Comunicato

Separazione delle carriere e non solo

Il disegno di legge costituzionale in materia di Giustizia rende più forte l’esecutivo e stravolge la Costituzione alterando il delicato equilibrio tra i poteri dello Stato

Il ddl costituzionale in materia di giustizia (si tratta di modifiche agli artt. 87, 104, 105, 106, 107, 110 e 112 della Costituzione e dell’introduzione di un nuovo art. 105 bis) distrugge la magistratura costituzionale e apre scenari in cui vengono attaccati e messi a rischio l’indipendenza e l’autonomia della magistratura.

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Il ddl attualmente in discussione di fronte alla Commissione Affari Costituzionali prevede quattro diversi interventi:

 

Sono proposte indirizzate a dividere la magistratura ed a rendere più forte il potere esecutivo: una chiara alterazione del necessario equilibrio tra i poteri dello Stato ed uno stravolgimento complessivo della nostra Carta Costituzionale.

 

Si dirà che è una scelta necessaria, anzi tardiva, data la riforma del processo penale del 1989 e dell’art.111 della Costituzione o che essa risponde, semplicemente, all'esigenza di uniformare l’ordinamento giudiziario del nostro Paese a quelli delle altre nazioni occidentali.

Non è proprio così.

Parità delle parti nel giudizio e contraddittorio non significano in alcun modo specularità delle funzioni di accusa e difesa: il compito del Pubblico Ministero - organo pubblico - è quello di svolgere le indagini, di prendere le proprie determinazioni all'esito e di sostenere l’accusa nel giudizio; laddove quello, indefettibile, del difensore - professionista privato - è difendere facendo l’interesse preminente del cittadino accusato.

Non esiste un appiattimento dei giudici sulle richieste della Pubblica Accusa; al contrario, le statistiche esistenti evidenziano un elevato tasso di assoluzioni nel merito, così come, presso gli uffici del GIP, una significativa quota di richieste di misure cautelari non accolta.

Si tratta, con evidenza, di affermazioni fondate su un’idea sbagliata del lavoro dei giudici per cui le decisioni dei tribunali verrebbero adottate non già nel più rigoroso rispetto delle regole processuali -  ed in particolare di quelle attinenti alla valutazione della prova (o dei gravi indizi in sede cautelare) - quanto piuttosto in modo parziale, per una precostituita adesione all'orientamento culturale del PM.

Pensare o addirittura prospettare come obiettivo di questa riforma che la radicale separazione (forse un desiderio di contrapposizione?) tra Pubblici Ministeri e Giudici favorisca un esito diverso dei processi è quindi, in primo luogo, l’espressione di un infondato pregiudizio riguardante l’attività dei magistrati nel loro complesso.

Ad ulteriore testimonianza del fatto che si sta parlando di un falso problema, sotto il profilo delle funzioni svolte dal singolo magistrato nel corso della carriera, va ricordato che da diversi anni oramai, sia per esigenze di specializzazione che per l’applicazione di rigide limitazioni, i numeri dei passaggi da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa risultano sempre più ridotti e spesso limitati alla sola prima fase della vita professionale.

Quali allora i vantaggi per i cittadini?

Si pensa forse che ridisegnare la figura del PM da ricercatore della verità (e quindi anche di indizi e prove a favore dell’accusato) a strumento dell’accusa dedito ad esaltare gli elementi a sfavore della persona soggetta alle indagini porterà, solo per questo, ad un più “giusto processo”?

L’idea che una separazione delle carriere possa irrobustire il ruolo del Giudice esaltandone la terzietà è del tutto infondata: in un Paese nel quale tutta l’attenzione mediatica è sulle Procure e sulla fase delle indagini, la separazione delle carriere vedrebbe ancor più rafforzarsi il Pubblico Ministero ed il suo ruolo di “interprete” delle esigenze di difesa sociale. Ciò che si intravede dietro l’angolo, poi, non può che essere la progressiva sottoposizione della pubblica accusa all'esecutivo.

La strada maestra è un’altra: mantenere il PM strettamente ancorato alla comune cultura della giurisdizione, perseguire un’osmosi delle funzioni svolte ed un continuo confronto/collaborazione tra uffici giudicanti e requirenti, coinvolgendo in questo anche l’avvocatura.

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Il Consiglio Superiore viene indebolito e normalizzato con plurimi interventi. Viene anzitutto dimezzato, con la creazione di un CSM giudicante ed uno requirente. I suoi poteri vengono limitati prevedendo che ulteriori competenze possano essere attribuite solo con legge costituzionale. Competenze attribuite dalla legge come quelle in tema di organizzazione tabellare o di collaborazione sulle linee guida in tema di formazione non sarebbero più possibili. La conseguenza inevitabile, in un rapporto di diarchia come quello delineato dalla Costituzione con il Ministero della Giustizia, è un enorme rafforzamento di Governo ed esecutivo.

La composizione di entrambi i Consigli Superiori deprime la presenza dei magistrati, non più i due terzi dell’organo, ma solo la metà.

Non solo: non si parla più di “eletti”, ma di “scelti”, aprendo la strada a pericolose modalità di cooptazione.

È il disegno (o il desiderio?) di un CSM ridotto ad ufficio del personale della magistratura, con una pesante ingerenza dell’esecutivo e senza più un rapporto di rappresentanza con la magistratura stessa.

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 Viene introdotta la possibilità di un reclutamento laterale di avvocati e professori universitari come giudici in tutti i livelli della magistratura. La norma in esame sembra non tener conto del bilancio, finora non entusiasmante, dell’attuale art.106 comma 3 della Costituzione. A differenza di quanto si proponeva il costituente, non si è riusciti a coinvolgere i migliori avvocati e luminari semplicemente per il fatto che per un professionista o professore affermato non è conveniente accedere alla Cassazione. Consentire un accesso generalizzato, a quanto si legge senza concorso, semplicemente con una nomina consiliare, rischia di dare l’avvio a forme di “reclutamento parallelo” di cui non si ravvisa davvero la necessità. Si tratta di norma che, in uno con la “nuova” composizione del CSM, sembra aprire la strada ad una magistratura di nominati da parte di un organo numericamente condizionato dall'esecutivo o, quanto meno, dalle forze politiche di maggioranza.

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Infine, viene attenuata l’obbligatorietà dell’azione penale, aggiungendo in Costituzione l’inciso “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Aggiunta che, per quanto all'apparenza innocua o al più criptica, apre la porta alla cancellazione, di fatto, del principio di obbligatorietà dell’azione penale che fino ad oggi ha significato eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

È vero, sono note le difficoltà che si oppongono ad una effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale: troppo elevati i numeri, si assisterebbe di fatto ad una selezione discrezionale dei processi “da fare” ad opera dei magistrati delle Procure; meglio allora attribuire queste scelte al Parlamento...

Ancora una volta ci si fa schermo di un concreto problema di gestione di numeri e sopravvenienze, dato soprattutto dalla “panpenalizzazione” imperante, proponendo una soluzione dietro la quale si prospetta un concreto pregiudizio ad un principio fondamentale della nostra Costituzione: quello dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

27 marzo 2019