Inaugurazione Anno Giudiziario 2019
Signor Presidente della Corte d’Appello, desidero innanzitutto rivolgere tramite Lei, a cui vanno i miei ossequi, un saluto deferente al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede . Saluto i rappresentanti delle Istituzioni, in particolare della Regione e della Città di Roma. Saluto il Prefetto di Roma, i rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura e del Ministro della Giustizia, le autorità civili, religiose e militari. Un saluto caloroso va a tutti i colleghi di questa Corte di Appello, ai magistrati giudicanti e requirenti, alla magistratura onoraria; agli avvocati, senza il rapporto con i quali la giustizia non sarebbe; al personale amministrativo che con tanta dedizione consente alla Giustizia di andare avanti; alle signore e signori che ringrazio per la loro partecipazione a questa udienza.
Ringrazio la Polizia Giudiziaria, in tutte le sue articolazioni, per avere così validamente operato nel distretto, con risultati di straordinario rilievo in molti settori centrali, dal terrorismo ai grandi crimini contro l’economia ai delitti di criminalità organizzata.
Un ringraziamento particolare va agli appartenenti alle Sezioni e ai nuclei di polizia giudiziaria: Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Polizie Locali, Corpo delle Capitanerie, per la loro costante e intensa collaborazione nell’attività di indagine svolta dai pubblici ministeri.
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La Corte d’Appello di Roma ha avviato un percorso di riorganizzazione di grande importanza. I tempi delle decisioni nei vari settori del civile vanno riducendosi significativamente, anche grazie al calo delle sopravvenienze. Nel penale per la prima volta vi è stata un’inversione di tendenza ed è di molto aumentato il numero delle sentenze, da una media di 11.000 nel biennio precedente a ben 14.500 nell’anno in esame. Finalmente nel secondo semestre del 2018 il numero delle definizioni ha poi superato quello delle sopravvenienze. Questo risultato, come ha ricordato il Presidente Panzani, è dovuto a una serie di misure coordinate, che hanno visto nel complesso un diverso approccio all’organizzazione del processo, pur in un quadro di risorse del tutto insufficiente.
Dalla relazione emergono anche le ombre. Permane un grave arretrato, concentrato nelle fasi del giudizio di primo grado e in quello di appello.
Il significativo aumento di “produttività” del singolo magistrato e della Corte nel suo complesso non può ancora compensare il dato cumulato delle sopravvenienze e dell’arretrato degli anni passati. Questo è ancora costituito da oltre 54.000 processi. Se poi i Tribunali fossero in grado di definire effettivamente l’intera mole delle richieste di giudizio prodotte dal pubblico ministero, lo iato sarebbe ancora più grande. Va infatti considerato che nel primo grado una analoga sproporzione ha comportato la scelta, necessitata, di interrompere la trasmissione al giudicante dei processi del monocratico a citazione diretta e di applicare criteri concordati di priorità nella trattazione dei processi in Tribunale. Se, dunque, i Tribunali del distretto fossero in grado di definire tutti gli affari devoluti loro, sulla Corte si riverserebbe un ulteriore carico di lavoro.
In realtà una mole imponente di processi è prescritta o destinata a prescriversi in tempi brevi, come emerso con chiarezza dall’indagine condotta dalla Corte sul proprio arretrato, anche con la collaborazione della Procura Generale.
Si vedrà tra breve quanto la Corte e la Procura Generale hanno fatto per affrontare l’ossimoro di questa emergenza ormai divenuta ordinaria. Occorre però iniziare dall’origine e dunque dal lavoro delle Procure della Repubblica.
Nella relazione presentata alla Corte di Cassazione e alla Corte d’Appello, cui si può accedere tramite il link www.giustizia.lazio.it/appello.it/proc_gen/pgcsc2019, è dettagliatamente rappresentata la situazione delle Procure del distretto e delle iniziative da esse assunte in diversi settori. Obiettivo comune è stato di dare risposta alla domanda di giustizia, pur nella difficile condizione causata dalla ristrettezza delle risorse disponibili e dalla crescente complessità delle procedure, così come dall’aumento delle attribuzioni a risorse invariate.
Le soluzioni percorse sono a volte diverse ma esse sono ricondotte a unità grazie al ruolo della Procura Generale, che ha cercato di adempiere al suo compito di vigilanza e di spinta all’uniformità d’azione attraverso l’adozione di modelli condivisi.
Per citare alcune delle iniziative che hanno trovato base comune, deve ricordarsi l’impegno per dare effettività alle scelte operate dagli uffici, sulla base di quelle del Legislatore, in settori di grande importanza per la tutela di interessi di alto valore costituzionale.
La tutela dei c.d. soggetti deboli, cioè di coloro che per condizioni sociali o personali si trovano a dovere affrontare una reale situazione di disparità rispetto ai loro offensori, è perseguita con la
costituzione di gruppi di lavoro, atti a originare modalità specializzate e uniformi di conduzione delle indagini, a partire dal primo impatto con la polizia giudiziaria. Molte Procure inoltre hanno organizzato strutture di supporto per assistere le vittime, anche in rapporto con organizzazioni del territorio, e locali attrezzati per l’esame protetto.
Sono in corso infine esperienze di coinvolgimento di altri soggetti istituzionali, dal Foro agli Ordini degli psicologici, alla Sanità regionale. Con quest’ultima è in corso un importante progetto per la realizzazione, su base circondariale, di un rapporto diretto con le strutture di Pronto Soccorso, al fine di percepire i primi segni di comportamenti violenti, anche se non denunciati, qualificando il personale per ottenere una risposta immediata e realizzando collegamenti diretti con la polizia giudiziaria. La Regione Lazio partecipa anche con un contributo economico, volto a rendere possibile il collegamento tra le ASL, la polizia giudiziaria e il pubblico ministero.
Il complesso delle iniziative, diffuse nell’intero distretto, può dirsi abbia costituito base della Risoluzione del 9 maggio 2018 del CSM in tema di procedimenti relativi a violenza di genere [1].
Il numero degli omicidi in danno di donne, consumati nel contesto di relazioni personali, i c.d. femminicidi, non è aumentato in termini assoluti, ma è confermata la tendenza a livello nazionale e locale ad un significativo e tendenzialmente stabile aumento in termini percentuali. Mentre, cioè, diminuisce sensibilmente il numero totale degli omicidi, il dato costante dei femminicidi ne determina un forte aumento in valore relativo.
Nel circondario di Roma, poi, vi è stato negli ultimi anni una drastica diminuzione degli omicidi, che ha portato Roma a livelli davvero inimmaginabili qualche anno addietro e che hanno pochi paragoni nelle grandi città del mondo intero. Secondo i dati forniti, si è passati dal già basso numero di venti omicidi volontari nel 2015 a dieci nell’anno solare 2018 [2]. Ancora più rilevante appare, di conseguenza, la proporzione con gli omicidi di donne, che rimangono invece sostanzialmente stabili dal 2015.
E’ un dato, questo, estremamente significativo, perché indica da un lato l’efficacia dell’azione dei pubblici poteri nei confronti del crimine organizzato (cui in passato si doveva la maggior parte di questi delitti) e dall’altro il permanere di un’emergenza nel settore della violenza domestica, nelle relazioni personali e di genere.
La strategia degli uffici del pubblico ministero del distretto è volta dunque anche alla prevenzione, sia per la realizzazione di un sistema di allerta precoce e poi di assistenza delle vittime, sia per la diffusione di modelli di reazione che sono in se stessi efficace strumento per il superamento di comportamenti a rischio e di possibili sottovalutazione dei segnali di allarme.
Anche sul terreno della prevenzione delle gravi conseguenze di condotte di guida stradale fortemente pericolose si sono fatti notevoli progressi. Il protocollo di azione concordato a livello regionale con il Ministero dell’Interno – Polizia Stradale – e con la Regione Lazio è risultato come
buona prassi nazionale ed è stato raccolto anche da altre regioni, così come le direttive impartite da questo ufficio circa gli accertamenti da compiere sui telefoni mobili e sugli altri strumenti di comunicazione in caso di incidente grave, anch’esse seguite da altri uffici giudiziari.
Le strutture sanitarie si sono adeguate alla previsione della possibilità che il pubblico ministero disponga il prelievo coattivo dei campioni, necessari per gli accertamenti in caso di incidente mortale o con conseguenze lesive gravi. La condivisione tra le Procure del distretto dell’approccio giuridico a questo tema delicato e la predisposizione delle strutture ha avuto l’effetto preventivo di far sì che non si sia mai dovuti ricorrere alla coazione.
Analogo impegno è versato nella tutela dell’ambiente. L’accordo raggiunto con la Regione sull’impiego dell’ARPA ha dato buoni frutti ma ci si augura che ancor prima della definizione a livello nazionale delle qualifiche di polizia giudiziaria da attribuire ai suoi funzionari, sia possibile ottenere un ampliamento della base di collaborazione con le Procure.
Risultati non brillanti sono invece da registrarsi per quella parte della tutela del territorio che è costituita dalla demolizione degli immobili abusivi. Nonostante la previsione di un impegno della Regione Lazio, con stanziamenti importanti, i risultati effettivi sono ancora modesti. A macchia di leopardo, si sono avuti risultati positivi in alcune Procure e anche la Procura generale ha potuto eseguire alcune demolizioni, tra cui particolarmente significativo il recupero al patrimonio pubblico di un importante immobile in Guidonia. I risultati sono però molto al di sotto delle aspettative e non hanno ancora raggiunto l’obiettivo di una effettiva programmazione. Questa, in collaborazione con gli enti locali, consentirebbe l’attuazione della normativa, distinguendo tra immobili da demolire, immobili da destinare a uso pubblico e immobili la cui destinazione pubblica può prevedere anche l’assegnazione agli occupanti, con nuovo titolo oneroso. La programmazione depotenzierebbe il timore di demolizioni generalizzate, diffuso nella collettività e causa di gravi inadempienze delle amministrazioni locali; inoltre essa fornirebbe criteri chiari e trasparenti all’azione dei poteri pubblici, evitando l’immagine di casualità nelle scelte o – ancor peggio di discriminazione.
Sarà, questo, obiettivo della Procura Generale per il prossimo anno.
Va invece salutato con apprezzamento il fatto che l’Amministrazione comunale di Roma e il Ministero dell’Interno abbiano finalmente demolito immobili abusivi, realizzati da esponenti di gruppi criminali. Si tratta di un evento ad alto contenuto simbolico, al quale dovrà seguire continuità e una chiara politica di gestione dei beni acquisiti al patrimonio comunale, se non demoliti.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per lo sgombero degli immobili occupati abusivamente e la loro restituzione alla proprietà pubblica o privata. Non ripeto quanto già detto nell’intervento inaugurale dell’anno passato. Finalmente il problema è giunto all’attenzione del decisore pubblico, anche a causa di alcune sentenze del giudice civile, che ha riconosciuto il grave e ingiustificato danno patito dal privato. Questa è stata un’utile sollecitazione ma non può essere la strada sostituiva rispetto al ripristino della legalità violata e rischia di scaricare ingiustamente sul pubblico funzionario il peso della responsabilità di scelte complesse.
Il recente intervento normativo ha sistematizzato le procedure, previsto la successione degli atti necessari sia nei rapporti con l’autorità giudiziaria sia per la tutela di soggetti vulnerabili, attribuito
al privato un indennizzo, la cui entità è correlata al fatto che il proprietario non abbia dato causa per incuria all’invasione dell’immobile.
Anche in questo settore, però, i criteri devono essere chiari, trasparenti e accettabili. Non è un buon esempio il fatto che un immobile pubblico di grande pregio e sito al centro di Roma resti nella disponibilità di un’organizzazione politica, che quindi non dovrebbe creare problemi abitativi (a meno che l’immobile non sia utilizzato per finalità private di alcuni, abuso nell’abuso), mentre si procede a sgomberare luoghi di assistenza per migranti.
Si tratta peraltro anche di un approccio che crea insicurezza, se gli sgomberi non sono accompagnati dalla individuazione di luoghi, anche sulla base delle nuove previsioni normative, dove coloro che sono sgomberati possano trovare alloggio sostitutivo. Non è compito di questo ufficio porre il problema dello housing pubblico e del suo rapporto con il diritto ad una abitazione dignitosa; lo è però quando questo problema si intreccia irrimediabilmente con l’illegalità.
Illegalità quotidiana di chi occupa abusivamente alloggi destinati all’abitazione popolare, cui si accede mediante graduatorie, i cui legittimi aspiranti sono così pretermessi, con gravissime conseguenze anche sulla possibilità di gestione degli immobili di edilizia pubblica. Illegalità collegata anche alla criminalità organizzata, come molti casi hanno ormai dimostrato con la forza delle sentenze.
Un esempio positivo di legalità sono i contatti tra la Prefettura, il Comune di Roma e il Tribunale per le misure di prevenzione per l’utilizzo di grandi immobili recentemente confiscati quale polmone per alloggi temporanei.
Un settore importante dell’impegno comune è costituito dalla effettività della sanzione penale. Una sanzione che non viene eseguita è ben più che inutile: essa contribuisce alla perdita dell’affidamento della collettività nelle istituzioni.
Il pubblico ministero è organo dell’esecuzione. Esso interagisce innanzitutto con la Corte d’Appello e con il Tribunale. Dal lavoro di ricognizione disposto dalla Presidenza della Corte, anche in sede ispettiva, è emerso un numero davvero significativo di decisioni mai trasmesse al pubblico ministero per l’esecuzione. La Procura Generale ha quindi previsto un rafforzamento del suo ufficio esecuzioni, che costituisce eccellenza nazionale per tempi e qualità della risposta, anche nel settore internazionale, per far fronte al prevedibile aumento del lavoro. Già in quest’ultimo semestre si è potuto registrare un aumento del 100%.
In questo contesto si inserisce l’impegno della Corte e della Procura Generale per l’integrale attuazione della nuova disciplina della pericolosità sociale del soggetto incapace. Insieme alla Regione Lazio è stato avviato un importante progetto – di evidenza nazionale – per la migliore gestione delle REMS, strutture previste dal legislatore nazionale in numero inferiore alle effettive necessità. In attesa di un intervento riparatore, ci si è però impegnati a far sì che almeno l’esistente venga utilizzato con criteri di effettiva necessità, attraverso modelli operativi condivisi tra operatori sanitari e della giustizia. Ciò potrà consentire di ridurre l’attuale situazione che vede da un lato la permanenza in carcere di persone in attesa del posto in REMS e dall’altro soggetti socialmente pericolosi che non vengono sottoposti alle cautele e alle cure necessarie.
La legalità quotidiana è il presupposto della sicurezza pubblica.
Legalità non è però solo repressione. Occorre avere piena consapevolezza, ad esempio, della complessità della questione migratoria, che tanto impatto ha sia sulla percezione della sicurezza che sulle attuali politiche securitarie. Se l’ingresso nel Paese è naturale oggetto di politiche, che devono distinguere tra coloro che hanno diritto a vedere affermato o negato in sede giurisdizionale il diritto alla protezione, coloro che possono essere ammessi nel territorio sulla base di altri presupposti e coloro che non vi possono permanere, nessuna vera politica di sicurezza e legalità può basarsi sull’esclusione e sulla discriminazione.
Nessuna politica di sicurezza degna di questo nome può fondarsi sulla marginalizzazione, sulla spinta alla clandestinità e al lavoro nero, quando non all’illegalità quale mezzo di sostentamento. Solo politiche di inclusione hanno un reale ritorno, rendendo le nostre città sicure e arricchendole del contributo di lavoro e di diversità culturale di centinaia di migliaia di futuri cittadini.
La gravità delle conseguenze delle migrazioni non regolate si riflette anche nel nostro distretto nell’espandersi dell’intervento penale, che dovrebbe restare ultima ratio. Ciò avviene nelle condotte di migranti irregolari o di coloro che ne sfruttano la fragilità, nei gravi episodi di reati nella gestione dell’accoglienza, nei potenziali riflessi di scelte di carattere generale sulla responsabilità del decisore pubblico. Politiche migratorie chiare e rispettose dei principi affermati dalle Convenzioni internazionali potrebbero prevenire il ricorso alla sanzione penale nei settori diversi dalla punizione dei trafficanti di esseri umani.
Negli anni difficili del grande flusso migratorio, a partire dal 2013, le coste della Sicilia sud- orientale furono raggiunte da quasi i due terzi degli arrivi in Italia via mare (circa 100.000 nel solo 2014). In quegli anni la collaborazione tra Marina Militare, Guardia Costiera e Forze di polizia rese possibile salvare decine di migliaia di esseri umani in pericolo e al contempo assestare gravi colpi ai vertici delle organizzazioni criminali che gestivano la tratta. In quel contesto si applicò per la prima volta un innovativo approccio che fu poi fatto proprio e ampliato dalla Procura Nazionale Antimafia e che è ora alla base della introduzione del meccanismo di revisione della Convenzione di Palermo, oggetto di un grande impegno della Rappresentanza italiana a Vienna. L’applicazione innovativa della Convenzione di Palermo e dei suoi Protocolli aggiuntivi e delle Convenzioni di Londra sul soccorso in mare e di Montego Bay consentirono l’affermazione della giurisdizione nazionale in alto mare e dei poteri coercitivi ad essa connessi.
Mai, per un solo momento, la punizione dei colpevoli è stata anteposta all’obbligo primario e ineludibile di salvare le vite in pericolo. Il governo italiano ha poi valutato le gravissime sofferenze che i trafficanti imponevano ai migranti, nel deserto e nei campi di raccolta, emerse da tanti procedimenti, tra cui quello che ha portato alla sentenza della Corte d’Assise di Milano, tante volte richiamata nel dibattito pubblico, spesso impropriamente, e che si riferisce a eventi del 2014 e del 2015. Ciò ha portato la Comunità internazionale, con le deliberazioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e poi della Unione, ad affermare la centralità del tentativo di stabilizzare la Libia, come premessa per l’intervento in quel territorio delle organizzazioni internazionali a tutela dei migranti. A seguito dell’impegno italiano, per la prima volta dal 2011 UNHCR e OIM hanno potuto operare in Libia.
Ma occorre dire con chiarezza che quel progetto non era limitato all’interruzione del flusso migratorio. Se così fosse stato, esso non avrebbe potuto sottrarsi alla denuncia di violazione del divieto di respingimento di coloro che hanno diritto – diritto, non supplica – a chiedere la
protezione internazionale nelle sue varie forme. Per questa ragione si prevedeva che UNHCR valutasse subito la legittimazione dei richiedenti e ne determinasse il trasferimento in Europa senza il terribile viaggio nel deserto e per mare. Molti migranti hanno ottenuto questa forma diretta di protezione, anche attraverso il ricollocamento volontario. Questo progetto è infine fallito, sia perché l’instabilità libica è continuata e con essa l’impossibilità di garantire condizioni di vita umane nei campi controllati dal governo di Tripoli, con la vigilanza delle NU; sia per l’insensibilità dei Paesi europei, che hanno rifiutato di accogliere i 6.000 migranti che avevano titolo alla protezione. Solo Italia e in piccola parte Francia e Romania hanno fatto seguire i fatti alle parole.
Solo questa complessa prospettiva, ora naufragata, legittimava quello che altrimenti diviene un respingimento, per il quale l’Italia è già stata condannata nel 2012 dalla Corte EDU.
La dichiarazione di una zona Search And Rescue (SAR) libica, avvenuta nel 2017, non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso. Se la fase del soccorso è certamente diversa da quella della individuazione del porto sicuro, violare quell’obbligo, che discende dalle Convenzioni internazionali e prima ancora dalla Legge del mare, può esporre a responsabilità penale.
Tra gli altri compiti della giurisdizione vi è il dovere di giudicare, in tempi rapidi e con uniformità di applicazione dei principi, le decine di migliaia di procedure pendenti in materia di status. Nessun diritto è tale se è affermato ad anni di distanza; il rigetto della pretesa alla protezione, poi, se avviene a distanza di anni, porta verso la clandestinità e quindi l’illegalità. Il pubblico ministero rafforzerà il suo impegno per contribuire, con la presenza qualificata nelle procedure di riconoscimento dello status, a decisioni rapide e riconoscibili come giuste.
La legalità quotidiana non può essere separata dalla possibilità per il cittadino di vedersi resa giustizia in tempi accettabili anche nel settore penale e anche per i reati c.d. bagatellari, ma che in realtà molto spesso tali non sono e che comunque sono proprio quelli che riguardano la vita di ogni giorno e che concernono fatti basilari della vita civile.
Purtroppo le scelte necessitate dalla enorme sproporzione tra la domanda di giustizia e le risorse disponibili ha fatto sì che quasi tutti gli uffici del distretto abbiano dovuto far ricorso a criteri di priorità nella trattazione dei processi in fase dibattimentale.
A Roma, ad esempio, erano circa 30.000 i processi definiti con citazione diretta dalla Procura ma che il Tribunale non era in grado di ricevere. La pendenza statistica presso la Procura è dunque dipendente dal mero dato di registrazione, che non consente di far carico al Tribunale delle procedure per le quali non vi è fissazione di udienza. Ciò comporta, tra l’altro, la anomala distribuzione del carico anche sull’ufficio del GIP, che si vede costretto a dichiarare migliaia di archiviazioni per prescrizione, al fine di evitare che esse intasino irrimediabilmente il dibattimento.
Va dato atto dell’impegno della Procura e del Tribunale per affrontare il problema, con misure concordate tra gli uffici. Oltre quanto già ricordato circa le archiviazioni per prescrizioni, va segnalato il maggiore ricorso al decreto penale e una più attenta selezione operata dal Dipartimento Affari Semplici. Queste misure hanno sensibilmente ridotto i processi in attesa di fissazione della data di udienza.
Inoltre sono stati fissati pressoché tutti i processi prioritari non prescritti mentre si va chiudendo la forbice tra numero di richieste formulate dalla Procura e numero di udienze che il Tribunale è in grado di fissare: tale risultato è il frutto della depenalizzazione, di un aumento delle udienze fissate e di un significativo aumento delle richieste di archiviazione e dei decreti penali.
In conclusione, è stata quasi raggiunta la parità tra richieste e udienze, con eliminazione dell’arretrato per i prioritari e virtuale riduzione a 7-8.000 dell’arretrato per i non prioritari; anche se ancora molti processi andranno incontro alla prescrizione, nei prossimi due anni.
Resta il dato inaccettabile dell’esito insoddisfacente della giustizia quotidiana, nonostante l’impegno degli uffici.
Occorre dunque con coraggio verificare se le scelte operate in passato, come si è detto necessitate, siano sostenibili o se non sia il caso di porre in maniera chiara e netta il nodo ineludibile del funzionamento della giustizia minore, della sua qualità, dei suoi riti.
Problemi in tutto analoghi deve affrontare la Corte d’Appello. Occorre in primo luogo dare atto che il grande sforzo organizzativo della Presidenza comincia a dare frutti. La Corte d’Appello si è finalmente dotata delle tabelle organizzative. Esse consentiranno di meglio organizzare il lavoro delle Sezioni, con la previsione di una Quinta sezione che è già al lavoro per contribuire ad aggredire l’imponente arretrato.
I dati delle definizioni sono incoraggianti. L’aumento del numero delle prescrizioni dichiarate non è frutto del peggioramento della situazione ma, al contrario, dell’impegno per liberare le udienze da inutili sovraccarichi, ricorrendo alla procedura camerale tutte le volte che è possibile.
L’esame dei processi in attesa di fissazione e la conseguente richiesta della Procura Generale di definizione camerale di quelli prescritti ha contribuito grandemente a semplificare le udienze.
Il protocollo stipulato sul concordato in appello con la Corte e con il Foro, ad iniziativa della Procura Generale, sta avendo ottimi frutti nel consentire udienze ordinate e una valutazione seria delle richieste, così prevenendo quella situazione di disordine e di mancanza di uniformità nelle decisioni che portò in passato alla abrogazione dell’istituto. Non ha purtroppo avuto risposta alcuna dal Foro il tentativo di anticipare il concordato, attraverso la proposta proveniente dalla stessa Procura Generale. Si è stati dunque costretti a cessare questa attività defatigante e divenuta inutile.
Il raccordo tra Procure del distretto e Procura Generale relativo alla anticipata segnalazione dei processi più complessi e delicati ha ottenuto ottimi risultati, che hanno avuto diretto riflesso anche sul proficuo svolgimento delle udienze.
Tra le attribuzioni della Procura Generale, come si è innanzi detto, vi è quello di vigilare sull’uniforme e corretto esercizio dell’azione penale, a partire dalle modalità di iscrizione della notizia di reato.
Si è finalmente dato avvio alla concreta attuazione della riforma delle avocazioni, mediante il filtro secondo criteri di priorità che proprio il distretto di Roma aveva istituito, prima ancora che intervenisse la previsione normativa. Vedremo se il nuovo sistema, purtroppo tuttora privo del necessario supporto informatico, sarà in grado di porre rimedio alle vecchie inefficienze.
Esso si lega strettamente al tema delle iscrizioni delle notizie di reato, nella responsabilità del Procuratore della Repubblica con la vigilanza del Procuratore Generale.
Va dato atto al Procuratore di Roma dell’impegno profuso sin dall’inizio della sua esperienza romana nel rendere trasparenti e verificabili le scelte sulle iscrizioni, anche attraverso la circolare del 2 ottobre 2017 volta a disciplinare in maniera trasparente l’esercizio dei poteri in materia di iscrizione; impegni in anticipo sulle stesse riforme legislative. Proprio questo impegno rende necessario che la Procura generale sappia essere adeguata nell’esercitare le sue attribuzioni di vigilanza.
Occorre riconoscere che l’efficacia del controllo esercitato dalla Procura Generale è ancora incompleta. La Procura Generale ha quindi avviato una riorganizzazione del proprio settore, prevedendo innanzitutto una distinzione tra le procedure in camera di consiglio che si originano da opposizione della parte offesa e quelle convocate per decisione del giudice. Su queste ultime più attento deve essere il controllo della Procura Generale, perché i poteri di avocazione e quelli sollecitatori siano efficaci.
I risultati ottenuti in questo anno dalle Procure della Repubblica e dalla Procura Generale sono davvero significativi. Se ne dà conto nelle relazioni allegate.
In materia di contrasto del terrorismo internazionale va segnalata una questione interpretativa delle fattispecie associative. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio una sentenza di condanna per il delitto di cui all’art. 270 bis c.p., affermando il principio di diritto per il quale l’adesione all’associazione, per essere penalmente rilevante, deve ricevere l’accettazione da parte del gruppo di riferimento, anche per atti concludenti. Al di là del caso concreto, nel quale l’interlocuzione con la struttura centrale di Al-Qaida è talmente continuativa e basata su condotte materiali offensive, da rendere l’arresto tutto sommato non significativo in concreto, risolvendosi in un onere motivazionale nel rinvio, rimane la necessità che si adeguino gli strumenti interpretativi al mutare della realtà, senza che con questo si perda il valore di garanzia del principio di offensività.
Le indagini del ROS e della Procura di Roma, convergendo con quelle della Polizia di Stato in altri casi, delineano la strategia jihadista volta ad accrescere il proprio potenziale offensivo in luoghi dove molto forte è il carattere asimmetrico delle forze in campo, quali gli Stati europei, attraverso un reclutamento diffuso, che utilizza gli strumenti di comunicazione più diversi e che fornisce al reclutato strumenti ideologici, addestramento, metodologie operative e obiettivi. E’ evidente che tali modalità relazionali erano inimmaginabili solo qualche anno fa e sono rese possibili da strumenti e attitudini comunicative in passato ignote; fuorviante è dunque il parallelo con lo spontaneismo armato, che questa Procura conosce molto bene e che con i nuovi fenomeni ha una mera assonanza. Da queste adesioni diffuse l’associazione terroristica assume forza e chi vi aderisce sa bene di contribuire ad accrescere la forza di quella specifica organizzazione. Certo, una volta stabiliti i principi, essi vanno applicati attraverso il raggiungimento della prova di ogni singolo passaggio, ma questo è – appunto – un problema di prova e solo di prova.
La Procura di Roma ha profuso molti sforzi nel tentativo di assicurare alla giustizia i torturatori e assassini di Giulio Regeni. Essi hanno sin qui ottenuto, quanto meno, che non si accettassero verità di comodo.
Con la stessa determinazione la Procura di Roma ha investigato sulla morte di Stefano Cucchi, avvalendosi dell’opera di alta qualità professionale della Polizia di Stato. Anche la Procura Generale ha contribuito a questo impegno, nei giudizi di appello e ricorrendo in Cassazione ove la decisione appariva non soddisfacente ai fini del complessivo accertamento della verità. Su questa strada si andrà avanti in ogni grado di giudizio.
Sono condivisibili, segno di un impegno comune, le sofferte parole del Comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, il quale ha affermato che attraverso la “verità perseguita ad ogni costo” e superando “un silenzio durato troppo a lungo”, i Carabinieri continueranno ad essere un punto di riferimento, esempio di rettitudine, integrità e senso del dovere.
Nel settore del crimine organizzato sono stati ottenuti risultati brillanti, con la conferma in sede di legittimità dell’impostazione della Procura Distrettuale e della Procura Generale, non solo nel riconoscimento del carattere mafioso di alcune organizzazioni, da quelle romane a quelle del litorale, ma anche nella confisca di rilevanti patrimoni, sottratti all’illegalità. Da ultimo, il ricorso per Cassazione avverso la pronuncia liberatoria del patrimonio di Ernesto Diotallevi e dei suoi prestanome ha infine portato al decreto di confisca emesso in sede di rinvio, grazie anche al lavoro della Guardia di Finanza, che in questo settore continua a dare un contributo inestimabile. Attendiamo l’esito del nuovo giudizio di legittimità, ma intanto non possiamo non riconoscere il valore del ritorno al bene comune di un immobile, affacciato su di una delle immagini simbolo dell’Italia, Fontana di Trevi, che era divenuto rappresentazione del potere del crimine organizzato.
Va poi riconosciuto il grande sforzo della Corte d’Appello nella trattazione del processo c.d. Mondo di mezzo. Al di là dell’esito, è già un grande risultato, raggiunto attraverso l’impegno dell’intera Corte, che il processo sia stato concluso in tempi brevi e con il più ampio spazio alle parti.
L’esito positivo dell’appello per il mio ufficio ci consente ora, senza tema di equivoci, di affermare nuovamente che aver riconosciuto il carattere mafioso dell’organizzazione è senz’altro importante. Ma ciò che davvero conto è che sia stato disvelato, e riconosciuto anche in sede di gravame, il grave intreccio tra violenza criminale, pubblica amministrazione e affari che costituisce il tratto caratteristico, specifico e storico, della criminalità romana.
E’ questo un punto di partenza e non di arrivo. Si tratta di comprendere come sia stato possibile il consolidarsi di questo intreccio e quale deve essere la reazione stabile del mondo politico e imprenditoriale.
E’ molto importante riuscire a creare, anche a Roma, quel moto civile che in tante città del sud, avvezze alla minaccia del crimine organizzato, contribuisce ad ostacolare il radicamento delle organizzazioni e a far crescere una coscienza collettiva. E’ questo che vedo sempre più mancante a Roma, città che tutto avvolge in uno sguardo cinico, che sembra aver visto tutto e tutto dimentica. Fa parte dei nostri doveri anche operare perché questo clima muti.
La fiducia non si conquista però né cercando il consenso, né limitandosi a parlare di legalità.
Torna dunque il tema centrale dell’intervento della Procura Generale: dare risposta alla domanda essenziale di giustizia, alla giustizia quotidiana.
Siamo ancora lontani dall’avere superato i problemi strutturali che impediscono la piena risposta della giurisdizione del distretto. Certo, questo dato è dovuto non a scarsa produttività individuale.
Mi permetto a questo proposito di dire una parola chiara. E’ ora di finirla di pensare che il giudice sia una macchina spremibile ad libitum. Il magistrato ha diritto, come in ogni altro Paese europeo, a lavorare con calma, con buona assistenza, in ambienti dignitosi e confortevoli, studiando e dedicandosi alla famiglia e al tempo libero.
Il Ministro della Giustizia ha comunicato che entro il 2019 saranno coperti tutti i vuoti di organico della magistratura e che saranno previsti 600 nuovi posti, così aumentandosi significativamente l’organico della magistratura. E’ una svolta di grande significato che accogliamo con plauso. Essa va completata con analoghe misure per il personale amministrativo e per le strutture, che devono poter accogliere i nuovi arrivati.
Ci auguriamo, in particolare, che si tenga conto degli effetti dell’anticipazione della soglia pensionistica, in un ambiente lavorativo in cui l’età media del personale amministrativo si avvicina a quella soglia.
Premessa ineludibile perché tutto ciò sia possibile sono ambienti di lavoro sicuri e adeguati.
L’opera del gruppo di lavoro sulla sicurezza della Procura Generale ha ottenuto risultati importanti in tutto il distretto, come può vedersi nella relazione allegata, disponibile al link www.giustizia.lazio.it/appello/proc_gen/sic2019. Sono stati appaltati e in larga parte completati lavori di messa in sicurezza degli edifici per milioni di euro. Sono stati conclusi contratti per la vigilanza armata, ancora in termini quantitativi insufficienti ma che contiamo di poter completare entro il 2019.
In questo contesto davvero incomprensibile è stato il provvedimento volto a interrompere la vigilanza della Polizia Penitenziaria negli uffici di piazzale Clodio, il 31 dicembre, senza che il Ministero avesse previsto alcuna soluzione alternativa. Il mio ufficio, responsabile della sicurezza, era pronto a deliberare la chiusura del Palazzo di Giustizia a partire dal primo gennaio.
La Polizia Penitenziaria ha svolto in questi anni un lavoro encomiabile ed in effetti encomi ha ricevuto dallo stesso Ministero. Essa ha avuto la riconoscenza unanime degli operatori del diritto che frequentano questo Palazzo. Sostituire questa Forza di polizia può avere delle ragioni; che queste prevalgano su altre contrarie possiamo dubitare ma non sta a noi decidere. Ciò che è certo è che il Palazzo di Giustizia di Roma deve ricevere la protezione adeguata alla sua importanza e ai gravi procedimenti che vi si trattano. Io spero che si arrivi alla scadenza di maggio con una soluzione seria, che tenga conto delle diverse esigenze e a cui si giunga attraverso il metodo del confronto e non dell’imposizione.
La ristrutturazione della Caserma Manara – pur con tempi che si dilatano continuamente e che richiederebbero invece interventi molto più stringenti – consentirà la realizzazione del polo del civile e dunque contestualmente la liberazione di spazi negli ambienti di Piazzale Clodio. Ciò non basta.
Occorre che finalmente Roma abbia un Palazzo di Giustizia degno di questo nome, ristrutturando gli edifici esistenti e realizzando quanto è necessario per ampliarne gli spazi, rendendoli adeguati alle esigenze degli operatori e dei cittadini. Un Palazzo di Giustizia integrato nel quartiere, con adeguati spazi di parcheggio e una mobilità ridisegnata, in grado di favorire l’interscambio con le altre aree destinate alla giustizia, da piazza Cavour passando per Viale Giulio Cesare. Un Palazzo
che sia anche adeguato alla Capitale, per bellezza e funzionalità, e che integri finalmente nel quartiere il Parco di Monte Mario, rendendolo sicuro e fruibile.
Tutto ciò può essere realizzato. I fondi sono già stati inseriti nella programmazione per la fase progettuale e di ristrutturazione. Vi è già un protocollo d’intesa tra coloro che possono realizzarlo, dal Comune alla Regione. Il Foro è pronto a contribuire con il suo apporto alla fase progettuale. Il Ministero della Giustizia ha contribuito in maniera determinante a questo percorso virtuoso, giacché i suoi uffici tecnici sono stati propulsori del progetto. Manca ora solo la determinazione finale perché si avvii l’interlocuzione con il territorio, premessa indispensabile perché possa passarsi alla progettazione. Roma ha diritto a un Palazzo di giustizia funzionale, decoroso, ben inserito nel suo contesto urbano e – perché no – anche bello.
26 gennaio 2019
1 Queste iniziative, così come i protocolli in materia di ambiente, sicurezza stradale, REMS possono essere reperiti sulla home page del sito della Procura Generale, nella sezione http://www.giustizia.lazio.it/appello.it/base.php?sx=sx_pg.php&inf=proc_gen.php&bc=67.
2 La tendenza sembra costante nel distretto, anche nel circondario di Tivoli, ove si concentrano gravi episodi delittuosi e dove, pur dovendosi registrare ben 11 omicidi volontari nell’anno giudiziario 207/2018, vede comunque una drastica riduzione dal 2014/205, quando erano ben 25.