Un’intera gestione dell’ordine pubblico chiamata in causa dai fatti del G8
Vent’anni dopo le violenze e le torture perpetrate da appartenenti alle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, la CEDU ha rigettato i ricorsi presentati da alcuni dei responsabili dell’irruzione alla scuola Diaz che per quei gravissimi fatti furono condannati.
È l’ulteriore e forse definitivo tassello di un difficile percorso giudiziario che ha consentito di identificare soltanto alcuni, purtroppo, dei molti responsabili per le brutali e gratuite violenze perpetrate contro persone innocenti ed inermi proprio da coloro che istituzionalmente sono preposti a tutelare la vita, la salute e la dignità dei cittadini e assicurare le condizioni per l’esercizio delle libertà democratiche.
Un’azione giudiziaria che, al di là delle responsabilità penali e delle condanne, grazie alle testimonianze delle vittime, del personale medico e paramedico e dei giornalisti, ha consentito alla magistratura italiana, attraverso l’esercizio indipendente ed autonomo della giurisdizione, di accertare la verità di quanto accadde e a contribuire a far luce su una delle pagine più buie della storia della Repubblica.
La nostra Repubblica non può essere rassegnarsi a consegnare alla memoria collettiva una versione che liquidi l’accaduto come il risultato di una insana iniziativa autonoma e incontrollata delle solite “poche mele marce”. Intanto, perché queste non erano affatto poche e non allignavano in un sol corpo di polizia: si è reso evidente che quei fatti avvennero perché organizzati, programmati e gestiti ai vari livelli della catena di comando. Secondariamente perché v’è un piano ulteriore di responsabilità, quello politico dei vertici delle istituzioni coinvolte, che non hanno mai fatto ammenda, non hanno mai fatto autocritica anche solo per i molti errori che furono commessi e, soprattutto, non hanno mai chiesto scusa alle vittime delle violenze e delle torture. Diaz e Bolzaneto furono l’epilogo della decisione che fu assunta dai vertici delle istituzioni preposte alla gestione dell’ordine pubblico di far ricorso ad un uso della violenza in funzione della repressione del dissenso e dell’esercizio delle libertà democratiche: della libertà di pensiero e di manifestare, affermando pubblicamente un’idea ed una visione del mondo contrastante con quella che il vertice del G8 incarnava.
Questa violenza fu la cifra che segnò la gestione dell’ordine pubblico in quella particolare stagione, iniziata in Italia col Global Forum di Napoli e culminata nei funesti fatti genovesi. E proprio perché pregiudizialmente orientata in funzione dell’obiettivo, sbagliato, della repressione del dissenso e delle libertà democratiche, quella gestione ha finito per accanirsi contro chi pretendeva legittimamente di esercitare tali libertà, mentre ha invece trascurato i poteri affidati istituzionalmente alle forze dell’ordine.
Il risultato è stato quello del fallimento per l’ordine pubblico: quei giorni, estremamente tragici per i tanti eventi che accaddero, furono caratterizzati dall’assenza di una seria ed efficace azione di controllo e di contrasto nei confronti dei tanti violenti, comportò che quei gruppi di black-bloc costituiti da infiltrati e provocatori, abbiano potuto mettere a ferro e fuoco, praticamente indisturbati, le zone rosse e l’intera città di Genova.
Ma il risultato è stato fallimentare per la democrazia tutta, perché quell’uso politico della violenza ha frapposto una drammatica frattura tra i cittadini, i loro diritti e le loro libertà, e le forze dell’ordine. Queste ultime costituiscono una parte essenziale delle istituzioni del Paese e fondamentale è l’azione che quotidianamente, con disciplina ed onore, gli appartenenti alle forze di polizia assolvono, garantendo la sicurezza delle persone e delle comunità, la tenuta democratica a presidio dei valori fondanti dello Stato e del patto sociale su cui esso si è costruito.
È perciò indispensabile che la politica e tutte le istituzioni, nei diversi livelli decisionali per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, investano sempre gli appartenenti alle forze dell’ordine di un mandato chiaro, scevro da ogni ambiguità, in ordine all’uso legittimo della forza, dei suoi obiettivi e fini, così come dei suoi limiti, anzitutto nei riguardi delle persone che per ragioni di giustizia sono private della loro libertà, che rispecchi l’importante ed elevato compito che essi sono chiamati ad assolvere, rendendoli, anche attraverso un’azione culturale e di formazione permanente, sempre più consapevoli interpreti del processo democratico.
18 luglio 2021