Immigrazione, protezione e accoglienza
Vi siete mai chiesti quanto sull’approccio non dico solo culturale, ma anche tecnico, pesano le informazioni veicolate sui temi dei diritti inviolabili e dell’immigrazione? E quanto pesa il linguaggio politico e la ricerca di un consenso spesso acritico sui singoli spot che accompagnano quella che dovrebbe essere la nostra vita professionale, ossia prendersi cura dei diritti?
Penso, allora, che la pressione del governo su media e social, sia pure con il linguaggio disadorno della semplificazione e dell’ovvietà, cade oggi su di una serie di temi (migrazione, lavoro, legittima difesa, crisi di rappresentatività delle istituzioni, specialmente il parlamento) dove si gioca la partita più importante del populismo e la magistratura, nel discorso pubblico sulla tutela sui diritti inviolabili, rischia di essere marginalizzata se non si mostrerà capace di reagire intervenendo nel discorso pubblico
Semplificazione e disinformazione rendono, infatti, molto difficile la comprensione di tematiche estremamente complesse che lambiscono non solo l’immigrazione, ma anche la prescrizione e la legittima difesa, dove si affrontano con sbrigativi slogans i temi dei diritti inviolabili, soprattutto nel dominio delle notizie tratte dai social e dal web in generale e dove spesso una comunicazione politica incistata in un frasario da partita calcistica impedisce ogni discorso critico ed ogni elaborazione, spesso con la complicità dei media più generalisti disposti a dare maggiore visibilità ad un ceto politico capace per disinformazione o inettitudine di distorcere le stesse gerarchie di valori.
Qui si avverte forte il pericolo che il cd pensiero veloce (Kahneman) della politica prevalga come ultima informazione su ogni altra elaborazione, senza creare alcuno stimolo capace di verificarla e a confrontarla con altri elementi di conoscenza che già possediamo, quando io credo che il più nobile nostro obiettivo sia quello di coniugare sui temi dei diritti inviolabili valori dell’uomo e conoscenza
Insomma, la magistratura deve farsi carico di un richiamo continuo alla realtà di diritti fondamentali, o meglio, deve impegnarsi per farli esistere, ove messi continuamente alla prova da un finto fare e un vano chiacchierare.
Davanti ad una sequenza comunicativa di questo tipo occorre una vera e propria rieducazione alla legalità e, prima, ancora, una sorta di rappacificazione con il linguaggio.
Come si possa appannare il valore di un diritto con quel certo bullismo delle parole è cosa facile se le idee sono sopravanzate dalla propaganda dove tutto diventa talmente falso da far sì che il falso non esista più.
Sentiamo, perciò, spesso parlare di emergenza immigrazione con enfasi allarmistica mentre, ancora una volta, la giurisdizione è chiamata a dare risposta alle sollecitazioni della contemporaneità e di chi ci chiede un riconoscimento d’identità nel momento in cui qualcuno come il migrante può consegnarci, alla fine del viaggio, solo la propria storia.
La politica, infatti, responsabile di un certo fare senza essere, sintetizza bisogni in funzione di un consenso che, come vediamo in questi giorni, impegna più le promesse che le sue realizzazioni e si spende nei temi più sensibili ai valori costituzionali fondamentali.
Questo lo vediamo nei facili slogan di questi ultimi mesi: uno per tutti sull’immigrazione:
- i migranti vanno aiutati a casa loro;
- prima gli italiani.
Per cominciare dal tema della migrazione, si comprende facilmente che l’isteria mediatica non ha risparmiato la comprensione del fenomeno migratorio ridotto a pura gestione di corpi senza identità in una preoccupante desolazione del pensiero.
Eppure, sull’emigrazione la magistratura è giunta sulla tutela dei diritti dei migranti attraverso la progressiva formazione di una sorta di “statuto” del richiedente asilo che tende a trovare una sua identità organica da ricostruire in base ai caratteri delle fonti (costituzionali, comunitarie ed internazionali) alquanto rigide se pensiamo agli interventi disorganici – spesso emergenziali – sulle fonti interne, molto condizionanti rispetto ai presupposti d’ingresso e di soggiorno nonché di espulsione degli immigrati.
Tutti sappiamo che la spinta all’emigrazione da molti paesi africani deriva, innanzitutto, da fattori di instabilità politica e sociale e da imponenti cambiamenti climatici, oltre che da cause di sfruttamento economico delle risorse, ad onta, dell’enfasi sulla sicurezza delle coste a prezzo d’improbabili alleanze con Paesi non proprio democratici e che le più recenti notizie ed immagini hanno svergognato quanto a torture e violenze.
Questi temi estremamente complessi scontano, perciò, eccessi di semplificazione del linguaggio che allontanano la comprensione delle scelte politiche, rovesciando sui governi precedenti la responsabilità dei nodi irrisolti e del deficit di rappresentanza delle istituzioni.
L’accerchiamento mediatico del populismo più spinto, proprio qui, diventa funzionale a creare un consenso che confonde e manipola i cittadini, specialmente se il livello dello scontro politico disarticola il ragionamento involgarendolo e tende, almeno dal punto di vista della giurisdizione, a svilire i diritti fiaccando il santuario delle regole, mentre il cittadino fatica a reperire le informazioni giuste convincendosi, a torto, che la messa in sicurezza delle coste possa governare un fenomeno strutturale così complesso.
L’immigrazione e la legittima difesa sono, oggi, due banchi di prova di questa deriva democratica spinta dalle idrovore comunicative della politica
La contrazione quantitativa degli sbarchi, pagata al prezzo antidemocratico di accordi con un Paese che non è tale, non può governare un fenomeno strutturale così immenso.
Il populismo avanza proprio qui, intorbidando i piani dei diritti fondamentali confondendoli con l’economia, con la sicurezza, livellando la solidarietà a pratica di disturbo della tranquillità dei cives risvegliati da un nazionalismo spocchioso convinto che il benessere sia un diritto e non un punto d’arrivo.
In questo scenario sta a noi rintuzzare queste contraddizioni a colpi di realtà, visto che i singoli leaders non riescono a governare il disagio e le disuguaglianze sociali se non con l’autoritarismo delle idee senza fatti, che ben si presta a divenire facile moneta di scambio con le pulsioni anti europee.
Ora, gli interventi di politica migratoria mediaticamente enfatizzati sulla security sulla zona dell’Africa interessati dall’emigrazione (Sudan, Ciad, Niger, Burkina Faso, Mali e Mauritania (Sahel), Senegal Gambia, Guinea Bissau, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin e Nigeria) rischiano di accentuare l’idea di una politica migratoria incistata dentro l’ordine pubblico che trascura il dato globale che va governato come fenomeno strutturale.
Nel nostro Paese in realtà il numero di rifugiati e di migranti non fa pensare ad alcuna invasione se si considera la tendenza complessiva.
Consideriamo, infatti, che nel 2017 circa 10 milioni di persone hanno interessato con flussi interni ed esterni l’Africa e che attraverso le coste di Italia, di Spagna e di Grecia sono passate attraverso la c.d. via del mare 172.301 persone (fonte Sole 24 Ore, luglio 2018).
Basterebbe questo per non arrendersi al populismo o assumere un atteggiamento di aristocratica indifferenza, o ancor peggio, progettare secondo obiettivi e priorità imposti dai sondaggi.
Molti migrano in cerca di opportunità economiche e molti, ancora, partono per effetto delle disuguaglianze socio economiche tra Paesi e interi continenti aggravate da conflitti interni, cambiamenti climatici e disastri naturali. Ancor più recentemente si è tentato di fare una stima dell’aree interessate alle siccità come Burundi, Etiopia e Madagascar con una popolazione migrante stimabile in 1,5 milioni.
L’antipolitica considera i migranti puri corpi da respingere, come respinge quelli delle temute intrusioni domestiche i cui dati non conosciamo e che nulla ci dicono sull’emergenza di questi obiettivi considerati irrinunciabili del programma di governo.
Qui si tocca davvero la debolezza di una classe dirigente sempre meno capace di sottrarsi alle lusinghe dei sondaggi.
La magistratura deve, allora, gettare ponti sulla tutela reale dei diritti, cercando dialogo e offrendo contributi su questi temi cruciali.
Ma anche lo slogan “ aiutiamoli a casa loro” bandiera del precedente governo sottovaluta un altro importante fenomeno che gli studiosi già mettono in risalto.
Infatti, secondo un recentissimo saggio dello studioso americano Stephen Smith fonte Le Monde Diplomatique) esperto di antropologia africana la crescita demografica dei territori sud sahariani passerà da 1,7 miliardi a 4, 4 miliardi accompagnandosi ad una crescita economica che favorirà l’emigrazione verso il continente europeo che giungerà - a suo dire - in trenta anni, ossia nel 2050, ad una percentuale del 25 % della popolazione europea di origine africana.
Questi dati sono già al centro di un dibattito che, vede protagonista i dati dell’OCSE e del FMI che indicano, invece, che questa ultima percentuale dovrebbe essere ridotta al 3% o 4%.
Ma su di un elemento ambedue le inchieste concordano: emigrare costa e questo costituisce un freno agli spostamenti laddove una maggiore disponibilità economica aumenterebbe i mezzi e le opportunità per emigrare perché il vero problema è la distribuzione delle risorse.
Insomma, lo sviluppo economico e gli aiuti non sempre corrispondono alla prosperità della popolazione il che sta a significare migrazione irregolare in aumento e, dunque, anche questo slogan diventa controvertibile.
E’ a questo punto della storia che emerge l’arretramento culturale del c.d. decreto sicurezza d.l. 113/18, attuata con un certo cinismo nella desertificazione dei principi fondamentali della Costituzione in un coacervo di norme che tradiscono l’obbligo di omogeneità sotteso al comma 2 dell’art. 77 della Costituzione, livellando nella bulimia securitaria, cittadinanza, terrorismo, criminalità mafiosa e permessi di soggiorno, daspo, parcheggiatori abusivi, beni confiscati etc.. come un suq normativo.
Nel frattempo, si allunga lo spettro di una limitazione della libertà personale dagli attuali 90 a 180 giorni del trattenimento degli irregolari nei Cpr (centri per i rimpatri) ai fini dell’identificazione in vista del rimpatrio medesimo e si prova imbarazzo nel constatare che il tema dei diritti fondamentali non abbia meritato, come in passato, un disegno di legge governativo con dibattito parlamentare serio e meditato.
Anche la sostanziale abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari pone seri problemi di coerenza rispetto all’art. 10, terzo comma, della Costituzione che garantisce il diritto d’asilo allo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione, laddove, come nel caso del decreto 113/2018, il rispetto delle condizioni stabilite dalla legge, si estenda ben oltre le semplici modalità di esercizio insinuandosi nelle scelte fondamentali del rispetto del principio di “non refoulement”.
Insomma, attraverso l’improbabile frasario di chi cavalca l’egoismo sociale monta il risentimento di tutti quelli che, vissuto il tradimento della politica pseudo progressista, si oppongono a tutto ciò che può essere ancora condiviso, a cominciare dai diritti inviolabili fino all’Europa, distorcendo una visione storica dei diritti fondamentali che suggerisce, invece, e la storia ce lo insegna, che laddove non vi sia rispetto dei diritti fondamentali ciò significa deficit di libertà per tutti.