Rappresentanza di genere e strumenti di riequilibrio nell’Organo di Autogoverno e nei Consigli Giudiziari

di Carla Lendaro
consigliere della Corte d’Appello di Brescia

Assieme a Gabriella Reillo, Paola Di Nicola, Natina Pratticò e Rita Sanlorenzo abbiamo promosso una iniziativa “politica”: una mozione per l’introduzione di ‘quote di risultato’.

La mozione è pubblicata nel sito web di AreaDG e domenica è stata diffusa sulle liste associative suscitando interesse, tantissime adesioni e poche, proprio poche, voci dissenzienti.

 

Una mozione che spero voterete

Dati alla mano, ovunque, l’adozione di tali ‘azioni positive’ ha portato infatti significativi risultati in breve tempo, come nell’elezione del CDC dell’Anm o del CNF dell’Avvocatura o nei CDA delle società quotate in cui, dopo la legge Golfo-Mosca, in soli cinque anni le presenze femminili sono cresciute dal 8% al 23%.

 

Nell’ambito del CSM la questione è stata più volte affrontata.

Vi sono state le delibere CSM del 2010 e quella del 2014 che prevedevano una riserva di “quota ‘minima’ di “un terzo” (sia per la componente laica che per quella togata) e poi quella recente di inizio settembre 2016, basata invece solo sul principio della ‘piena parità di genere’.

Tutte sono state approvate “all’unanimità”, l’ultima ‘senza alcun dibattito’.

Nessuna ha dato luogo all’adozione di concrete soluzioni normative di riequilibrio in chiave di genere.

 

Le ragioni di una tale persistente sotto-rappresentazione sono state ricercate in ADMI Associazione Donne Magistrato Italiane[1],  confrontandoci con la Commissione Pari Opportunità dell’ANM, con i CPO delle magistrate amministrative e contabili in Consiglio di Stato (convegno medaglia d’oro del Presidente della Repubblica) e ancora con il mondo delle ‘accademiche’ in Sapienza; infine il 30 marzo 2017 con SSM Cassazione nel confronto con costituzionalisti, componenti del CNF, l’unica togata oggi al CSM e, per la politica, la Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati.

Abbiamo quindi lavorato sui dati emersi facendolo ‘in rete’ con le diverse voci della società civile.

Il risultato vi è stato.

 

Andiamo per gradi.

 

Qual è la situazione ‘femminile’ nella magistratura?

Ad inizio anni ’90, al nascere di A.D.M.I. le magistrate con funzioni direttive e semidirettive erano solo il 2% mentre nel 2013 (circa quaranta anni dopo) appena il 17% negli incarichi direttivi e il 28% in quelli semidirettivi. Ancora oggi nessuna donna ha raggiunto i vertici dell’ordinamento giudiziario e ricoperto il ruolo di Primo Presidente della Corte di Cassazione o di Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ovvero di Procuratore Nazionale Antimafia. Solo due donne sono procuratore generale di Corte di Appello e solo uno sparuto numero (otto) è presidente di Corte di Appello. In Francia, invece, l’accesso alle donne in magistratura è stato consentito nel 1946 e soli 37 anni dopo, nel 1983, si è avuta la prima magistrata … presidente di “Cour de Cassation”.

Oggi le giudici in Italia caratterizzano la giurisdizione, al 12.9.2016 erano il 51,8% su n.9219 magistrati in servizio (n.4502 uomini e n. 4717 donne).

Un dato enorme ma, nondimeno, non si è ancora acquisita piena consapevolezza che il valore del “genere femminile” è un ricchezza in termini di capitale umano, un patrimonio, un investimento.

Nell’Organo di Autogoverno, dal 1959 ad oggi, da quando ha cominciato a funzionare, solo n. 23 donne su un totale di ben oltre n. 400 componenti (appena circa il 5%) ha avuto la possibilità di fare infatti parte dell’Organo di rappresentanza della magistratura.

L’accesso, per di più, è avvenuto nella consiliatura 1981-1986, ben 22 anni dopo la  sua istituzione per ‘per volere della politica’ (Ombretta Carulli Fumagalli e Cecilia Assanti) mentre si è dovuta attendere la consiliatura 1986/1990 per avere la prima consigliera ‘togata’, Elena Paciotti (la sola cui competa anche un ulteriore primato record: essere stata la prima – e tuttora unica – donna presidente dell’ANM). Poi: una sola togata eletta nella consilatura 2002-2006; quattro in quella 2006-2010; due in quella 2010-2014 e addirittura… una soltanto nell’ultima consiliatura! 

 

La mancanza di una ‘adeguata’ rappresentanza di genere lede i diritti di tutti, non solo quelli delle donne e nuoce fortemente all’immagine dello stesso CSM .

 

Occorre trovare forme e modi per garantire piena rappresentanza ‘di genere’, per valorizzare la “differenza di genere”,  la ‘nostra’ differenza,  quella di tutte noi giudici, più della metà della magistratura.

 

È necessario introdurre nell’Organo di Autogoverno quote di risultato”, una scelta temporanea ma necessaria (due o tre consiliature), non più procrastinabile. 

È la sola strada. Secondo studi della Banca di Italia, infatti, diversamente occorreranno 70 anni per raggiungere l’effettivo equilibrio ‘di genere’.

Non vi è purtroppo più tempo per intervenire con la promulgazione di una nuova legge elettorale, manca un anno alle votazioni e, se non viene trovato un rimedio, ne passeranno altri cinque (4+1).

 

Troppi.

 

La Commissione ‘Scotti’ ha, infatti, concluso i suoi lavori con una relazione priva di articolato di legge, nella quale traspariva la tesi di una possibile non conformità alla Costituzione delle quote ‘di risultato’ nell’elezione dell’Organo di Autogoverno, valutazione questa che abbiamo contestato con un documento presentato già lo scorso 18.7.2016 al Ministro on. Orlando, dallo stesso molto apprezzato pubblicamente.

 

 Proprio l’assenza dei tempi necessari per una “nuova” legge elettorale ha fatto ideare al Direttivo di ADMI, di cui sono la presidente, una proposta di legge di modifica dell’attuale L. 24 marzo 1958 n. 195in chiave di genere’, che certamente non risolve il problema della sotto-rappresentazione femminile ma, di fatto, facendolo emergere e rendendolo palese concorrerà in futuro a risolverlo con la necessaria successiva adozione delle ‘quote di risultato’ da parte del legislatore.

Le “quote” sono uno strumento proporzionale allo scopo di superamento delle differenze e discriminazioni che si intende perseguire: un mezzo ‘temporaneo’ (dieci anni), che non umilia il genere femminile in quanto mira a conseguire in tempi rapidi la piena parità, dopo il quale verranno abbandonate.

Servono a sanare una grave situazioni di disparità ed a generare buone pratiche e produrre valore e superare la persistente disuguaglianza riconducibile, secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2003 “…al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici e al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne un’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese…” e sono con compatibili con la nostra Carta costituzionale,  data l’esistenza del principio fondamentale, come affermato dalla sentenza n.4 del 2010 Corte Cost., della effettiva parità tra i sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, 2° comma, Cost., collegati gli artt. 51 e 117 Cost.

 

Da ieri l’articolato ADMI Donne Magistrato è alla base della proposta di legge ‘Ferranti’ del 24.5.2016 n. 4512, una proposta di legge che illustreremo pubblicamente alla Camera dei Deputati tra la fine di giugno ed i primi di luglio 2017.

 

Quale il suo contenuto?

L’attuale sistema di elezione del C.S.M. di cui alla legge 24 marzo 1958 n. 195 è un sistema  “maggioritario, senza voto di lista”, articolato su tre collegi unici nazionali “a base uninominale” (magistrati di legittimità, magistrati di merito giudicanti, magistrati requirenti)[2].

Un sistema che penalizza concretamente le donne magistrato dando un potere determinante alle ‘correnti’ ed alle loro scelte, consentendo di limitare i candidati a un numero corrispondente (o di poco superiore) a quello degli eleggibili in forza di ‘intese’ preventive attuate dai gruppi associativi e, proprio nei criteri di cooptazione, cela la discriminazione.

La proposta di legge ‘Ferranti’ non garantisce direttamente il risultato della presenza ‘paritaria’ fra donne e uomini nella componente togata del C.S.M. ma mira ad ottenere un incremento della presenza femminile attraverso l’introduzione di una norma di principio ‘generale’ (art. 23, comma 1) e il meccanismo della ‘doppia preferenza di genere’ (art. 25 commi 3 e 5, e art. 26), già introdotto e sperimentato nell’ambito della rappresentanza politica e valutato positivamente anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 4 del 2010.  

Non si tratta di “quote di risultato” dunque, ma è  comunque una seria misura di riequilibrio, nel pieno rispetto della volontà degli elettori.

In concreto, viene portato da uno a due il numero massimo di candidature presentabili in ciascun collegio da parte delle liste di magistrati presentatori, certamente utile perché spinge a sfruttare l’opportunità data dalla legge di esprimere non una sola ma due candidature e di farlo nel rispetto della ‘parità di genere’.

Ed ancora sono previste modalità di redazione dello “elenco dei candidati” distinto per ciascuno dei tre collegi, facendo in modo che sia presentato all’elettore “con alternanza di candidati di sesso diverso”, misura non sostanziale ma innegabilmente utile per la visibilità esteriore dell’intento perseguito.

Ed ancora viene previsto che all’art. 26, al comma 3, venga che aggiunto:

3. Ogni elettore può esprimere sino a due voti su ciascuna scheda elettorale. Il secondo voto deve essere espresso per un candidato di sesso diverso dal primo. E’ nullo il secondo voto nel caso sia attribuito a un candidato dello stesso sesso.”, secondo l’impostazione utilizzata per le elezioni politiche, consentendo la possibilità di esprimere un doppio voto “di genere”,  previsione ritenuta costituzionalmente legittima dalla sentenza n. 4 del 2010 della Corte costituzionale.

Infine viene prevista la modifica della scheda elettorale per rendere palese il ‘secondo’ voto, che se in favore di candidato del medesimo genere risulterebbe ‘nullo’.

 

Vi è, dunque, un percorso in itinere che si sta compiendo faticosamente per implementare la concreta parità ‘di genere’ negli organi decisionali della magistratura, portando così l’Italia, che oggi nelle statistiche internazionali occupa una posizione molto bassa, inferiore anche a paesi africani, al livello degli altri paesi europei.

 

La “mozione” che abbiamo proposto con le colleghe Gabriella, Paola, Natina e Rita va in questo senso e vi chiedo di votarla.

 

Chiedo ancora ad AreaDG,  corrente progressista della magistratura, che da subito sia data una pronta ed operosa attuazione alla legge ‘Ferranti’ con l’adozione di tutte le necessarie ed opportune misure di adeguamento diretta a rendere le sue disposizioni compatibili allo Statuto ed alla Carta dei Valori e chiedo, infine, stante l’imminenza oramai prossima delle votazioni al CSM (estate 2018), di farlo subito, ‘prima’ della approvazione parlamentare essendo una norma di civiltà.

Vedi:

[1] ADMI è un’associazione di donne magistrato,  costituita nel 1990, indipendente da ogni altra organizzazione e che rifiuta ‘ogni connotazione politica’.  Una associazione ‘trasversale’ rispetto alle correnti associative della magistratura e che tra i suoi obiettivi ha quello di “….approfondire problemi giuridici, etici  e  sociali  riguardanti  la  condizione  della  donna  nella  società”   oltre  che     “…di promuovere la professionalità della donna giudice a garanzia dei cittadini e per il miglior funzionamento della giustizia. Una associazione il cui prezioso lavoro ha portato – tra le altre cose, ad esempio – all’istituzione del CPO presso il CSM e poi di quelli CPO distrettuali.
[2] La presentazione delle candidature avviene a cura di una lista di “magistrati presentatori” non inferiore a n. 25 e non superiore a n. 50. Ogni lista di magistrati presentatori non può presentare più di un candidato per ognuno dei tre collegi. Il magistrato-elettore all’atto del voto  riceve tre schede, una per ciascuno dei tre collegi nazionali, e può esprimere una sola preferenza in ciascuna scheda.