Il dovere di parlare
È curioso come il nostro pensiero ad alta voce, oggi, sia reclamato dal diritto positivo, che, rinnegando un arresto nell’avanzare della civiltà, imponga di ricordarlo.
Il 27 gennaio 1945 venivano abbattuti i cancelli di Auschwitz e con essi il segno tangibile del mostro che talvolta rischia di annidarsi nell’anima dell’uomo, trasformandolo in nemico dell’uomo stesso.
Quella salvifica demolizione è il simbolo di una vittoria che passa attraverso lo sgretolamento dell’immagine funesta ed esiziale di chi ha perseguito lo sterminio di un popolo e coltivato una disparità tra gli uomini a seconda della razza, di chi ha sostenuto, pure attraverso lo strumento della legge, risultati d’ingiustizia.
E contro l’ingiustizia imposta attraverso norme giuridiche che legittimano il sopruso, il diritto rinsavisce e comanda di non dimenticare; comanda di non dimenticare:
- la sofferenza di un popolo e la mortificazione delle libertà per mano delle dittature;
- il sacrificio di tutti coloro che, anche con la propria vita, tentarono di reagire al progetto di sterminio e alla soppressione delle libertà.
L’obbligo di rammentare tutto questo, pure pensato soprattutto con riferimento alla Shoah, diventa occasione per celebrare la lotta contro ogni genere di discriminazione e contro ogni tentativo della sopraffazione delle idee altrui con la violenza e con la forza.
L’una e l’altra non appartengono alla democrazia, anche se può ritenersi legittimo che questa adoperi la forza ogni qual volta debba difendersi da incursioni pericolose di coloro che, dietro un malinteso senso di tutela della libertà, tentino di impaurire solo per affermare la giustezza delle proprie ideologie e religioni. Queste potranno trovare accoglienza solo se e in quanto non intendano sopraffare chi è con loro in disaccordo e in questa contrapposizione dialettica non è rilevante stabilire chi sia minoranza e chi maggioranza, giacché l’una e l’altra potranno trovare spazio tra le regole di un diritto di pacifica convivenza.
Con l’entrata in vigore della legge n. 211 del 20 luglio 2000 una norma giuridica crea il dovere di “...conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere…”.
Non vi è una sanzione all’inadempimento di tale dovere civico, ma chi avrebbe il coraggio di infrangerlo?
Mentre scrivo mi scorrono davanti le crude immagini dell’Holocaust Memorial Museum di Washington: le fotografie di bambini, vecchi, uomini, donne, le loro vite disperse, svanite nel nulla, divenute oggetti, involucri, carne e ossa su cui sperimentare prima di sopprimere, private dell’anima e, in un giuoco paradossale, le cose stesse (le scarpe – milioni di scarpe consumate –, le dentiere – milioni di dentiere –, gli occhiali – milioni di occhiali dalle lenti più diverse –), che, simulacri dell’esistenza delle persone alle quali appartennero, ritornano a confermarne l’anima, a restituirla a coloro cui era stata strappata insieme a ogni umana dignità.
Mentre scrivo mi scorrono le pagine del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio e se mi soffermo a riflettere riecheggia la sintesi di Sofocle che in un versetto dell’Antigone fa dire al Coro “Molte sono le cose che fanno sgomento, ma niente fa più paura dell’uomo”.
E siccome quest’ultimo è capace di azioni terrifiche, ogni vittoria su queste va celebrata perché in quelle vittorie c’è, forse, il filo della speranza in un’umanità migliore, in quell’umanità che, come scrive Rilke in alcune sue considerazioni su Dio, riesca a cogliere nei bracci della Croce le direzioni verso cui andare per realizzare un progetto di pace sulla terra piuttosto che accovacciarsi sotto di essa in attesa di un paradiso al di là della vita, in tal modo pericolosamente riposta nelle mani del male.
Gabriele Mazzotta
Procuratore Aggiunto
presso la Procura della Repubblica di Firenze
27 gennaio 2020