Comunicato

Morire per difendere lo Stato di diritto

Il sacrificio di Ebru Timtik, consumatosi in Turchia, chiama i giuristi alla mobilitazione: il processo non può essere usato dal potere per soffocare diritti e libertà

Ebru Timtik era un’avvocata impegnata nella tutela dei diritti umani e, per questo, ha perso la vita il 27 agosto scorso. Faceva parte di un gruppo di 18 avvocati, impegnati nella difesa processuale di dissidenti nei confronti del governo turco. È stata arrestata nel settembre 2017 e, nel marzo 2019, è stata giudicata colpevole di appartenenza al Partito di liberazione popolare rivoluzionario, dichiarato fuorilegge, e condannata, con i suoi colleghi, a lunghe pene detentive. Amnesty International ha definito le condanne “una parodia della giustizia che dimostra ancora una volta l’incapacità dei tribunali, paralizzati sotto la pressione politica, di fornire un processo equo”. A nulla sono valsi i ricorsi e gli appelli delle organizzazioni internazionali.

Il 2 gennaio 2020, Ebru Timtik ha avviato uno sciopero della fame per sollecitare l’attenzione generale sulla sua vicenda giudiziaria e su tutte quelle simili che si stanno svolgendo in Turchia, apparentate nella degradazione delle regole del processo a strumento di repressione politica.

Dopo 238 giorni di digiuno, Ebru Timtik pesava solo 30 kg. È la quarta prigioniera turca, dall’inizio dell’anno, a morire in carcere dopo uno sciopero della fame.

Esprimiamo il nostro profondo dolore per la morte, certamente evitabile, dell’avvocata Ebru Timtik e, insieme ad esso, l’indignazione verso le autorità turche che, dapprima, hanno consentito che un processo per imputazioni così gravi si svolgesse senza alcun rispetto delle garanzie previste in favore dell’imputato e, in seguito, hanno determinato, con le loro omissioni, il decesso di Ebru Timtik per denutrizione.

Il processo penale dev’essere, sempre ed ovunque, strumento di accertamento della verità perseguito attraverso il contraddittorio e la tutela dei diritti dell’imputato, soprattutto quando costui diviene soggetto debole di fronte alla potestà punitiva dello Stato. In nessun caso, men che meno in un Paese che gravita nell’orbita dell’Unione Europea, il processo, e più in generale la giustizia, possono divenire strumento di repressione violenta del dissenso politico.

Auspichiamo una forte mobilitazione della cultura giuridica tutta, volta a stigmatizzare questi gravi episodi prevenendone la reiterazione.

30 agosto 2020