La sfida culturale di AreaDG: le quote di genere di risultato per il governo autonomo della magistratura

di Paola Di Nicola
giudice del Tribunale di Roma

Nasce a Napoli, con la raffinata ospitalità di Mario Suriano e del Comitato organizzatore, una nuova comunità associata a cui voglio dedicare la parole di una poetessa femminista “senza memoria non c’è futuro perché il presente ha senso solo se ritrova terra, radici e rami da cui partire per raccontarsi”.

 

E la memoria ha bisogno, a sua volta, di un’identità da ricercare, valorizzare e costruire.

È una sfida importante ed entusiasmante che interroga ciascuno di noi, la propria storia personale, culturale e collettiva.

Se ci guardiamo indietro troviamo allora una storia, quella di MD e del Movimento per la Giustizia, fatta di rotture coraggiose con un presente stretto e limitante.

Oggi vorrei augurare alla nuova nata, che ha un nome femminile ed elegante, di cercare nella propria memoria la capacità di osare di nuovo, con le quote di genere di risultato per tutti gli organismi istituzionali rappresentativi della magistratura.

Rompere l’ordinarietà dei riti uguali a se stessi che servono a trascinarsi,

creare un nuovo modo di concepire l’istituzione e l’interpretazione anche in un’ottica di genere,

sradicare i pregiudizi di cui siamo troppo spesso vittime inconsapevoli e che si possono annidare, inevitabilmente, nell’atto di giudicare e nel linguaggio con il quale scriviamo le sentenze e dunque la storia delle persone. 

Per fare questo c’è bisogno di una magistratura avanzata, che osa, che ha coraggio.

Non siamo abituati a misurarci con il tema della differenza di genere in magistratura e sappiamo bene che non è affatto facile. Ce lo dimostra la storia, tutta in salita, dell’Associazione Donne Magistrato Italiane (ADMI).

Che il battesimo del congresso si apra con le parole profonde di Cristina Ornano, una donna, che si misura anche con un tema complesso come quello delle quote, che ha implicazioni e ricadute politiche, culturali e sociali rilevantissime, mi pare di ottimo auspicio rispetto all’identità che andiamo a disegnare.

Ci si chiede se davvero esistano ancora ostacoli culturali e sociali in magistratura, quale sia la differenza tra uomini e donne nell’attività interpretativa e nella gestione di un ufficio giudiziario.

A parte richiamare l’autoevidenza dei numeri della nostra irrilevante presenza nei luoghi decisionali come il CSM, la Scuola Superiore della Magistratura o gli uffici direttivi, unica cosa davvero inconfutabile nella lettura dei fenomeni umani (e non solo), mi piace proporre due esempi della nostra lingua.

Numeri e linguaggio sono armi di potere che affondano nella notte dei tempi perché costruiscono l’identità propria e altrui, senza chiedere il permesso.

Chi li domina, chi li monopolizza ha il controllo ed il potere.

Primo esempio linguistico: Governante.

Al maschile, il governante, è colui che governa un Paese.

Al femminile, la governante, è colei che cura la casa. 

Secondo esempio linguistico: Modello/modella.

Al maschile, il modello è colui che rappresenta il riferimento (morale, politico, sociale, economico, ecc.) da eguagliare.  

Al femminile, la modella è colei che indossa capi di abbigliamento per fotografie, sfilate di moda, corpo.

Questo impariamo dal giorno in cui nasciamo, uomini e donne, e costituisce il nostro sostrato culturale e crea la nostra identità, sia che facciamo i magistrati, sia che lavoriamo alla cassa di un supermercato.  

Insomma la principale caratteristica della nostra tradizione intellettuale è che la struttura della realtà, il suo modo di osservarla, i riti, i tempi e le categorie sono costruiti dagli uomini come modello unico per uomini e donne.

Chiedo ad Area di osare e farsi il volano per introdurre in magistratura pensieri, bisogni, modelli, esperienze del genere femminile nominandolo in quanto tale, dandogli voce.

Si chiama consapevolezza di genere senza la quale la presenza delle donne in quanto tali perpetuerà il presente ed il passato senza memoria ed identità.

La storia di MD e del Movimento per la Giustizia ci ha insegnato che non esiste una toga neutra, perché l’attività interpretativa ha un altissimo senso politico, capace di incidere su assetti di potere dati, tanto da trasformarli.

È l’identità, la formazione, la storia, la cultura di ciascuno di noi ad entrare prepotentemente nell’interpretazione.  A partire dal genere cui apparteniamo che a sua volta ha una storia diversa.

Se così non fosse, non sarebbe stata necessaria un’associazione interna alla magistratura progressista.

La storia del genere maschile e del genere femminile, l’esercizio del potere dell’uno con l’imposizione e l’esclusione dell’altro, ha inciso sull’identità di ciascuno, sulla sua storia, sul suo sostrato. Ha fatto la nostra ineludibile differenza.  

Quindi non puo’ non fare la differenza nella gestione di un ufficio direttivo, semidirettivo, in una formazione decentrata, in un consiglio giudiziario, in una gestione di una cancelleria, nel rapporto con il personale. Nella redazione di una sentenza, nell’ascolto delle parti processuali. Ma ci vuole consapevolezza di genere per capirlo, per vederlo e per evitare l’omologazione, altrimenti riproduciamo un modello maschile che imitiamo anche male. Non farci apprezzare la nostra differenza di donne è uno straordinario lavoro secolare di gestione maschile del potere che ha escluso metà del genere umano e ha posto se stesso come unico parametro.

Non c’è male come risultato: restare unico ed indiscusso modello.

Per vederlo ci vogliono le lenti di genere, cioè consapevolezza che esista la differenza.

Non è lavoro facile.

Negli Stati Uniti ci sono studi importanti, come quelli della professoressa Norma Wiekler, che hanno rappresentato nel concreto quanto l’appartenenza di genere incida sulle stesse decisioni giudiziarie.

Nel nostro Paese ad oggi nessuno ha pensato di studiarlo per questo crediamo che non esista differenza.

Entrare come donne in magistratura a forza di sentenze della Corte Costituzionale perché ritenute inadeguate intellettualmente non è un dato neutro, impone di dimostrare competenza e senso del dovere ogni giorno, anche oggi e per cento anni ancora, nascondendo la nostra contemporanea attività di cura su tutti i fronti, pretesa da noi stesse perché pretesa dal contesto sociale. Ha un costo.

Entrare in un’istituzione in numeri sempre più massicci, ma non essere rappresentate se non in modo modestissimo è la conferma dello stereotipo che ci aveva escluse per la nostra inidoneità.

Troppo spesso ci sentiamo la manovalanza della magistratura, anche di quella cosiddetta progressista.

Se non ci fosse il problema della nostra assenza da luoghi nevralgici come il CSM, non lo porremmo e non avremmo avuto le adesioni di centinaia di colleghi, uomini e donne, per le quote di genere di risultato.

Che le giovani colleghe in partenza per la prima sede confessino, con vergogna, di avere paura di quello che troveranno per il pregiudizio di cui saranno vittime certe, sia per il loro desiderio di avere figli che per la gonna che indosseranno, da colleghi, capi degli uffici, avvocati, imputati e testimoni, è un tema politico e associativo di cui farsi carico o no? 

È la magistratura progressista, è Area, a dovere cambiare passo, a offrire nuove chiavi di lettura ed interpretazione, a costruire nuovi modelli e modelle di gestione del potere, a rompere gli schemi, a volare più alto, a non accontentarsi del basso cabotaggio, a creare consapevolezza di genere maschile e femminile, senza lasciare nessuno indietro, creando opportunità vere per tutti, distruggendo alibi e stereotipi.

È un lavoro entusiasmante. E solo insieme lo possiamo fare, con il contributo di tutti e di tutte.