Relazione introduttiva
”La giustizia come bene comune“
Sono grato e onorato dell’invito a prendere la parola in un convegno di questa importanza, dove si parla di un tema che mi coinvolge come cittadino prima che come professionista del diritto e studioso dei rapporti fra diritto e società.
Si tratta di un tema di grande ampiezza, sintetizzato in una formula suggestiva oggi ricorrente nel dibattito politico e scientifico. Non solo “il bene comune” al singolare, ma anche “i beni comuni” al plurale sono entrati con forza in questo dibattito. E benché qui non si parli di acque, boschi, stagni e relativi diritti collettivi, inalienabili e imprescrittibili – se ne discute all’Università di Trento, ogni anno, in un convegno specifico, alla presenza di Paolo Grossi – non è peregrino chiedersi se l’approccio non debba essere lo stesso. Infatti l’amministrazione della giustizia, volta appunto a “far giustizia” nel senso non solo materiale, ma anche filosofico-morale – il senso arisototelico, intendo – è essa stessa, o dovrebbe essere, “proprietà collettiva” dei cittadini di un paese, senza distinzione di ruoli sociali o professionali. Se è vero, ciò comporta il diritto dei cittadini all’accessibilità del sistema, alla trasparenza delle procedure nonché alla prevedibilità e comprensibilità delle decisioni, presupposto per la loro apprezzabilità e, se possibile, condivisione.
In questo senso, dovendo restringere l’ambito del mio intervento, credo di poterne tradurre la sintesi in un quesito: in Italia è ancora possibile oggi, in nome dell’ideale comunitario, parlare di centralità della giustizia statale come obiettivo irrinunciabile? Uso questa espressione per riallacciarmi idealmente ad un intervento di alcuni anni fa, preparato per un’occasione simile e poi uscito negli studi in onore di Giuseppe Tarzia, caro collega e amico scomparso poco dopo, e per confessare che, se allora la cultura giuridica appresa quarant’anni prima nell’Ateneo milanese con grandi maestri del diritto positivo mi induceva a tener fermo questo obiettivo come fondamento di uno Stato di diritto, i non molti anni trascorsi mi hanno instillato molti dubbi, che con amarezza ho creduto dover esprimere in diverse sedi.
Mi pare infatti di percepire, in questo tempo difficile e non solo in Italia – ma qui con più chiarezza che altrove – una crisi dell’amministrazione “formale” della giustizia che va oltre i temi ricorrenti, talvolta inflazionati, cioè l’inefficacia, la durata eccessiva delle procedure, la mancanza di mezzi, i ritardi tecnologici, eccetera: vizi antichi di cui si parla sin dai tempi di Vittorio Scialoja e che sono oggetto di interventi talvolta coronati da qualche successo. Il problema è più profondo perché coinvolge, oltre all’amministrazione della giustizia, il diritto stesso. Non mi riferisco qui alla crisi dello Stato, di cui si parla da almeno cinquant’anni e contro la quale si ergono oggi i paladini del cosiddetto neo-sovranismo. Parlo di qualcosa di più inquietante: da un lato, il peso soverchiante di forme generalizzate di devianza dalle regole più accreditate del vivere civile, comuni a tutti gli ordinamenti, dall’altro una tendenza strisciante a delegittimare le procedure e le decisioni che ne scaturiscono. Quanto al primo profilo, la battaglia contro la criminalità organizzata su scala mondiale sembra essere sempre più disperata, malgrado i successi occasionali che a volte consegue: solo pochi giorni fa leggevo che, in Messico, per un dollaro recuperato dai narcotrafficanti, molte decine di milioni sfuggono, provocando immensi accumuli in poche mani di ricchezze di origine criminale: e lo stesso discorso potrebbe farsi riguardo alla pedofilia, al riciclaggio e al commercio di armi, opere d’arte trafugate e perfino organi umani,. Quanto al secondo profilo, sembra prevalere pressoché ovunque, con la Brexit perfino in Inghilterra, un atteggiamento di opposizione irriducibile alla decisione giuridica che non piace. È un atteggiamento motivato da arroganza, speculazione politica, ignoranza delle norme che deriva anche dagli effetti deformanti dell’informazione: sappiamo che il caso singolo strillato in televisione influenza l’opinione pubblica più delle statistiche. Ma su questa tendenza incide anche una mentalità incentrata sui diritti anziché sui doveri, che sono nient’altro che diritti altrui, l’abitudine a avanzare le proprie pretese in termini di diritti non negoziabili, trascendenti i poteri dei decisori formali, fossero pure quelli delle Corti supreme.
Il fatto è che la realtà sociale odierna, come insegnava Niklas Luhmann, il sociologo più influente degli ultimi cinquant’anni, è altamente complessa, perché fra le miriadi di aspettative sociali solo alcune possono essere soddisfatte, e altamente contingente, aperta all’imprevedibile, rischiosa. Da buon tedesco fiducioso nelle regole (era un liberale illuminato e in fondo un conservatore), Luhmann pensava che i sistemi sociali, fra cui quello giuridico, potessero ridurre la complessità, permettendo di filtrare le aspettative secondo principi condivisi, e contenere la contingenza entro previsioni ragionevoli, fondate su aspettative stabilizzate da norme chiare, con conseguente riduzione dei rischi. Vista da un prospettiva meno ottimista (un buon amico da tempo scomparso, Vincenzo Tomeo, usava dire che Luhmann era “il teorico della rassicurazione sociale”), questa appare più che altro una sfida di tutti i giorni.
Mi si è chiesto di parlare di bene “comune”, con implicito riferimento alla “comunità”, cui giustamente si desidera avvicinare un sistema di azioni sociali che per sue caratteristiche intrinseche tende ad allontanarsene perché espressione di una cultura specifica, quella giuridica cosiddetta “interna”, frutto di secolare elaborazione concettuale e tanto raffinata da apparire esoterica ad orecchi comuni. E qui occorre partire dal concetto stesso di comunità, che ha solide radici in sociologia del diritto. La distinzione fra comunità e società (Gemeinschaft e Gesellschaft), tematizzata da Ferdinand Tönnies nel suo libro del 1887, non può essere ignorata. Esiste ancora una “comunità”, nel senso tönnesiano di società armonica, identitaria. Raccolta attorno a valori condivisi, cui fare riferimento? Forse, ma va cercata nel più vasto contesto di un mondo che, per moltitudine di interconnessioni, sembra più “societario” che “comunitario”. Certamente esistono ancora villaggi isolati, ma sempre meno (perfino le tribù amazzoniche stanno abbandonando il loro rifiuto della cosiddetta civiltà, se non altro per combattere le devastazioni ecologiche che essa importa nei loro territori). Forse possiamo anche dire che esistono piccoli contesti sociali molto integrati (Oñati, nei Paesi baschi spagnoli, dove attualmente trascorro buona parte del mio tempo per dirigere l’Istituto internazionale di sociologia giuridica, è uno di questi) e altri contesti similari inseriti nei grandi contesti metropolitani. Ma nessuno è isolato, ognuno è collegato con il mondo, ormai definito “villaggio globale” per la facilità con cui si scambiano comunicazioni che modificano, “in-formandolo”, la nostra vita e le nostre aspettative
Ci si può chiedere se sia un ossimoro, il villaggio globale. Se prevalga nel mondo il villaggio o la globalità. Se i circuiti comunicazionali, che sembrano infinitamente aperti, alla fine non si chiudano, anche per spontanea autodifesa contro l’eccesso di informazioni disponibili, per autoisolamento dei singoli nel recinto delle proprie opinioni consolidate e dei propri pregiudizi. Ci si può chiedere se i singoli, che a prima vista appaiono autonomi in contesti ove i gruppi, a cominciare dalle famiglie, si compongono e ricompongono fino a perdere i loro tradizionali connotati, non siano invece inseriti in una rete composta da milioni di snodi e corrispondenze attuali o potenziali. Se in questa rete, parlando metaforicamente, essi siano atomi liberi di agire o elettroni ruotanti attorno a un nucleo che li muove e per forza centripeta o centrifuga li attira o li espelle? Qual è in questa rete, in cui “tutto è connesso”, il sistema dei loro bisogni, come diceva Hegel? Quali le loro aspettative? Sono forse sovrabbondanti rispetto alle capacità di assorbimento di tutti i sistemi sociali, quello giuridico in primo luogo? Per fare un solo esempio: che cosa “si aspetteranno” i singoli, i cittadini di domani, di fronte alla sempre più evidente mancanza di lavoro? Lotteranno perché rifiorisca l’offerta in società sempre più informatizzate, oppure per rivendicare il loro “diritto all’ozio”, quel droit à la paresse teorizzato nel 1880 da Paul Lafargue, il genero di Carlo Marx (e la richiesta di un reddito di cittadinanza non ne è forse un anticipo)? Oppure ne sortiranno conflitti anomici, jacqueries incontenibili, come tante volte nella storia? Vi sono molte incertezze sul futuro dei nostri bisogni
Non credo che queste siano divagazioni, perché si tratta di problemi la cui soluzione (il cd. problem solving, oggi molto di moda) esige una comprensione del futuro che è opera ardua per i programmatori. Comprensione urgente, sottolineo. L’idea della società senza lavoro, oggetto in Italia di un dibattito sociologico-politico appena iniziato, è stata ricordata come fatto scontato dal Guardian, solo pochi giorni fa. E voglio sottolineare che lo sforzo di comprendere accomuna tutti coloro che – per rimanere nel nostro campo – hanno a che fare col diritto. Certo, spetterebbe al legislatore riflettere prima di assumere decisioni d’impatto generale, come il cd. Jobs Act, ma spetta anche al magistrato immaginare quale sarà la reazione del lavoratore finto autonomo, licenziato in tronco, e dei suoi colleghi nelle stesse condizioni, di fronte alla sentenza che rigetta l’opposizione applicando la distinzione romanistica fra locatio operis e locatio operarum e ignorando, in quanto elemento “extra-giuridico”, che la subordinazione è economica e quasi sempre non è contrattata, ma imposta. Quale lontananza rispetto alla giustizia percepiscono lavoratori in questa condizione?
La giustizia cd. formale, impartita dallo Stato, è dunque in grado di immergersi nella complessità e nella contingenza e farvi fronte, per tornarel lessico sociologico corrente?
Il tema è ricorrente nella storia non solo italiana e oggi si presenta in forme alquanto crude. Da quando, un decennio fa, un notissimo esperto americano di disputing, Marc Galanter, ha parlato del “processo che svanisce” (the vanishing trial), mostrando che nei circuiti federali del suo paese la soluzione “aggiudicativa” dei giudizi civili e penali – con verdetto e/o sentenza – non raggiunge la percentuale del 5% di quelli sopravvenuti (le percentuali dei circuiti statali, per quanto più alte, riflettono la stessa realtà), siamo chiamati a chiederci se non vi sia fra questi sistemi di giustizia e le aspettative sociali una discrasia incolmabile. Una domanda, questa, che nelle ricorrenti indagini sull’amministrazione della giustizia in Italia (ricordo soltanto quella del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, diretta negli anni Sessanta dal mio maestro Renato Treves) ci siamo posti più volte.
Già cinquant’anni fa si parlava di fuga dalla giustizia, ma pensando in realtà soprattutto alla giustizia d’élite, quella degli arbitrati. Più tardi, fra gli anni Settanta e Ottanta, si è cominciato a parlare di ADR – Alternative Dispute Resolution – perché in effetti, come noto, la decisione giudiziaria non è il solo metodo di trattamento dei conflitti. In sociologia del diritto, usiamo collocare questi metodi lungo una scala che spesso sintetizzo con l’acronimo “AN/M/AAG”: abbandono, negoziato, mediazione, amministrazione, arbitrato, aggiudicazione. Un acronimo due volte spezzato, perché fra negoziato e mediazione il conflitto si trasforma da diadico in triadico, coinvolgendo un terzo che può risolverlo ma anche complicarlo (come Luhmann stesso era costretto a riconoscere), e dopo la mediazione si passa a tre metodi solutori di tipo aggiudicativo, nei quali le parti possono avanzare domande al terzo decisore, ma non negoziare né scegliere la decisione finale.
Di fronte alla crisi palese dei sistemi di giustizia formale, e in nome della giustizia come bene comune, lo spazio intercorrente nell’acronimo fra negoziato e amministrazione, quello che un tempo comprendeva solo la mediazione, si è progressivamente esteso, proprio nel tentativo di scoprire rimedi che coinvolgessero nel trattamento dei conflitti sia i contendenti sia il pubblico circostante, che di fatto vi assiste e spesso vi partecipa. Così si è parlato di “giustizia di prossimità”, “comunitaria”, “collaborativa”, “mediatrice”, “informale”, “riparatrice”, e via dicendo, e sono state istituite le corrispondenti organizzazioni e procedure: le small claims courts, i neighborhood justice centers, i centri di mediazione, eccetera. I tratti comuni di queste esperienze, con riferimento specifico alla community justice, ma in realtà estensibili a tutte le forme di ADR, sono stati ben sintetizzati in un saggio di David R. Clark e Todd R. Clear, apparso nel 2000 in Criminal Justice (vol. 2, pp. 324-367): “Neighborhoods, Problem solving, Decentralization of authority and accountability, Community quality of life, Citizen participation”; e sempre comuni sono i valori di fondo, riferiti dagli stessi autori: “Norm affirmation, Restoration, Public safety, Equality, Inclusion, Mutuality, Stewardship”. L’idea di fondo è che la giustizia, proprio in quanto bene comune, dovrebbe essere anche affare comune, comprensibile e gestibile da chi ha interesse alla questione. L’attenzione – si insiste – deve spostarsi dall’atto, specialmente il reato, verso le sue conseguenze, dalla sanzione retributiva alla riparazione condivisa, dal passato al futuro.
Un esame critico di queste molteplici esperienze, oggetto di un’amplissima letteratura, sarebbe suggestivo, ma certamente non può svolgersi in questa sede. Qui devo limitarmi a dire – lo confesso: superando alcuni pregiudizi che vengono dalla mia cultura gius-positivistica di origine – che esse incontrano successi e insuccessi.
Il fatto che in Francia, per esempio, la Juridiction de proximité, introdotta nel 2002, sia stata subito riformata e nel 2011 abolita pro futuro (con efficacia differita a quest’anno, 2017), ma nel frattempo i juges de proximité siano stati inseriti come tali nei Tribunaux de Grande Instance, sembra testimoniare ricorrenti incertezze. Ovunque si sottolinea che questi rimedi non sono gratuiti, ma anzi costano assai e i costi, in tempi di crisi fiscali degli Stati, vanno a gravare sulle comunità interessate. Nel campo della giustizia penale minorile, ove la mediazione ha più ampio spazio e ha dato buone prove (p. es. in Belgio), le opinioni comunque divergono. Un dato incoraggiante, rivelatomi pochi giorni fa da Tim Chapman, uno dei massimi esperti del tema, con riferimento al caso nord-irlandese, è l’evidenza di una correlazione diretta fra rinuncia a infliggere la sanzione detentiva e basso indice di recidività o, se si preferisce, fra sanzione detentiva e recidivismo: il che confermerebbe una volta di più l’effetto criminogeno del carcere tante volte osservato.
In sintesi, i segni positivi non mancano e inducono a proseguire su una via che l’Unione europea ha indicato ormai da molti anni. Anche il già citato caso nord-americano del cd. vanishing trial, se da un lato sembra mostrare che quel sistema giudiziario regge soltanto perché, eliminando la figura del giudice che è simbolica in quella cultura giuridica, tradisce i suoi principi fondamentali, dall’altro lato sembra anche suggerire che esso si giova di equivalenti funzionali intrasistemici, cioè meccanismi di ADR istituzionali, giacché la sentenza penale patteggiata e la transazione civile negoziata attraverso i legali delle parti, che sono la regola, sono pur sempre frutto di procedure previste dalla legge. E osservo di sfuggita che questa attività di negoziazione dovrebbe contribuire almeno ad attenuare la crisi ormai avanzata dell’avvocatura “comune” (non considero le grandi law firms) in Paesi come l’Italia, la Spagna e gli stessi Stati Uniti d’America.
Potrei citare altri esempi. Nel campo non della mediazione, ma dell’aggiudicazione, devo dire che l’esperienza decennale di giudice dell’Autodisciplina Pubblicitaria mi ha convinto trattarsi di un sistema che funziona bene, quantunque sia fondato su norme e accordi di origine negoziale. Si decide in brevissimo tempo, in perpetua corsa con la velocità e caducità delle campagne pubblicitarie e quasi sempre senza obiezioni da parte dei perdenti, anche se i valori in gioco sono spesso altissimi.
Tutto ciò comunque non può far dimenticare i limiti della cd. giustizia informale, su cui molti studiosi hanno insistito. Spostare i poteri decisionali dallo Stato alle “comunità” incide sulla percezione sociale di terzietà dei decisori, suscita sospetti sulla loro discrezionalità giacché la normativa di riferimento tende a sfumare, evoca esperienze infelici (le “corti di compagni” delle cd. “società in transizione verso il socialismo”), profuma di controllo sociale diffuso, di omologazione culturale imposta con maniere soffici, che, quando si tratta di reati gravi, possono non recuperare il soggetto deviante né soddisfare le aspettative della parte lesa (confesso che il ricordo insinuante dell’Arancia meccanica mi assale ogni volta che vengono usati mille riguardi verso il minore autore di crimini efferati).
Naturalmente esistono molte variabili, che debbono entrare nel discorso. Richard L. Abel, noto critico dell’informalità giudiziaria, dovette riconoscere nel suo Speech and Respect del 1994 (di cui esiste una edizione italiana apparsa nel 1996) che, nel contrasto fra il diritto di espressione e il diritto al rispetto della persona e della sua immagine, la giustizia formale fallisce e solo un incontro di tipo “comunitario” fra le parti, con spiegazioni reciproche e professione di scuse, può riportare la pace. E anche qui, confesso di pensare alle parole di questo eccellente studioso quando leggo di pesantissime sentenze di condanna, civili e penali, in cause di diffamazione attraverso i media.
Il punto essenziale è però un altro, per tornare al quesito da cui ho preso le mosse, la centralità della giustizia statale.
Le ADR (comprese le forme di aggiudicazione concordata, ovvero l’arbitrato o la giustizia dei sottosistemi semi-autonomi come l’Autodisciplina pubblicitaria) si basano sul negoziato. Ma non si può negoziare tutto. Soprattutto nel campo penale e per i reati più gravi. Qui dovrei aprire una parentesi, manifestando il mio profondo disagio verso la giustizia penale, la convinzione che essa sia inguaribilmente rozza, come da sempre ritengono illustri penalisti (fra i tanti, Gustav Radbruch), e vada pertanto minimalizzata, come riconosce il nostro Luigi Ferrajoli, eppure sia inevitabile. Rozza ma necessaria, finché nulla di meglio sia stato inventato. In sintesi, occorre trovare un equilibrio fra minimalismo e severità, fra due process of law e protezione delle vittime, anche contro la recidiva (penso soprattutto allo stalking e agli atti di violenza contro le donne, dilaganti in Italia, dove ogni due/tre giorni una donna viene assassinata dal suo partner o ex partner). E qui, come pure in alcuni settori del diritto civile, la centralità della giustizia dello Stato è tuttora da rivendicare, sebbene – temo – ancora lontana dall’ideale comunitario di cui stiamo discutendo.
Non si può infatti dimenticare chi, anche in controversie di piccola entità, chiede una decisione in termini di diritti e doveri. Né, ovviamente, chi questa iniziativa subisce.
Ora, va detto che questo tipo di relazione conflittuale ha le sue implicazioni. Quando le parti avviano o subiscono un processo decisionale che metterà capo ad una decisione secondo norme, sanno che questa decisione è per sua natura tranchant e a somma zero. Quello che una vince l’altra perde, anche nel settore penale, benché si possa dirlo solo sottovoce: le procure si sentono in guerra e in buona misura hanno anche ragione, tranne quando eccedono cercando visibilità politica o, come talvolta accade, s’intignano a sostenere tesi processuali basate su prove labili.
Ebbene, le parti coinvolte in questo processo decisionale possono accettare la decisione (anche se salomonica) più o meno di buon grado, dipendendo ciò da cultura, educazione, mentalità, orientamento politico, interessi, costi e valori in causa. Ma, come usa dire in sociologia, è essenziale che l’accettino cognitivamente anche quando la subiscono, senza disconoscere la legittimità del decisore, altrimenti agiscono contro il sistema. E se il fenomeno, magari per cattivo esempio dall’alto, si diffonde socialmente fino a delegittimare anche i vertici degli apparati decisionali, il sistema rischia di collassare e i conflitti sociali tendono a uscire dai binari giuridici in cerca di altre forme di regolazione, non giuridiche o giuridiche secondo altro ordinamento normativo. Come già detto all’inizio, questo atteggiamento è oggi diffuso, anche perché il diritto stesso è in crisi. E parlare di giustizia come bene comune con riferimento a questo tipo di conflitti e in questo clima di sfiducia che promana dall’alto in basso, in cui predomina l’uso universalizzato di una doppia morale, è particolarmente difficile.
Vengo quindi ad alcune osservazioni considerando le due cause principali di sfiducia, ovvero la disfunzionalità e la delegittimazione del sistema. Sono opinioni dettate da buon senso, che mi permetto di fare solo in virtù della mia età e dei cinquant’anni nel mondo del diritto.
Innanzitutto, cercherò di dire che cosa non si deve fare, e al riguardo ritengo purtroppo che non si debba (meglio, non si dovesse) fare la gran parte di ciò che ha fatto il potere politico italiano attraverso le sue decisioni più recenti. Dico ciò senza ignorare quanto di buono esce da talune iniziative, fra cui alcune lodevoli prassi, assunte o raccomandate dal Consiglio Superiore della Magistratura.
In particolare, mi pare gravissimo che si cerchi di risolvere la crisi del processo a spese della sua accessiblità. Qui oso dire che l’ombra di studiosi come Mauro Cappelletti e Vittorio Denti, teorici dell’accesso alla giustizia, dovrebbe venire ogni notte a turbare i sonni di chi ha operato in questa direzione, con misure deflative miranti solo a ridurre l’arretrato sempre alto di processi civili e penali.
Cito in proposito l’imposizione, nel 2010, della mediazione obbligatoria, un autentico ossimoro che è servito solo a ritardare l’inizio di regolari giudizi. Vero che la riforma seguita alla nota sentenza della Consulta ha modificato un poco il quadro e alcuni dati diffusi oggi dal Ministero sembrano più consolanti, ma una volta disaggregati rivelano forti discrepanze fra tipi diversi di controversie, su cui occorre riflettere.
Cito poi i costi, cresciuti a dismisura e quasi proibitivi per le fasce meno abbienti della popolazione.
Cito altresì – fattore ancor più grave – la deriva iper-formalista del processo civile, che per giunta si svolge entro un quadro di confusione concettuale e terminologica, aggravata dalla molteplicità dei riti. Da un lato, le procedure sono state costellate da nullità e preclusioni talmente stringenti da indurre illustri avvocati a cancellarsi dall’albo dei cassazionisti per il terrore di imbattersi nelle ricorrenti – ormai – eccezioni di inammissibilità e improcedibilità. Dall’altro lato, questi ostacoli formali investono istituti mal definiti e fra loro in contraddizione. C’è voluto molto tempo, con molti diritti sacrificati, prima che fosse chiarito dalla Cassazione se l’affidamento dei figli di coppie non sposate dovesse essere deciso dal tribunale per i minorenni o dal tribunale ordinario; e spesso ho segnalato che le poche decine di parole oscure con cui è stato disciplinato quel mostro giuridico denominato “Rito Fornero”, riguardante un tema delicatissimo come l’impugnazione dei licenziamenti, hanno originato molte centinaia di pagine di interpretazione e radicali difformità di vedute persino fra giudici dello stesso tribunale. Questi non sono dettagli tecnici, ma episodi che investono diritti di rango costituzionale e allontanano dalla giustizia l’utente comune, incapace anche di comprendere il senso delle parole della decisione che ha rigettato o perfino accolto le sue pretese.
Cito poi il surrettizio inserimento dello stare decisis in un sistema privo dei filtri che permettono di farlo funzionare nei regimi di common law. La norma che lo riguarda (“Il ricorso è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”) è solo apparentemente chiara, perché quale sia la giurisprudenza conforme della Corte non è sempre scontato. Qual è oggi la giurisprudenza consolidata circa i criteri da applicare per determinare l’entità dell’assegno di mantenimento spettante al coniuge separato o divorziato? E come si deve individuare questa giurisprudenza consolidata quando manchi una decisione delle Sezioni Unite, anch’essa d’altronde ribaltabile? Quanto conta la discrezionalità dei giudici che, secondo la riforma più recente, devono decidere nel procedimento camerale?
Nel campo penale, è criticabile la tendenza, sempre rinascente, di inventare reati “artificiali”, uno dei quali, trent’anni fa, era talmente artificiale da costringere la Corte costituzionale a riconoscere eccezioni al principio generalissimo della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale. La strada della depenalizzazione, pur avviata, mi sembra ancora da percorrere in larga parte. Soprattutto, non bisogna assolutamente avviarsi sulla via, seducente per alcuni gruppi politici, ma pericolosissima, del cd. “diritto penale del nemico”, immaginata da un illustre giurista tedesco che forse non si è reso conto di tradire il meglio della cultura giuspenalistica del suo stesso Paese.
Che cosa invece si deve fare? Questo quesito è ovviamente più difficile e questo uditorio è certamente più ferrato di me nel rispondere. Comincio da alcune questioni tecnico-giuridiche e ordinamentali.
Mi pare urgente una riduzione, anzi diciamo pure l’unificazione dei riti nella giustizia civile, salva forse la sola distinzione fra giudizio ordinario e giudizio sommario. Questo problema, già accennato, è fonte di incertezze e di confusioni. Ricordo che per un certo tempo non si sapeva se prevalesse il rito societario, poi abolito, oppure il rito del lavoro. E c’è ancora da chiedersi perché mai, nelle cause di opposizione allo stato passivo, il rito fallimentare, soggetto a preclusioni brutali (fino alla soppressione del secondo grado di giurisdizione) debba prevalere sempre e comunque sul rito del lavoro, che riguarda diritti fondamentali del cittadino, e scoprire che, pur nel quadro del processo fallimentare, secondo la Cassazione, il giudice può (o deve?) ispirarsi al rito del lavoro! Come spiegare simili questioni al cittadino “comune”?
Credo che sarebbe altrettanto indispensabile intervenire sulla prescrizione del reato, nel senso di interromperla dopo il rinvio a giudizio, come accade in altri ordinamenti. Infatti la corsa alla prescrizione è un fattore rilevantissimo dell’overload giudiziario, soprattutto nelle corti superiori: ma qui riconosco che un tal misura, pur ragionevole e certamente gradita alle vittime dei reati, incontrerebbe fortissime resistenze soprattutto da parte dei “colletti bianchi” e dei loro rappresentanti politici.
Riterrei importante altresì arricchire ancor più le competenze del giudice di pace dopo averlo riformato nella sua composizione e dislocazione territoriale, magari portandolo coincidere con le giurisdizioni delle vecchie preture (la cui soppressione forse è stata un errore). La giustizia cd. minore è infatti il fulcro dell’ideale comunitario. Molte delle cd. ADR vertono su di essa ed è su questa che sono nati i neighborhood justice centers e le small claims courts, che ho già menzionato.
Mi domando altresì se, sempre nel quadro dell’ideale comunitario, non sia stato un errore sopprimere alcune sedi giudiziarie che, pur non essendo oberate dal lavoro, erano pur sempre centri “avvicinabili” di cultura giuridica, anche locale. Osservo per esempio che gli uffici giudiziari dell’Alto Adige, che servono una ragguardevole ma non sterminata popolazione, si segnalano per funzionalità, oltre che per un certo grado – malgrado la multiculturalità – di omogeneità culturale.
Occorre poi ridurre all’essenziale i costi, almeno per il primo grado di giudizio, ricorrendo alla fiscalità ordinaria. Il che significa andare in direzione inversa rispetto alla strada sinora percorsa.
Questi e altri accorgimenti spettano soprattutto al Parlamento e al Governo. Anche la Magistratura tuttavia può fare la sua parte. Quando, circa vent’anni fa, nel momento in cui alla carta bollata si sostituirono i fogli volanti usciti dai PC, la Corte di cassazione, anche senza eccezione da parte del resistente, dichiarò inammissibili centinaia di ricorsi per mancanza del timbro di collegamento fra il mandato speciale e l’atto di notificazione, tradì in modo plateale le esigenze dei cittadini e la loro fiducia nella giustizia.
Non posso però terminare senza ribadire che i problemi affrontati in questo convegno vanno oltre gli interventi “tecnici” di cui ho parlato.
Se osserviamo le radici più profonde degli ostacoli che si frappongono ad una giustizia come bene comune, non possiamo evitare di affrontare altri temi.
Quello della certezza del diritto, innanzi tutto. Questa è una utopia, come riconosceva anche Hans Kelsen, ma lo è nel senso “debole” della parola: è cioè un ideale verso cui tendere e da non abbandonare benché mai pienamente raggiungibile. Anche nel mondo “complesso e contingente” di oggi, un’aspettativa essenziale del cittadino è la prevedibilità delle conseguenze delle azione proprie e altrui. Ebbene credo che andare verso questo ideale, piuttosto che verso l’obiettivo opposto della massima incertezza, non sia tanto difficile: perché la cd. lex mercatoria offre meno problemi interpretativi della più comune legge nazionale, addirittura processuale, come già ricordato con alcuni esempi?
È poi urgente tornare ad una chiara distinzione di ruoli e compiti, presupposto per il ripristino di un clima di rispetto reciproco fra le componenti della giustizia – giuristi, giudici, legislatori – che è pregiudicato dagli scontri degli ultimi decenni. Sappiamo che questi conflitti, per “il controllo del campo giuridico”, come diceva Pierre Bourdieu, grande sociologo francese, sono endemici nella storia del diritto, che può perfino esser letta anche in questa chiave, ma l’asprezza con cui sono stati combattuti in Italia, almeno dagli anni Ottanta in poi, hanno fortemente leso la credibilità del diritto da parte dell’opinione pubblica “comune”, invitata a parteggiare per l’una o per l’altra al di fuori della correttezza istituzionale.
L’efficacia è un’altra necessità cogente. Non parlo solo dell’enorme sproporzione, già ricordata, fra la criminalità organizzata su scala transnazionale e la capacità di contrasto delle istituzioni, essenzialmente nazionali. Mi riferisco anche all’evidenza quotidiana di gravi disuguaglianze sociali che minano la credibilità della giurisdizione soprattutto penale, dando la senzazione diffusa che essa vada a senso unico, colpisca solo alcuni, nemmeno i più pericolosi, e lasci passare indenni altri, più fortunati. A volte a caso, a volte (chissà) per le sempre lucidissime mani invisibili care agli economisti.
Ancora più urgente è educare alla legalità. Il diritto comune di un Paese dovrebbe essere insegnato fino dalle scuole elementari. Fin dall’infanzia i futuri cittadini devono sapere che la loro libertà, che è un prius irrinunciabile, è tuttavia limitata dal rispetto della libertà altrui, dal principio di uguaglianza e dall’esistenza di norme inderogabili. Sapere che esistono diritti e doveri, autorità che fanno e altre che applicano la legge, giudici che garantiscono le loro legittime pretese, principi fondamentali che neppure il legislatore può disconoscere..
E per finire, tutto questo rischia di essere inutile se vengono vulnerati dalla legge i principi della giustizia sostanziale, quelli che afferiscono ai bisogni elementari del vivere. In Italia, ma non solo, è andato seriamente leso, in breve tempo, quasi tutto l’apparato di diritti spettanti al lavoratore cd. subordinato, senza che ciò abbia indotto i datori di lavoro a dar corso a contratti durevoli di questo tipo. Il lavoro precario, travestito da lavoro autonomo, continua senza posa attraverso marchingegni contrari alla legge. Oggi abbiamo appreso che esistono persino gli “scontrinisti”, che lavorano per una istituzione pubblica di primaria importanza. E dovremmo parlare anche dello schema di decreto legislativo sulla Magistratura onoraria che, a parte ogni considerazione sui suoi orientamenti di fondo, sembra potenzialmente capace di a ridurre alla fame (si è calcolata una media retributiva di circa tre euro all’ora) persone che da anni lavorano per la giustizia con compensi già minimi e senza alcuna garanzia o provvidenza di natura sociale.
Ci si rende conto di quanto tale situazione, in molti ambiti dell’economia, possa sospingere schiere di persone, giovani in particolare, verso altre forme di lavoro, ben più illegali, ma almeno remunerative? Che cosa accadrà quando le generazioni più anziane, come la mia, si porteranno via, scomparendo, le pensioni con cui spesso contribuiscono a mantenere figli e nipoti?
Mi si dirà che queste sono cose scontate, ed è vero, perché sono scontati i fondamenti di un ordinamento giuridico civile. Un grande storico del diritto, James Willard Hurst, li ricordò tutti in un convegno di tanti anni fa a Madison, Wisconsin, simulando di dover spiegare al pubblico, in sole dieci lezioni televisive, che cosa fosse il diritto. Proprio nel ricordo di quella conferenza, ho ritenuto di doverli ribadire anche davanti a un uditorio che ben li conosce, perché si tratta di cose delle quali il cittadino comune è informato, ma attraverso notizie vere e notizie false, attraverso i media che spesso riflettono le posizioni strumentali dei partiti politici e oggi, soprattutto, attraverso la miriade incontrollata e incontrollabile delle voci, sovente di infima qualità, che corrono in rete e nei social networks.
Mai come oggi è facile indurre nei cittadini una falsa coscienza, come diceva Marx. E l’insistenza sui principi essenziali è fondamentale per diffondere lo spirito critico che permette di dissiparla.
Grazie.