Una giurisdizione di qualità contro la dittatura dei numeri
Da tempo la nostra società vive una torsione che segna il predominio dell’efficienza su ogni altro valore e la prevalenza di criteri economicistici su ogni altro parametro
La Giustizia non è estranea a questa tendenza, che è anzitutto, culturale. La vediamo tutti i giorni manifestarsi: nel senso comune che misura la giustizia in relazione al solo parametro dei tempi; nel nostro lavoro, nel quale badiamo in modo ossessivo alle statistiche; nella visione aziendalista degli uffici giudiziari, organizzati prevalentemente in funzione dello smaltimento dell’arretrato; nella dirigenza spesso piegata al ruolo di capitanato d’azienda.
Il nostro lessico rispecchia queste concezioni: ci siamo abituati a parlare di “smaltimento” dei fascicoli, come fossero un rifiuto; di “abbattimento” dell’arretrato, come se dietro ogni numero di procedimento non ci fossero persone e domande di giustizia.
Da ciò sono derivate conseguenze negative: una forte spinta alla burocratizzazione dell’attività giudiziaria in cui l’unica cosa che conta è chiudere in tempi rapidi i procedimenti; un’importanza spropositata delle statistiche meramente quantitative; una rilevanza eccessiva attribuita al ruolo del dirigente, dalla quale discendono l’arrivismo dei singoli e la centralità acquisita dalle nomine deliberate dal CSM.
La magistratura, anziché contrastare alla radice questi processi, ha messo in campo reazioni meramente difensive che hanno finito per assecondare e consolidare il nuovo contesto. I temi centrali sono diventati i carichi esigibili, la paura del disciplinare, le valutazioni di professionalità. Reazioni comprensibili che, tuttavia, non colgono la radice del problema.
Oggi, che abbiamo constatato quali siano gli effetti perversi di questa deriva, dobbiamo denunciarla apertamente, contrastare la dittatura dei numeri e rilanciare una giustizia di qualità, non indifferente a tempi e flussi, ma costantemente tesa a far coincidere diritto e giustizia.
La giustizia è un bene comune e, nel contempo, un valore, un’aspirazione cui costantemente dobbiamo tendere nel quotidiano esercizio della giurisdizione. Ricondurla a parametri di mera quantità e di rapidità significa privarla di senso e tradirla.
L’articolo 111 Costituzione, ripreso dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, parla di tempi “ragionevoli” del processo partendo dal presupposto che garanzie e contraddittorio implicano l’impiego di tempi congrui e che le determinazioni del giudice debbano essere assunte dopo un’attenta ponderazione e riflessione. Se l’unico metro fosse la rapidità, se il giudizio fosse tanto migliore quanto più è veloce, allora non conterebbe il merito della decisione né la procedura che si deve seguire per assumerla, ma solo la sua immediatezza. Il miglior ufficio di Procura sarebbe quello che, per ogni denuncia, istantaneamente chiede l’archiviazione o il giudizio; il Tribunale o la Corte migliori quelli che accolgono immediatamente l’istanza dell’una o dell’altra parte dopo sommaria delibazione e senza alcun contraddittorio.
La celerità dei tempi, quindi, non costituisce un valore assoluto. I tempi ragionevoli e certi che vengono richiesti alla giustizia devono essere compatibili con una risposta di qualità; ovvero con una decisione adeguatamente ponderata e motivata, presa all’esito di una procedura che abbia consentito a tutte le parti di esplicare fino in fondo le proprie difese.
All’opposto, la rapidità “a prescindere” si traduce in un produttivismo cieco che non si fa carico della qualità della risposta giudiziaria e rischia di produrre effetti di ingiustizia senza un reale beneficio di celerità. Perché un processo male istruito imporrà maggiore impegno nei gradi di giudizio successivi e facilmente determinerà annullamenti e regressioni, con inevitabili ritardi nell’adozione della soluzione definitiva alla quale aspirano le parti.
L’orizzonte culturale deve allora mutare: occorre affermare l’imprescindibile necessità di coniugare tempi e qualità, perché la crisi che ha investito il CSM, e più complessivamente la magistratura, ha radici nella questione morale, ma questa si alimenta per effetto della perdita del senso profondo della professione del magistrato, determinata anche dalla volgarizzazione del ruolo improntato al mero produttivismo.
Si rende necessaria quindi una vera e propria rivoluzione culturale, che ponga al centro del dibattito il tema delle risorse e dell’organizzazione degli uffici, ancorando a questi aspetti un livello di produttività compatibile con la qualità della giurisdizione.
Riteniamo che sia compito del nuovo CDC, investito di un ruolo di ricostituzione della cultura comune della magistratura, avviare questo processo, con la finalità dichiarata di abbattere la logica economicistica e aziendalistica, che si è dimostrata nei fatti perdente, e di rilanciare una giustizia attenta alla qualità delle decisioni, ai diritti, al ruolo del giudice e del pubblico ministero; capace di porre nuovamente la persona al centro della giurisdizione.
13 ottobre 2020