwecken handelnde Wollen erreicht daher Zwecke, die nicht gewollt, weil nicht vorausgesehen waren” (“ogni volontà che agisce perseguendo risultati ne raggiunge invero di non voluti, perché non erano stati previsti”) [3].
Ragionare su tutto questo aiuterebbe molto a non proporre leggi inutili e a riflettere bene sulla concreta possibilità di risultati indesiderati, particolarmente evidente nelle società complesse nelle quali il giuoco delle azioni e delle reazioni sfugge agli automatismi e la pluralità degli attori moltiplica le variabili e rende del tutto imprevedibile il rapporto causa-effetto. Vediamo come i due insegnamenti di cui ho parlato dovrebbero guidare chi volesse modificare, per l’ennesima volta, il sistema di elezione dei componenti togati del CSM previsto dalla legge 24 marzo 1958, n. 195, che - come è noto - reca “Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura” [4].
2. Una riforma necessaria
Una riforma, laccio o non laccio, è necessaria. Dirò fra poco che dubito molto della sua efficacia in assenza di altre iniziative, ma quel che è accaduto nella magistratura italiana obbliga a dare un segnale di cambiamento, non foss’altro per la notevole importanza simbolica di una simile scelta [5].
Nel recentissimo Intervento commemorativo pronunciato al Palazzo del Quirinale il 18 giugno, il Presidente della Repubblica ha registrato con preoccupazione la diffusione di una “immagine di una Magistratura china su se stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi” [6], emersa da recenti indagini giudiziarie che sembrano aver messo in luce anche sciagurate commistioni fra politica e magistratura. Questa immagine va cancellata e uno degli strumenti per farlo è proprio la riforma delle regole che disciplinano l’elezione dei componenti togati del Consiglio.
Il “quadro sconcertante e inaccettabile” di cui lo stesso Presidente della Repubblica parlò già nel suo intervento al plenum del CSM del 21 giugno 2019 [7], nel giro di un anno, è diventato - se possibile - ancor più sconcertante e ancor più inaccettabile, sicché l’esigenza della riforma, a questo punto, non può essere elusa. Ma quale riforma, con quali contenuti, per quali scopi? E, soprattutto, con quali rischi (rischi particolarmente insidiosi se sol si pensa che è “l’esistenza di un organo come il CSM a precostituire le condizioni indispensabili affinché sia garantita l’autonomia dell’ordine giudiziario”) [8]?
3. Una riforma, non una palingenesi
Cambiare è dunque indispensabile, ma rimuoverei subito dal campo un diffuso equivoco: dalla riforma del sistema elettorale disegnato dalla legge n. 195 del 1958 non v’è da attendersi alcuna palingenesi [9]. Sembra incredibile che qualcuno possa sperarlo o possa diffondere false aspettative dopo la lezione impartita dal fallimento dei precedenti tentativi e anche dalla vicenda dei continui cambiamenti della legge elettorale politica italiana, caso pressoché unico in tutto l’Occidente democratico, dai quali ogni volta ci si aspettava chissà che cosa, per poi rimanere regolarmente delusi dai risultati ottenuti.
Se restiamo proprio sul piano delle elezioni politiche, è ormai storicamente (oltre che logicamente) dimostrato che, se è vero che i sistemi elettorali influenzano i sistemi politico-partitici, è assai più vera la reciproca. In realtà, ogni sistema politico-partitico si dà il sistema elettorale che meglio si confà alle sue esigenze: a quelle dell’intero sistema, se si è lungimiranti come lo si fu già nel 1948, o a quelle della maggioranza del momento, se si è miopi come lo è stata la nostra classe politica da venticinque anni a questa parte [10]. Poi, certo, le regole elettorali influenzano a loro volta il funzionamento concreto dei rapporti fra i partiti, ma la gallina, in questo caso, viene certamente prima dell’uovo.
Per le regole elettorali del CSM il discorso è parzialmente diverso, per la semplice ragione che si tratta di etero e non di auto-normazione, ma alcuni elementi comuni dovrebbero invitare alla prudenza. Vale anche qui, infatti, la considerazione che a nuove regole elettorali corrispondono pur sempre vecchi competitori e che gli incumbents dimostrano costantemente una spiccata capacità di adattamento al mutato contesto normativo, modellando le loro strategie in modo tale da renderle compatibili col nuovo scenario. Per chi non ha scritto le nuove regole, certo, utilizzarle pro domo sua è più difficile, ma non è comunque impossibile.
Nel caso del CSM l’unico mutamento radicale starebbe nell’adozione del metodo del sorteggio [11], non a caso da più parti invocato. Questa scelta, tuttavia, si esporrebbe ad alcune fondamentali obiezioni.
Anzitutto, pel passaggio al sorteggio non basterebbe la legge ordinaria, ma occorrerebbe quella costituzionale [12]. Anche il più disinvolto degli interpreti, infatti, sarebbe costretto a riconoscere che l’art. 104 Cost. non contempla alcun middle ground fra membri di diritto (il Presidente della Repubblica ai sensi del comma 2, e il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, ai sensi del comma 3) e membri elettivi (cioè tutti quelli che “sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune”, ai sensi del comma 4). Ora, per quanto il creazionismo giuridico (sul quale tornerò più avanti) ci abbia abituati alle più patenti aberrazioni, un qualche suo esponente che sia capace di convincere che “sorteggio” ed “elezione” sono la stessa cosa non l’abbiamo ancora trovato [13]. Eligere, infatti, significa poter scegliere e sortem ducere significa dover subire quel che il caso ci ammannisce. Se è così - e senza il minimo dubbio è così - chi volesse introdurre il sorteggio dovrebbe passare dal procedimento di revisione costituzionale. E, visto quel che quasi sempre s’è combinato quando s’è toccata la Costituzione, quod Deus avertat.
Non solo. I periodici riscopritori del sorteggio, che volentieri citano i precedenti della grecità o della latinità classiche [14], sembrano non considerare che proprio l’appartenenza del meccanismo all’antichità e non alla modernità gli è, qui, fatale, rivelando ch’esso è del tutto estraneo alla logica stessa della moderna elezione, che non si radica nel convincimento dell’eguaglianza capacitaria dei cives, ma - piaccia o non piaccia - implica il convincimento esattamente opposto. Non a caso, chi pensa che “uno vale uno” diffida delle istituzioni rappresentative e non ne disdegna il depotenziamento (con la costruzione di canali decisionali alternativi) o la mortificazione (inutile porre l’accento sul significato profondo di una riduzione del numero dei parlamentari dichiaratamente voluta per risparmiare qualche spicciolo e votata solo per discutibili ragioni di tattica politica e di sopravvivenza parlamentare anche da chi l’aveva avversata).
La sola possibilità di replicare a questa obiezione sarebbe aderire alla tesi che il CSM non sia, in realtà, un organo rappresentativo, come con dovizia di argomenti ha sostenuto, in particolare, Salvatore Mazzamuto [15]. E, sulla base di questa premessa, sarebbe possibile ammettere un sorteggio (non integrale, ma) parziale, a monte (affidando alla sorte, cioè, l’identificazione della platea degli eleggibili) [16] o a valle [17]. Purtroppo, però, la tesi, pur limitata al (meno estremo) sorteggio “a monte” [18], non convince, né quanto alla premessa, né quanto alle conseguenze.
Non quanto alla premessa, perché se è vero [19] che i componenti togati del CSM non assicurano la “rappresentanza” privatistica (Vertretung) dei loro elettori, né quella istituzionale del potere giudiziario [20] e nemmeno quella politica delle realtà associative (Repräsentation), l’elezione comporta sempre un rapporto rappresentativo, nel senso che attraverso l’eletto v’è fatalmente un rispecchiamento degli elettori nell’organo elettivo [21]. Dire che il CSM non è un organo in cui debbano rappresentarsi interessi di gruppo [22] non è dunque sufficiente, così come non lo è il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 142 del 1973 (la cui motivazione fu scritta dall’autorevole penna di Vezio Crisafulli) [23], nella quale si negò “che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l’ordine giudiziario”, peraltro ammettendo che potesse parlarsi di “organo a composizione [solo] parzialmente rappresentativa” unicamente in ragione della presenza dei membri di diritto. Che il CSM non rappresenti (meglio: non debba rappresentare) “liste”, “correnti” o “associazioni” e che non assicuri l’“integrale rappresentanza” dell’ordine giudiziario è evidente, ma non è meno evidente che gli eletti rappresentano i propri elettori, nel senso che “stanno per” loro, rendendo anwesend (presente) colui che è abwesend (assente), per riprendere la felice formula schmittiana [24]. Se la Costituzione dice che i componenti del Consiglio sono eletti, insomma, vuol dire che sono rappresentativi e se sono rappresentativi non sono sorteggiabili.
Non quanto alle conseguenze. Il ricorso al sorteggio è fortemente deresponsabilizzante [25] e non offre alcuna garanzia di competenza, specie in riferimento ad attività così complesse quali sono quelle confidate dalla Costituzione e dalla legge al Consiglio. “Ogni magistrato in servizio per il semplice fatto di vedersi attribuito dalla Costituzione il compito di giudicare della vita dei cittadini è di per sé idoneo ad amministrare le carriere dei propri colleghi” [26], si sostiene, ma a parte il fatto che - come poi dirò - al magistrato non è consentito “giudicare della vita dei cittadini”, non è affatto detto che giudicare (o esercitare l’azione penale) sia garanzia d’idoneità all’esercizio di compiti organizzativi e di (delicata) amministrazione [27].
Quel che più conta, però, sono i devastanti effetti sistemici che avrebbe l’introduzione adesso, a caldo (non al “freddo” di un’originaria decisione costituente) [28], di un metodo come quello del sorteggio, che equivarrebbe - puramente e semplicemente - a una dichiarazione di massima sfiducia nei confronti della magistratura e alla manifestazione della certezza ch’essa sia incapace di emendarsi e di scegliere virtuosamente i propri rappresentanti [29]. Con la conseguenza che la sua delegittimazione sarebbe totale e che l’intero ordinamento giuridico subirebbe un tremendo contraccolpo: chi mai si assoggetterebbe pacificamente al giudizio di qualcuno che lo stesso legislatore ha considerato così inaffidabile da sottrargli addirittura la facoltà di scegliere fra i suoi pari?
Scartata questa ipotesi estrema, è bene dunque non alimentare soverchie illusioni ed è più saggio dare per scontato che il cambiamento delle regole elettorali della componente togata del CSM sia solo una tessera di un ben più ampio mosaico, i cui contorni cercherò poi di abbozzare. Del resto, in più di sessant’anni si sono succeduti plurimi sistemi elettorali per la selezione della componente togata e nessuno è mai risultato del tutto soddisfacente: di miracoli è difficile farne [30].
4. Cosa si vuole
Cosa si vuole ottenere, però, con la riforma? È semplice rispondere che si dovrebbe perseguire il fine della moralizzazione e che si dovrebbero impedire le pratiche degenerative che (al di là della rilevanza penale o meno delle varie fattispecie emerse alla luce, che qui non interessa) le recenti inchieste hanno messo a nudo. Ma per capire dove e come agire si deve preliminarmente stabilire quali sono le cause della degenerazione. Tornerò in chiusura su una questione di lungo periodo e che a me sembra capitale per l’intera magistratura (non solo per quella ordinaria, intendo, ma anche per quelle speciali), limitandomi ora a svolgere qualche considerazione su quella che si deve considerare la causa immediata, cioè sul malfunzionamento dell’associazionismo in magistratura (suggerisco di non parlare mai più di “correnti”, perché il nomen sovente determina, più che descrivere la res e qui il nomen evoca direttamente la distorsione). Vediamo.
Partirei dal dato normativo, come del resto dovrebbe essere naturale per il giurista positivo, ponendo a raffronto l’art. 11, comma 2, della legge 3 aprile 1926, n. 563 (“Disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro”) e l’art. 3, comma 1, lett. h), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (“Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150”). Mentre il primo stabiliva che “Sono [...] vietate, sotto pena della destituzione, della rimozione dal grado e dall’impiego, e di altre pene disciplinari da stabilirsi per regolamento secondo i casi, le associazioni dello stesso genere [cioè le associazioni sindacali] di ufficiali, sottufficiali e soldati del Regio esercito, della Regia marina, della Regia aeronautica e degli altri Corpi armati dello Stato, delle provincie e dei comuni, le associazioni di magistrati dell’ordine giudiziario e amministrativo, di professori di istituti d’istruzione superiore e media, di funzionari impiegati ed agenti dipendenti dai Ministeri dell’interno, degli esteri, e delle colonie”, il secondo dispone che costituisce illecito disciplinare (al di fuori dell’esercizio delle funzioni) “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato”.
Desumerei da queste due previsioni normative la precisa indicazione di un’assoluta diversità del trattamento dell’associazionismo fra i magistrati da parte del fascismo e della Repubblica, diversità che è imposta dall’art. 8 Cost. Se il fascismo poteva comprimere la spinta associativa sino ad annullarla [31], il legislatore repubblicano ha dovuto procedere in modo molto più cauto. Come si legge in una nota, recente, pronuncia della Corte costituzionale relativa alla seconda delle disposizioni citate, “i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino”, ma “le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale, al fine di stabilire i limiti che possono essere opposti all’esercizio di quei diritti”, limiti che tuttavia non devono oltrepassare quanto è strettamente necessario per “impedire i condizionamenti all’attività giudiziaria” [32].
Ora, se (sia pure entro determinati limiti) una libertà è garantita dalla Costituzione, significa che l’ordinamento non si limita a tollerarla, ma la considera una risorsa, nella prospettiva (a suo tempo dischiusa da Esposito e Crisafulli) [33] che è attraverso i diritti costituzionali che i cittadini esercitano la loro sovranità. Lo stesso vale per l’associazionismo dei magistrati, il quale - allora - per definizione costituisce una risorsa costituzionale e non una patologia, come ha puntualmente colto il capo dello Stato osservando che “la dialettica fra posizioni diverse, il cui valore è indiscutibile, come espressione di pluralismo culturale, rappresenta una ricchezza per le nostre istituzioni” [34]. Sgombriamo subito il campo, allora, dalle pretestuose polemiche sulla libertà di associazione dei magistrati e sul pluralismo che - una volta che la si è riconosciuta - può ovviamente caratterizzarla. È la naturale espansività dell’art. 18 Cost. a comportare questa conseguenza e chi contesta l’associazionismo contesta, in realtà, il valore costituzionale del pluralismo. Del resto, questa espansività è così forte che la Corte costituzionale, di recente, ha fatto cadere anche il divieto di associazionismo sindacale militare, stabilendo che, sia pure con le necessarie cautele, “va riconosciuto ai militari il diritto di costituire associazioni professionali a carattere sindacale” [35].
Questa premessa era necessaria per chiarire che la riforma del sistema elettorale del CSM non può essere l’occasione per stroncare la libertà di associazione dei magistrati qua talis, specie a fronte di un associazionismo nato e prosperato anche per la spinta di legittime pulsioni ideologiche e culturali [36]. Un simile intento sarebbe, puramente e semplicemente, distonico con l’apertura pluralistica dell’impianto costituzionale. A cosa, dunque, si può legittimamente mirare?
Abbiamo visto che l’obiettivo generale è combattere le degenerazioni del correntismo (insisto: utilizzo tale termine in senso volutamente peggiorativo) [37]. Il punto critico, però, sta nella determinazione di quali siano tali degenerazioni. Esse, infatti, si possono collocare a monte o a valle del procedimento elettorale. Per quelle a valle non dovrebbe esserci un grande dissenso, perché dubito che qualcuno possa sentirsela di giustificare il condizionamento correntizio di alcune decisioni del Consiglio, specie sul terreno rivelatosi oggi più fangoso dell’assegnazione degli incarichi direttivi o semidirettivi [38]. Più complesso il ragionamento per quelle a monte, perché non tutti sono d’accordo sulla necessità di sottrarre alle associazioni la selezione delle candidature e - chiamiamo le cose col loro nome - la campagna elettorale. Cerco di dire come stanno, secondo me, le cose.
Che vi sia o non vi sia un’organizzazione di tipo associativo, non esiste alcun procedimento elettorale complesso nel quale non si confrontino gruppi comunque organizzati di opinione. È la logica stessa della competizione elettorale, nella quale si richiede la conquista del maggior numero di voti, che impone di appoggiarsi ad altri per facilitarla, sicché, almeno quando i numeri dell’elettorato attivo sono alti, è inevitabile che si costituiscano forme organizzative, magari embrionali, con lo scopo di facilitare il compito del candidato. Criticabile o meno che sia nel merito, dunque, l’intento di impedire la presa dei soggetti organizzati sul procedimento elettorale a me sembra del tutto velleitario.
Quella presa, tuttavia, non deve giungere sino a elidere la qualità degli eletti, scaricando tutto sull’appartenenza. In primo luogo, non si tratta di elezioni politiche, sicché il criterio dell’appartenenza associativa dovrebbe essere solo uno di quelli che guidano l’elettore. Inoltre, quand’anche si trattasse di una competizione politica, le cose non cambierebbero molto, visto che la Corte costituzionale ha mostrato con chiarezza che l’elettore dovrebbe comunque avere un potere di scelta della persona dell’eletto, sciaguratamente negato dalle più che discutibili leggi elettorali degli ultimi anni [39]. Un obiettivo ragionevole, allora, è quello di rendere compatibile la realtà dell’associazionismo con la necessità di consentire agli elettori di scegliersi eletti di qualità (morale e professionale) e sorretti da un consenso reale. Ma come si può fare?
5. L’eterogenesi dei fini e il legislatore consapevole
Dico subito che non mi permetterò di aggiungere un’ennesima proposta originale al lungo elenco di quelle che sono oggi sul campo. Preferisco fare qualche osservazione sui rischi che, nolenti i loro proponenti, alcune scelte comportano, suggerendo, poi, di riflettere su un sistema elettorale ben conosciuto, in uso in molti paesi anglosassoni.
i) I sistemi maggioritari. La preferenza per sistemi di questo tipo è in genere imputabile alla volontà di far prevalere la scelta delle persone su quella delle associazioni, ma dubito che il mezzo sia adatto allo scopo.
Anzitutto, simili effetti il maggioritario li produce quando non sono già presenti gruppi organizzati di sostegno alle candidature [40], ma: a) non è questa la realtà di fatto; b) il maggioritario non basta a modificarla (e abbiamo plurime evidenze storiche che sia così); c) anche se la realtà non fosse questa, la logica stessa della competizione elettorale, come accennavo, genererebbe l’esigenza di un’organizzazione. La conseguenza è che quand’anche il coinvolgimento elettorale delle associazioni fosse cancellato da un sistema maggioritario esso sarebbe comunque sostituito da quello di altre forme di organizzazione, meno trasparenti e - per questo - meno responsabili.
Il fenomeno è particolarmente evidente con il sistema plurality, ma anche con il doppio turno non verrebbe meno. Qui, infatti, l’esigenza di conquistare la maggioranza al secondo turno (specie se assoluta, ove si trattasse di turno di ballottaggio) renderebbe essenziali gli accordi, che oltretutto sarebbero difficilmente limitati al piano locale [41], con la conseguente “resurrezione” dell’intervento associativo. Per converso, se l’accordo maturasse esclusivamente in sede locale, il risultato sarebbe forse addirittura peggiore, perché si accentuerebbero il localismo e il difetto di trasparenza nel sostegno alle candidature. Né per ridurre i margini degli accordi varrebbe vietare le desistenze o ridurre all’osso lo spatium temporis fra il primo e il secondo turno, essendo agevole pronosticare che la desistenza potrebbe essere de facto anche se non de iure e che proprio la ristrettezza del margine temporale esalterebbe, non comprimerebbe, il potere dei vertici associativi e favorirebbe scambi a controprestazione indebitamente differita (nella sede delle decisioni del CSM, cioè) [42]. Modelli simili, poi, rendono piuttosto complicata la rappresentanza di genere, ostacolata dal fatto che chi vince vince tutto: non a caso, per ovviare all’inconveniente talora si propone un’articolazione in collegi binominali [43], che tuttavia accentua l’effetto disrappresentativo del sistema.
Infine, si deve considerare che il maggioritario accentua la polarizzazione delle posizioni, stimolando una divisione della quale mi sembra che la magistratura e in particolare un organo di amministrazione della giurisdizione come il CSM non abbiano oggi alcun bisogno [44].
ii) I sistemi proporzionali. I sistemi proporzionali costituiscono un genus dalle plurime species, sicché è arduo abbozzare un qualche discorso unitario. Immaginando, però, di chiamare così solo i sistemi maggiormente proiettivi (liste concorrenti; collegi ampi; voto di preferenza), il loro effetto nel caso del CSM è stato e sarebbe essenzialmente quello del potenziamento dell’associazionismo di livello nazionale [45]. Senza opportuni correttivi, dunque, non ne emergerebbe quella dialettica fra garanzia del pluralismo associativo e valorizzazione del merito individuale che oggi sembra indispensabile. Per converso, considerata la sostanziale ineliminabilità dell’apporto elettorale dei gruppi organizzati, quali ch’essi siano, tali sistemi esibiscono almeno il vantaggio di favorire la trasparenza e la responsabilità dei vari players. Infine, tali sistemi rendono piuttosto agevole assicurare la rappresentanza di genere.
iii) I sistemi c.d. misti. A eccezione del maggioritario con collegio unico nazionale, di sicura incompatibilità con il principio democratico e non a caso utilizzato nei sistemi totalitari, tutti i sistemi elettorali sono, in qualche modo, misti quanto al “rendimento”, nel senso che, nel complesso, non producono risultati esclusivamente maggioritari o esclusivamente proporzionali. Sovente, peraltro, lo sono anche quanto alla “formula” (cioè al meccanismo di trasformazione dei voti in seggi) ed è a quelli così caratterizzati che ci si riferisce quando si usa tale espressione. Si tratta pertanto di sistemi che mescolano formule di famiglie diverse (cioè dei sistemi maggioritari e di quelli non maggioritari, proporzionali o - come nel caso del voto limitato o del voto plurimo - non proporzionali che siano). Sistemi di questo tipo, in genere, hanno un rendimento difficilmente prevedibile, perché il peso relativo delle varie formule non dipende da fattori astratti, ma dal sistema dei partiti (nel caso delle elezioni politiche) o comunque (in un caso come quello di cui ci stiamo occupando) dalla concreta situazione dell’elettorato attivo, dalla distribuzione territoriale delle opinioni e dai meccanismi di captazione del consenso. L’esempio del rendimento essenzialmente proporzionale di un sistema per tre quarti a formula maggioritaria come quello delle leggi nn. 276 e 277 del 1993 sembra assai istruttivo.
Complessità e imprevedibilità sembrano, in definitiva, le caratteristiche essenziali della legislazione elettorale, sicché è davvero imprudente immaginare di raggiungere infallibilmente gli obiettivi desiderati. L’imprevedibilità e la complessità, poi, aumentano se, oltre le norme relative all’elettorato attivo e passivo e alla “formula” si considera la legislazione elettorale di contorno (cioè la disciplina degli altri profili del procedimento elettorale)[46]. Questo non significa, però, che non ci siano almeno dei paradigmi di orientamento delle decisioni. Provo a farvi cenno.
a) Nel procedimento elettorale preparatorio è cruciale la disciplina della presentazione delle candidature. Qui i tentativi di arginare le degenerazioni correntizie dell’associazionismo hanno fatto leva soprattutto sulle modalità di presentazione e sulla raccolta delle eventuali firme a sostegno [47], ma ritengo sia evidente che si tratta di rimedi di modesta efficacia: utili, sì, ma che “mordono” poco [48]. Più drastica sarebbe la misura della valorizzazione del merito dei candidati, allo scopo di restringere la platea degli eleggibili ai soli candidati di prestigio. Anche qui, comunque, si dovrebbero risolvere il problema delle modalità di accertamento del merito e quello dell’impossibilità dell’accertamento del merito morale, tanto decisivo quanto insondabile.
b) Quanto alla campagna elettorale, non sarebbe impossibile disegnare regole moralizzatrici che riducano l’impatto della pressione associativa e valorizzino l’impegno del singolo candidato. Anche qui, però, la varietà degli strumenti tecnologici a disposizione dei supporters renderebbe quelle regole di dubbia efficacia.
c) Quanto allo scrutinio, si sarà inteso che sul buon rendimento dei sistemi maggioritari (uninominali a unico o doppio turno o binominali che siano) nutro forti dubbi. Quelli proporzionali, però, senza correttivi rischiano di esaltare, non di ridurre, il ruolo dell’associazionismo organizzato, anche nelle sue manifestazioni meno commendevoli. Penso, allora, che la scelta debba dirigersi verso sistemi che, pur proporzionali o misti (nel senso già detto), valorizzino la scelta delle persone, attenuando le contrapposizioni per schieramenti ideologici.
Il campo, qui, è sterminato, ma si segnalano almeno: il modello tedesco (con il 50% dei seggi assegnato in modo maggioritario e il restante 50% assegnato proporzionalmente in funzione di riequilibrio complessivo); il vecchio modello del Senato, con o senza la previsione della mirabolante soglia del 65% per la conquista immediata del seggio [49]; il sistema del voto singolo trasferibile, che consente di tenere conto delle seconde, terze, quarte, etc. preferenze dell’elettore.
Non nascondo che la mia preferenza va largamente al sistema del single transferable vote. Questo sistema è stato suggerito già dalla “Commissione Balboni” [50] e ad esso fugacemente accenna la Risoluzione sulla relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione ed al funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, approvata dal CSM con Delibera consiliare del 7 settembre 2016. Esso notoriamente coniuga i vantaggi di una rappresentanza proporzionale con quelli della scelta delle persone e, poiché ne esistono infinite varianti, basta dire che la sua logica è quella della conservazione delle preferenze dell’elettore, evitando la nefasta conseguenza dei sistemi maggioritari, nei quali non solo chi vince mangia l’intera torta e chi perde resta completamente a digiuno, ma anche chi vince con un margine largo usa tantissimi voti per ottenere il medesimo risultato (il seggio) di chi vince con un margine esiguo. Qui, invece [51], l’elettore, in un collegio plurinominale - poniamo - di cinque candidati, ordina le proprie preferenze assegnando il primo posto a Tizio, il secondo a Caio, il terzo a Sempronio, il quarto a Mevio e il quinto a Filano, al di là della loro appartenenza partitica o (come nel caso che ci interessa) associativa. A questo punto, possono scattare plurime ipotesi di conteggio delle preferenze, ma qui mi limito a una delle possibili varianti. Immaginiamo che solo Tizio abbia superato la quota di voti che gli consente di essere eletto (in genere, il totale dei voti espressi diviso per il numero dei seggi più uno). Quindi, per evitare che le preferenze dei suoi elettori siano disperse, una volta eliminati i voti necessari per vincere, vengono utilizzate le sue seconde (terze, quarte, etc.) preferenze, riversandole (in una determinata misura percentuale) sui candidati indicati sulle schede. Se in questo modo - poniamo - Mevio supera la quota, egli viene eletto e stavolta sono le sue seconde preferenze che si calcolano, e via così. Se, invece, nessuno ce la fa, si elimina l’ultimo classificato, poniamo Sempronio, del quale si utilizzano le preferenze, etc. etc.
È evidente che un simile sistema, consentendo all’elettore di scegliere oltre gli steccati ideologici, valorizza le persone. Non solo: dando all’elettore un potere enorme [52], riduce di molto lo spazio delle negoziazioni correntizie. Esso, però, implica pur sempre una competizione non solo tra singoli candidati, ma anche tra soggetti collettivi (nel nostro caso, le associazioni), perché è concepito non come un sistema maggioritario, ma come un sistema proporzionale a struttura maggioritaria. Non è dunque un single transferable vote, ma un alternative vote quello che è immaginato dagli Onn. Ceccanti e Marco Di Maio con la Proposta Camera, XVIII Legislatura, n. 227. In quella Proposta, infatti, si prospetta l’esigenza di “supera[re] il sistema proporzionale in favore di un sistema a collegi uninominali maggioritari” e non a caso si stabilisce che “Sulla scheda sono riportati esclusivamente i nomi e i cognomi dei candidati, senza alcun simbolo identificativo” (art. 3, comma 1). Si tratta dunque di un sistema maggioritario, non (sia pur selettivamente) [53] proporzionale quale quello del voto singolo trasferibile, non a caso proposto, nel Regno Unito, da quella Electoral Reform Society che intende superare il sistema maggioritario per introdurre nel sistema politico inglese elementi di proporzionalità.
L’effetto del single transferable vote, certo, è tendenzialmente centripeto (nel senso che penalizza le piccole formazioni collocate alle estremità), ma questa conseguenza, che invero taluno potrebbe apprezzare, sembra poter essere tollerata anche da chi non la gradisse, considerati gli enormi vantaggi che per altri profili il sistema assicura.
Può darsi che anche qui l’eterogenesi dei fini sia in agguato, ma confido di poterla escludere [54].
6. Il sistema elettorale della componente togata e il suo contesto
Ho detto sin dall’inizio che se il cambiamento del sistema elettorale è indispensabile, comunque, non basta. Provo ora a dire perché.
Trascuro questioni anche molto importanti, come il regime del fuori ruolo [55] o il passaggio dalla magistratura alla politica (e viceversa) [56], per venire a quello che a me sembra l’essenziale. In una recente occasione, cioè in una Relazione al Corso straordinario organizzato dalla Scuola della Magistratura su “Le garanzie istituzionali di indipendenza della magistratura in Italia”, tenutosi a Roma, in Banca d’Italia, il 5 novembre 2019, alla presenza anche del capo dello Stato, ho ritenuto di mettere in evidenza due cose: che la moralizzazione dell’attività del CSM dipende anche dal modo in cui la si disciplina (ad esempio evitando le nomine a pacchetto o definendo rigorosamente i tempi delle decisioni) [57] e che non si esce dalla crisi se la magistratura non sviluppa una corretta autorappresentazione. Rinvio a quanto allora più distesamente argomentai (il testo è pubblicato) [58] e mi limito a fare qualche brevissima notazione su questo secondo punto.
I magistrati non devono collocare la propria funzione troppo in basso o troppo in alto. Se la collocano troppo in basso, concepiscono il loro come un “mestiere” qualunque, quando - invece - lo si deve intendere come una vera vocazione: il magistrato che “timbra il cartellino” non è migliore del professore universitario che ripete stancamente le lezioni di trent’anni prima e ha smesso di studiare. Se la collocano troppo in alto, finiscono per pensare davvero di poter giudicare della vita delle persone (come - abbiamo visto prima - qualcuno opina), quando il loro compito è applicare la legge, mentre della vita delle persone giudica la loro coscienza o un più alto potere, se vi si crede. Il primo tipo di magistrato fa danni per la sua modestia intellettuale; il secondo per la sua úbris.
Entrambe queste figure negative sono alla base delle degenerazioni. La prima perché ha alimentato il carrierismo. La seconda perché ha alimentato il senso di onnipotenza che traspare da non pochi disdicevoli comportamenti e perché ha inoculato il virus dell’autoreferenzialità.
Da anni, ormai, vado combattendo una battaglia (culturale, per carità, ma pur sempre battaglia) perché, pur rifiutando le ingenuità del giuspositivismo ottocentesco, si cessi di concepire l’interpretazione giuridica come attività creativa (in tutto o in parte che sia) [59] e non cognitiva e perché si torni alla sacrosanta separazione fra diritto e morale che del giuspositivismo è vanto e la cui cancellazione ha generato i mostri della dottrina giuridica del nazionalsocialismo [60]. Il giudice non è un automa, non è un passacarte. Ma non è nemmeno l’erculeo dispensatore di Giustizia di cui alcune fortunate dottrine hanno diffuso l’immagine. Non spetta al giudice rendere Giustizia, per la semplice ragione che la Giustizia, al più, è l’auspicata conseguenza dell’esercizio della giurisdizione, né gli spetta trovare la soluzione più adatta al caso singolo, per la semplice ragione che oltre la legge non esistono parametri oggettivi per dire quale essa sia [61]. Applichi la legge, il giudice, ma con coraggio e impegno prospetti il dubbio sulla sua costituzionalità se quella legge gli appare violativa della Costituzione, cioè di quella che alla fin fine è la sua vera e ultima bussola. E la magistratura requirente sia consapevole dell’immensità del proprio potere non solo per usarlo, ma per usarlo con avvedutezza, comprendendo la gravità delle conseguenze che, in una società imbarbarita, patisce chi è toccato anche soltanto dal semplice sospetto della commissione di un illecito. I tanti bravissimi magistrati che conosco e stimo lo sanno e sanno bene quale sia il potere che hanno e quali ne siano i limiti.
Un pistolotto moralistico? Può darsi. Ma insisto su un punto che da tempo cerco di mettere in evidenza [62]: anche chi non è sensibile al richiamo della morale e pensa solo al proprio interesse dovrebbe pur intendere bene che, come ho più volte scritto, collocandosi troppo in basso l’attuale magistrato-professionale potrebbe finire per essere sostituito da un magistrato-robot e collocandosi troppo in alto potrebbe finire per cedere il passo a un magistrato elettivo. Da cittadino, da studioso e - perché no - da avvocato, non me lo augurerei.
Relazione al Convegno
“Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”,
Roma, 23 giugno 2020.
(Questo testo è destinato alla raccolta di Scritti in onore di Fulco Lanchester)
[1] Politica, 1274a.
[2] Sulla questione, V. Ghezzi, I Locresi e la legge del laccio, in Dike, n. 8/2006, pp. 101 ss.
[3] W. Wundt, System der Philosophie, 2a ed., Leipzig, Engelmann, 1897, p. 328.
[4] Sul rischio dell’eterogenesi dei fini si soffermano, con particolare riferimento alla disciplina dell’elezione della componente togata, ad esempio: M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, Torino, Giappichelli, 2016, vol. III, p. 2630; Id., Le correnti della magistratura: origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Rivista AIC, n. 2/2020, p. 369; R. Romboli, Quale legge elettorale per quale Csm: i principi costituzionali, la loro attuazione e le proposte di riforma, in Questione Giustizia, 25 maggio 2020, p.13.
[5] Molti interventi giornalistici di questo periodo segnalano l’esigenza di cui si parla nel testo. V., ad esempio, L. Violante, Perché serve un altro CSM, ne La Repubblica del 20 giugno 2020; S. Cassese, Intervista ad Angela Stella ne Il Riformista del 20 giugno 2020.
[6] Può leggersi all’indirizzo web www.quirinale.it/elementi/49518.
[7] Può leggersi al sito web del CSM, tra le “news” del 21 giugno 2019.
[8] N. Zanon - F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, 5ª ed., Bologna, Zanichelli, 2019, p. 26.
[9] In questo senso, fra i molti, anche M. Volpi, Le correnti della magistratura, cit., p. 369.
[10] Perciò, più che di concepire un sistema elettorale sotto un “velo d’ignoranza” (così, invece, G. Silvestri, Princìpi costituzionali e sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, in Sistema penale, 20 giugno 2020, p. 2), cosa possibile solo statu nascenti, si tratta di concepire un sistema elettorale secondo considerazioni di sistema e non di parte. Al di là del fatto che questo è il comportamento più conforme a un’etica politica sana (il che potrebbe non interessare molti...), una simile attitudine è suggerita anche dal calcolo personale, perché è fatale che ciò che conviene oggi potrebbe non convenire domani, sicché è alle esigenze complessive del sistema che è saggio avere riguardo.
[11] Sono molti a pensarlo. V., ad esempio, M. Cecchetti, Giustizia e politica: spunti di riflessione e linee di priorità per un rinnovato equilibrio tra i poteri della Repubblica, in Federalismi.it, n. 16/2008, p.6.
[12] In questo senso, tra gli altri, G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova, Cedam, 2005, p. 167; G. Scarselli, La riforma del CSM, in Aa.Vv., L’ordinamento giudiziario a dieci anni dalla legge n. 150 del 2005, a cura di G. Ferri e A. Tedoldi, Napoli, ESI, 2016, p. 200.
Anche alcuni dei proponenti la soluzione del sorteggio lo riconoscono (v., ad esempio, L. Violante, Un’idea di sorteggio per il Csm: è in gioco la libertà, ne Il Foglio del 31 maggio 2019; P. Zanettin, Intervista a G. Coviello, in VicenzaPiù del 24 maggio 2020, che tuttavia ha presentato alla Camera dei deputati - con E. Costa - una proposta di legge ordinaria - la n. 2536 - che contempla una forma di sorteggio “a monte”, essa pure bisognosa di revisione costituzionale).
[13] Correttamente osserva, ad esempio, G. Tamburino, CSM, Sistema elettorale, Sezione disciplinare, in Giustizia Insieme, n. 1-2/2011, p. 105, che “La casualità, il rinvio al fato non è «elezione», bensì il suo opposto”.
[14] V., ad esempio, M. Ainis, Il sorteggio dei migliori, ne La Repubblica, 7 giugno 2019.
[15] S. Mazzamuto, Per una riforma del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura e della Sezione disciplinare, in Giustizia Insieme, n. 1-2/2011, pp. 107 ss.
[16] S. Mazzamuto, Per una riforma, cit., p. 113.
[17] V. indicazioni in L. Chieffi, La magistratura. Origine del modello costituzionale e prospettive di riforma, Napoli, Jovene, 1998, p. 195.
[18] Di recente, l’ipotesi è stata giustamente qualificata come un aggiramento dell’art. 104 Cost. da A. Spataro, Il Csm e la moralità da recuperare, ne La Repubblica del 21 giugno 2020; analogamente, V. Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in Questione Giustizia, 26 giugno 2019, 3.
Per la sua compatibilità con la Costituzione, invece, M. Vaccari, Intervista ad A. Ricciardi, in Italia Oggi del 10 giugno 2020. Quanto al sorteggio “a valle” (cioè fra i più votati), il contrasto con la Costituzione è ancora più evidente, perché – come è stato correttamente rilevato (da C. Salazar, Questioni vecchie e nuove sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in Giudice Donna, n. 2-3/2019, p. 5) – in questo caso i magistrati “votano”, ma non “eleggono”.
[19] Analogamente, da ultimo, G. Silvestri, Princìpi costituzionali, cit., p. 9; R. Romboli, Quale legge elettorale per quale Csm, cit., p. 23.
[20] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad cost., 1989, pp. 471 ss., ora in L’ordinamento giudiziario, II, Napoli, ES, 2019, pp. 1071 ss.
[21] Tanto che la questione, semmai, diventa quella dell’eliminazione delle “valenze improprie del circuito rappresentativo” C. Pinelli, Le proposte di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, in Aa.Vv., Magistratura, CSM e principi costituzionali, a cura di B. Caravita, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 4. Dissento, peraltro, da Mezzanotte quando, più avanti (ivi, 13), afferma che sui giudici si rovescerebbero “enormi problemi di legittimazione” qualora “l’esercizio della giurisdizione fosse emancipato da qualsiasi onere di corrispondenza ai valori”. Per me vale, infatti, l’esatto contrario: è il soggettivismo della giurisprudenza per valori che mette a rischio, oggi, la legittimazione di una magistratura che - almeno in Italia e nei paesi di diritto romano - continua a essere reclutata per concorso e non elettivamente. Sul punto, mi permetto di rinviare, da ultimo, al mio L’errore di diritto e l’interpretazione della norma, in corso di pubblicazione in Questione giustizia, n. 3/2019.
[22] S. Mazzamuto, Per una riforma, cit., p. 116.
[23] S. Mazzamuto, Per una riforma, cit., pp. 114 ss.
[24] C. Schmitt, Verfassungslehre, 5a ed., Berlin, Duncker & Humblot, 1970, p. 243.
[25] Così G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia, n. 4/2017, p. 27, e (riprendendo N. Urbinati - L. Vandelli, La democrazia del sorteggio, Torino, Einaudi, 2020, 19) E. Bruti Liberati, Quale sistema elettorale per quale CSM, in Giustizia Insieme, 18 giugno 2020, p. 2.
[26] S. Mazzamuto, Per una riforma, cit., p. 110.
[27] Correttamente lo rilevano, ad esempio, C. Salazar, Questioni vecchie e nuove, cit., p. 5; R. Romboli, Quale legge elettorale per quale Csm, cit., p. 17.
[28] Intendo dire che se i Costituenti l’avessero scelto sin dall’inizio il sorteggio avrebbe avuto un significato meno delegittimante, perché non sarebbe arrivato dopo una crisi di questa portata della legittimazione della magistratura.
[29] Non si tratta solo di una delegittimazione del CSM, dunque (come peraltro condivisibilmente sostenuto da F. Troncone, La nuova legge elettorale del CSM: una diversa soluzione è possibile, che può leggersi all’indirizzo web www.unicost.eu/la-nuova-legge-elettorale-del-csm-una-diversa-soluzione-e-possibile), ma di qualcosa di ben più profondo.
[30] L’ammonimento a non coltivare soverchie illusioni è diffuso. V., ad esempio, da ultimo, C. Salazar, Questioni vecchie e nuove, cit., p. 3.
[31] Peraltro, la norma riportata nel testo si riferiva alle sole associazioni di tipo sindacale.
[32] Corte cost., sent. n. 170 del 2018.
[33] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (Note preliminari), in Stato. Popolo. Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, Giuffrè, 1985, p. 122; C. Esposito, Commento all’art. 1 della Costituzione, ora in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, p. 10. Questo filone di pensiero è ripreso da P. Catalano, Diritti di libertà e potere negativo, in Studi in memoria di Carlo Esposito, Padova, Cedam, 1972, III, spec. pp. 1964 ss.
[34] V. l’Intervento già cit. alla nota 4.
[35] Corte cost., sent. n. 120 del 2018.
[36] Da ultimo, le ricostruzioni di G. Melis, Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Questione Giustizia, 10 gennaio 2020, specie 7 ss. (che ampiamente descrive la “svolta” del Congresso di Gardone); M. Volpi, Le correnti della magistratura, cit., pp. 355 ss.
[37] Come ha scritto di recente G. Melis, Le correnti nella magistratura, cit., p. 16, le associazioni/correnti, “da ossatura della democrazia interna della magistratura, da arterie, quali erano efficacemente, di una circolazione sanguigna fondamentale per la stessa esistenza della dialettica, da portatrici di idee e di modelli differenti circa la funzione giurisdizionale e il modo di esercitarla, si sono via via trasformate in ambigue articolazioni di potere”. È questa la distorsione che va combattuta.
[38] Qui, ovviamente, si apre il campo immenso dei criteri di selezione, in cui l’alternativa fra automatismi che penalizzano il merito ed eccesso di discrezionalità che fa correre il rischio di una deriva corporativa (messa in luce, ad es., da V. Onida, La posizione costituzionale del CSM e i rapporti con gli altri poteri, in Aa.Vv., Magistratura, CSM e principi costituzionali, cit., pp. 32 ss.) deve trovare un superamento.
[39] V., ovviamente, Corte cost., sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017.
[40] Analogamente, ora, G. Silvestri, Princìpi costituzionali, cit., p. 8.
[41] Non è detto, dunque, che i sistemi maggioritari e uninominali rafforzino “pressioni ed istanze localistiche”, come aveva accennato già la “Commissione Balboni” e ora sostiene Ed. Bruti Liberati, Quale sistema elettorale per quale CSM, cit., p. 6.
[42] Il problema mi sembra dunque più profondo di quello dell’ostacolo alla “scelta meditata degli elettori” messo in luce da Ed. Bruti Liberati, Quale sistema elettorale per quale CSM, cit., p. 7.
[43] V., da ultimo, la “proposta Imarisio” illustrata nel documento di Area democratica per la giustizia predisposto per la preparazione del Convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”.
[44] L’osservazione è diffusa. Cfr. S. Merlini, Magistratura e politica. Una introduzione, in Aa.Vv., Magistratura e politica, a cura del medesimo, Firenze, Passigli, 2016, pp. 36 ss., e, da ultimo, G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., p. 27; C. Salazar, Questioni vecchie e nuove, cit., p. 11; E. Bruti Liberati, Quale sistema elettorale per quale CSM, cit., p. 8.
[45] Analogamente, R. Romboli, Quale legge elettorale per quale Csm, cit., p. 15.
[46] Sulla distinzione, V. le note riflessioni di F. Lanchester, Gli strumenti della democrazia, Milano, Giuffrè, 2004, p. 295.
[47] Da ultimo, ad es., G. Silvestri, Princìpi costituzionali, cit., pp. 10 ss.
[48] In particolare quanto alla sostanziale inefficacia di una disciplina della presentazione delle candidature che favorisca quelle dei dropouts, C. Salazar, Questioni vecchie e nuove, cit., p. 3.
[49] È questa, da tempo, la proposta di Gaetano Silvestri, ribadita anche negli scritti più recenti (per la prima formulazione, G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 180 ss.).
[50] Come si legge nella Relazione (ora ripubblicata in www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2019/06/balboni.pdf), “Nel caso del Consiglio Superiore della Magistratura esso consentirebbe pertanto di salvaguardare l’esistenza e la rappresentanza dei diversi gruppi associativi nei quali si articola il corpo dei magistrati, impedendo però agli stessi di condizionare in maniera troppo pesante l’attività del Consiglio, attraverso modalità di rappresentanza quasi totalmente bloccate”.
[51] Il funzionamento del sistema è illustrato con molta efficacia da F. Lanchester, Gli strumenti della democrazia, cit., pp. 237 ss.
[52] Analogamente, F. Lanchester, Gli strumenti della democrazia, cit., p. 253.
[53] La selettività dipende, però, soprattutto dalla taglia dei collegi (aumentando quanto più questa diminuisce): F. Lanchester, Gli strumenti della democrazia, cit., p. 265.
[54] Non mi sembra probante la critica di C. Salazar, Questioni vecchie e nuove, cit., p. 12, che un simile sistema sarebbe introdotto “al buio”, non essendo mai stato sperimentato prima. A ben vedere, l’osservazione colpisce qualunque ipotesi di profonda riforma elettorale, per definizione mai applicata prima (quand’anche si trattasse della composizione di formule elettorali già sperimentate).
[55] Di recente, ad esempio, è intervenuto sulla massiccia presenza dei magistrati al Ministero della giustizia V. Onida, Una struttura che va riformata, ne Il Corriere della Sera del 26 giugno 2020.
[56] Il tema è stato affrontato, ad esempio, dalla “Commissione di studio incaricata di predisporre uno schema di progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario”, presieduta da M. Vietti e istituita con dm 12 agosto 2015.
[57] G. Silvestri, Pizzorusso e l’ordinamento giudiziario, in A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, cit., I, XIX. Analogamente, N. Zanon - F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., p. 32. Ulteriori, interessanti, proposte (come quella della valorizzazione delle audizioni dei candidati o quella dell’introduzione della segretezza del voto) sono ora in G. Silvestri, Notte e nebbia sulla magistratura italiana, in Questione Giustizia, 12 giugno 2020, p. 3.
[58] In Osservatorio AIC, n. 1 del 2020, pp. 6 ss., con il titolo Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale.
[59] Confesso di non comprendere cosa s’intenda parlando di “una (ragionevole) dose di creatività” (così, invece, C. Salazar, La magistratura, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 25.
[60] Qualche minima indicazione in M. Luciani, Certezza del diritto e clausole generali, in Questione giustizia, n. 1/2020, p. 71.
[61] Che in uno scritto sul CSM e sull’associazionismo giudiziario si parli anche di interpretazione e applicazione della legge non può certo sorprendere: v. le ampie riflessioni sul punto di G. Melis, Le correnti nella magistratura, cit., pp. 11 ss.
[62] Da ultimo in M. Luciani, Certezza del diritto e clausole generali, cit., p. 72.