Per un’Europa dei diritti
Ringraziando per questo confronto tra operatori della società, sempre necessario, partirei da una osservazione, piuttosto banale ma a mio avviso centrale: la irrinunciabilità non solo dei diritti, ma anche della capacità dei sistemi di assicurarne l’osservanza, come cardine di ogni società democratica. In epoca in cui si assolutizzano i valori dell’economia e della sicurezza, la consapevolezza che la persona e la sua tutela devono restare centrali appare essere il primo gradino del ragionamento.
L’ulteriore passaggio mi sembra quello della impossibilità di porre confini a questo esercizio di diritti, che tendono sempre di più a una dimensione universale: nella loro espressione positiva, dunque nella loro affermazione; ma anche nella repressione dei fenomeni illeciti che i diritti comprimono, come è proprio del diritto penale, nel quale opero, storicamente letto come sistema ‘chiuso’ entro i confini nazionali ma che sta ormai imparando a non potersi considerare autosufficiente.
Difficile fare un catalogo completo di tutto ciò che ha bisogno della lettura sovranazionale. Verrebbe da dire ‘tutti i diritti’. Possiamo però pensare, a titolo di esempio, alla lotta alla criminalità organizzata, e alle sue connessioni con la criminalità economica e con i fenomeni corruttivi, che ormai da tempo hanno trovato spazi mondiali di diffusione, cosa che già dagli anni ’90 appariva piuttosto chiara, e che ora trova nuovi scenari con i fondi PNRR; i temi dell’ambiente; la tutela e il rispetto dei generi; il lavoro e la sua sicurezza; il diritto alla salute, come ci ha tragicamente insegnato la pandemia; i grandi flussi migratori e l’incontro tra culture diverse, che possono essere grande ricchezza ma anche fonte di conflitti; il diritto di asilo che – come anche recenti casi di cronaca hanno mostrato – necessariamente deve essere considerato a livello sovranazionale, in una gerarchia delle fonti che spesso pone in crisi le legislazioni nazionali.
Se questa è la tematica sostanziale, preme sottolineare che essa non può che passare attraverso sistemi giudiziari che questi diritti siano in grado di garantire. Come ogni sistema democratico riconosce, precondizione irrinunciabile è quella di un sistema di giustizia indipendente e autonoma, che per fortuna la nostra Costituzione ha disegnato con sapienza e lungimiranza: sistema, quello italiano, che è considerato a livello mondiale un esempio.
Intendiamoci, non nego le gravissime disfunzioni che il sistema giustizia italiano ancora presenta, soprattutto per i tempi di trattazione; non contesto certo il sacrosanto diritto di critica a ogni decisione giudiziaria; vanno respinte, innanzitutto al nostro interno, derive corporative e pratiche di interferenza occulta tra poteri, in cui peraltro – è bene sottolinearlo - la magistratura deviata ha trovato complicità proprio nella politica.
Va però chiaramente denunciato come, in nome di queste disfunzioni che è nostro principale interesse combattere, si stiano orchestrando campagne mediatiche con accuse di fare ‘opposizione giudiziaria’; si additano i magistrati (ultimamente non solo i pubblici ministeri, ma anche i giudici e finanche le Supreme Corti) come ‘cattivi’, quando fanno attività associativa, intervengono nei pubblici dibattiti, semplicemente adottano decisioni che dispiacciono: dimenticando che - se magistrati e avvocati dubitano della legittimità costituzionale di norme in tema di immigrazione, o si occupano dei casi di non convalida del provvedimento di trattenimento - fanno semplicemente il proprio lavoro di operatori e interpreti del diritto. Percepiamo nei tribunali l’onda lunga di questa costante denigrazione: la sfiducia, l’appannamento, non nostro personale, ma della funzione che è patrimonio di tutti: chi attacca un giudice per una sua manifestazione di pensiero, o addirittura per il colore dei calzini come accaduto qualche anno fa, non attacca solo il singolo, ma delegittima il servizio che avvocati, Forze dell’Ordine, personale e magistrati cercano di assicurare. Si cerca anche di contrapporre il ‘popolo’, nel cui nome emettiamo le nostre decisioni, al ‘popolo degli elettori’, ponendo a presupposto concettuale di questi attacchi la carenza di legittimazione elettorale dei magistrati, che in realtà nulla c’entra, e nulla deve entrarci, con la nostra funzione: è un dualismo errato e pericoloso.
È importante invece che la magistratura rimanga aperta al dialogo con la società, in una osmosi costante di valori ed esperienze, e non diventi una burocrazia autoreferenziale, come insegna anche il confronto con altri Paesi.
Ho la fortuna di vivere l’esperienza di MEDEL, luogo di incontro di associazioni di magistrati europei e non solo; abbiamo vissuto le vicende della Turchia, Polonia ed Ungheria, in cui – secondo un triste format che abbiamo visto spesso replicarsi - l’arretramento della democrazia è passato attraverso l’arresto e la destituzione di magistrati e avvocati; l’avvio di procedimenti disciplinari; la creazione di associazioni di comodo, create per agire dall’interno delle professioni; lo smantellamento delle Supreme Corti, attraverso nomine governative, perché era dalle Corti che ci si aspettava l’avallo di legittimità delle riforme più liberticide e delle procedure giudiziarie persecutorie. Abbiamo quindi visto magistrati arrestati, abbiamo provato a dar loro supporto, come è successo per Murat Arslan, presidente di Yarsav, associazione di magistrati turca componente di MEDEL condannato a dieci anni di reclusione, che sta scontando in carcere e al quale nel 2017 è stato attribuito il premio Vaclav Havel per i diritti umani. Proprio di recente in MEDEL abbiamo parlato di gruppi vulnerabili – minori, disabili, rifugiati, comunità LGBTQ+ – e di come assicurare un migliore, e comune, sistema di accesso alla giustizia; di come un giudice deve capire, da un colloquio diretto, se e come la persona che ha davanti ha diritto alla protezione internazionale; quale è stata la sua storia, se ha ancora paure e vergogne a raccontarla.
Siamo, tutti noi, consapevoli di trovarci a un bivio.
Possiamo avallare le grida populistiche, invocare come panacea di tutti i mali, ad esempio, la separazione delle carriere, o l’abrogazione di reati ‘scomodi’ come l’abuso di ufficio; introdurre ‘test psicologici’ per preselezionare gli aspiranti magistrati: dunque cercare riforme-manifesto che sono assolutamente inutili dal punto di vista dell’efficienza e delle garanzie ma assai pericolose dal punto di vista degli equilibri istituzionali; possiamo quindi stravolgere questo nostro assetto costituzionale, offrendo ad altri Paesi una ulteriore sponda a questa deriva. Oppure tenere fermo – come valore italiano ed europeo - il meccanismo, insostituibile, del bilanciamento dei poteri e dei controlli, e puntare ad interventi di altro tipo, strutturali e che sono mirati ai bisogni reali, strumenti al servizio delle persone e per la tutela delle persone: risorse materiali e umane; strumenti normativi meditati e non oscillanti ad ogni caso di cronaca, in un panpenalismo a corrente alternata che spesso finisce per rivolgersi solo contro la marginalità sociale; modalità e luoghi di esecuzione delle sanzioni che siano congrui alla previsione costituzionale della riabilitazione.
I diritti possono parlare in maniere diverse ma debbono potere essere affermati nello stesso modo, senza discriminazioni. A questi bisogni vogliamo poter dare risposte vere, perché è il ruolo che la Costituzione ci assegna e che abbiamo scelto di servire.
Contributo di Carlo Sabatini
per l’Assemblea del Partito Democratico “L’Europa che vogliamo”
15-16 dicembre 2023