Caso Cotticelli: l’ennesimo fallimento di un’istituzione pubblica in Calabria
Sola, emarginata, ignorata, incompresa, tradita, calpestata e abbandonata.
È questa la triste immagine della Calabria che restituiscono le cronache di queste ore drammatiche, dominate dal grottesco caso “Cotticelli”.
Di fronte all’ennesimo, eclatante, fallimento di un’istituzione pubblica, chiamata ad affrontare l’emergenza pandemica e, nello stesso tempo, a risollevare in ambito sanitario le sorti di una popolazione – quella calabrese – che versa in una quotidianità dolente e guarda al futuro con occhi rassegnati e increduli, ci si chiede se davvero non si possa far nulla per cambiare un destino già scritto, ineluttabile e misero.
Una reazione è già in atto e vede protagonisti numerosi esponenti politici regionali e locali, di ogni colore, che si sentono defraudati da troppo tempo delle loro legittime prerogative democratiche e privati, tra l’altro, della possibilità di contrastare, con la dovuta tempestività ed efficienza, gli effetti economici e sociali di un’emergenza sanitaria che oggettivamente spaventa.
Si tratta di una risposta legittima e comprensibile, che rischia però di risolversi in una sterile e rabbiosa esibizione di orgoglio e di sdegno, potenzialmente funzionale anche a suscitare clamore sociale e sviare l’attenzione dai problemi di sempre, cui le istituzioni territoriali e centrali non sono riusciti ad ovviare.
Una reazione emotiva come quella, miope, che alla fine degli anni sessanta fece seguito alla provocatoria descrizione della Calabria (terra di “banditi”) fatta da Pier Paolo Pasolini nel reportage “La lunga strada di sabbia”: Pasolini chiarì il suo pensiero sulle pagine di Paese Sera, schierandosi pubblicamente dalla parte della “povera gente ... bandita dalla società italiana” e contro il “barone”, i “servi politici”, “chi vuole perpetuare questo stato di cose, ignorandola, mettendola a tacere, mistificandola”.
Colpiti dall’ennesima ingiustizia, possiamo fare esercizi di retorica e ricordare la cultura millenaria della Calabria, le sue nobili origini, il suo straordinario patrimonio archeologico e storico, il suo apporto in ogni ambito del sapere scientifico; oppure possiamo ritornare ad essere protagonisti del nostro tempo, guardare in faccia la realtà e lottare con determinazione per vedere riconosciuti i diritti fondamentali, per migliorare i contesti sociali e prevenire vecchie e nuove marginalità, per contrastare ogni centro di potere illecito (palese o occulto che sia), per avere servizi pubblici efficienti e amministrazioni in grado di dare risposte concrete alle esigenze dei cittadini.
La magistratura progressista reggina, che da tempo partecipa al dibattito pubblico perché desiderosa di fornire il proprio contributo alla rifondazione etica e democratica della società calabrese, ritiene che il momento che viviamo chiami tutti, nessuno escluso, ad una prova di maturità e ad un’assunzione di responsabilità che, passando anche attraverso rinunce e autolimitazioni, sia autentica e costruttiva.
Da parte nostra avvertiamo la necessità di ribadire che l’affermazione di una cultura della legalità, ove disgiunta da un’adeguata valorizzazione delle competenze professionali e delle capacità amministrative e da un efficiente ed equilibrato sistema di controlli, non possa garantire di per sé il raggiungimento di risultati positivi; allo stesso modo, non è sufficiente il formale rispetto delle regole per vedere inverati i valori di solidarietà, uguaglianza sostanziale e giustizia sociale che sono alla base del nostro stato costituzionale di diritto.
Il proliferare dei commissariamenti, cui abbiamo assistito negli ultimi anni in diversi ambiti della vita pubblica (soprattutto a seguito dello scioglimento di amministrazioni locali interessate da infiltrazioni o condizionamenti mafiosi), ha reso evidente il pericolo costituito da decisioni, scelte e nomine ispirate da logiche meramente legalitarie o ragionieristiche (se non semplicemente di facciata), ma di fatto sganciate da un’effettiva comprensione delle esigenze dei territori coinvolti e caratterizzate da un approccio ai problemi marcatamente burocratico, quando non apertamente disfunzionale e inviso alle comunità locali (al punto da far rimpiangere, paradossalmente, gli organi rappresentativi temporaneamente sostituiti dai commissari prefettizi o governativi).
Anche lo strumento interdittivo, sebbene di fondamentale importanza nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, rischia di dar luogo ad indebite compressioni della libertà d’impresa e dei diritti dei singoli, se non accompagnato da istruttorie approfondite che rifuggano da automatismi presuntivi per discernere tra le posizioni individuali e comprendere dinamiche di contesto talora complesse.
Riteniamo sia giunto il momento di uscire dalle secche di un dibattito pubblico nel quale non si possa parlare che di mafia e di antimafia e non vi sia spazio per proteste, discussioni o manifestazioni di motivato dissenso: mai come adesso occorre recuperare, ad ogni livello, una forte capacità critica e prendere coscienza delle cose per comprendere la realtà, non ripetere gli errori del passato e progettare il nostro futuro insieme.
È tempo di avviare in Calabria una riflessione, anche dentro lo Stato, sull’efficacia di interventi che da eccezionali e temporanei si sono protratti nel tempo oltre ogni ragionevole previsione, senza risolvere le problematiche per le quali erano stati concepiti e senza creare le condizioni per il ritorno ad un fisiologico funzionamento delle istituzioni democratiche.
In questo percorso i magistrati di AreaDG Reggio Calabria non faranno mancare il loro impegno, sollecitando il confronto con le istituzioni, il foro, il mondo delle professioni, gli intellettuali e la società civile.
Area Democratica per la Giustizia - Sezione Di Reggio Calabria
9 novembre 2020