Le nomine dei dirigenti:
banco di prova per la difesa dell’autogoverno

di Rita Sanlorenzo
Candidata nella categoria magistrati di legittimità

1. Storia (in pillole) di una transizione

La questione dell’individuazione e della scelta del “miglior dirigente” per l’ufficio da parte del Csm non è sorta certo a seguito della riforma dell’ordinamento giudiziario portata a termine nel 2006. La consapevolezza della centralità della questione si è rafforzata nel corso degli anni, e poi dei decenni, via via che andava crescendo una cultura comune che vedeva nella migliore organizzazione del servizio, e dunque nella sua resa più efficiente, un obbiettivo imprescindibile al fine della realizzazione del dovere costituzionale dell’art. 97. Il nodo sensibile si è rivelato espressamente a partire dagli anni ’90, grazie in particolare all’elaborazione della magistratura associata[1], non più tanto nell’attenzione specifica verso le ipotesi di gestione opaca ed insindacabile del fronte più genuino dell’attività giurisdizionale, ma nel rilievo da dare alla necessità di organizzare e dirigere le risorse materiali e umane dell’ufficio, nell’ottica del perseguimento del buon andamento dello stesso[2].

Le elaborazioni che hanno preso le mosse da questa comune presa d’atto hanno portato all’acquisizione di alcuni dirompenti capisaldi capaci di sovvertire lo status quo: l’abbandono della prevalenza del criterio dell’anzianità nella scelta del dirigente, e l’attribuzione all’autogoverno della responsabilità sia dell’individuazione del candidato più idoneo per il posto specifico, sia del controllo successivo del suo agire sino al compiersi dell’incarico, temporalmente delimitato. Su questi criteri regolativi si sarebbe potuta reggere la costruzione della funzione dirigenziale non più come attribuzione di status, ma come tassello del più ampio quadro ispirato alla nozione della giurisdizione come servizio.

A seguire, la storia degli anni più recenti: la riforma legislativa del 2006 (d.lgs n. 160) ha accolto l’impianto generale delle proposte attribuendo al Consiglio superiore, ed anzi al circuito complessivo dell’autogoverno, la responsabilità di una scelta che si affida alla valutazione del singolo secondo i parametri del merito e delle attitudini. La normazione secondaria ha conosciuto poi una veloce e rapida evoluzione, attraverso l’emanazione di “Testi unici” susseguitisi a non lunga distanza di tempo, segno della ricerca di aggiustamenti capaci di superare, o di ridurre, le criticità introdotte dall’applicazione del nuovo sistema.

Se il Testo unico del 2010 in realtà mirava alla razionalizzazione della produzione di normativa secondaria sin lì generata dalla necessità di dare attuazione alle linee dettate dalla legge di riforma, nonché ad una semplificazione delle procedure per il conferimento degli incarichi[3], il nuovo Tu del 2015 dichiara maggiori ambizioni. Premessa l’intenzione di «garantire esigenza di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni consiliari» nell’esercizio di quell’ampia discrezionalità attribuita legislativamente al Consiglio, procede alla ridefinizione degli indicatori di idoneità direttiva, specificandone la tipologia e introducendo differenziazioni a seconda della natura dell’incarico, mirando anche a «porre nuove e chiare regole del giudizio di comparazione tra aspiranti». Ribadisce il principio secondo cui l’anzianità non rileva quale parametro di valutazione ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali, ma la durata della positiva esperienza professionale deve valere quale criterio di “validazione” dei requisiti delle attitudini e del merito, dei quali attesta lo specifico valore. Solo nel caso in cui la valutazione comparativa fra due o più aspiranti al medesimo incarico si concluda con giudizio di equivalenza dei rispettivi profili professionali, alla maggiore anzianità nel ruolo della magistratura è dato rilievo, dunque in via meramente residuale.

Fra le molte accuse che vengono mosse alla normativa secondaria di più recente approvazione vi è quella di legittimare (di sollecitare, anzi) il magistrato che ambisca a ricoprire nel corso della carriera funzioni direttive o semidirettive, a procedere sin dai primi passi alla costruzione del proprio percorso personale, spendendosi nell’acquisizione di incarichi di collaborazione nella gestione degli uffici, quali le deleghe organizzative ricevute, le attività di magistrato di riferimento per l’informatica, quella di coordinamento di settori o sezioni, nonché la collaborazione con la dirigenza su specifici progetti.

Ispirato dunque dall’intento di tarare l’incarico direttivo sulle necessità dell’ufficio a cui il magistrato è preposto, e quindi di funzionalizzare la dirigenza alle esigenze del servizio secondo il perseguimento del buon andamento degli uffici, il nuovo sistema ha invece determinato fenomeni di opposta natura: la carriera diventa, per molti magistrati, oggetto di aspettative e di proiezioni che condizionano sin dall’inizio l’iter professionale; la questione della “dirigenza” assume importanza nodale per come è vissuta non solo per la storia del singolo, ma agli occhi dell’intera magistratura.

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2. I magistrati di fronte al cambiamento

L’aumentato potere discrezionale del Consiglio ha indubbiamente influito sul rapporto anche ideale con l’organo e con il suo agire da parte dei magistrati, ma non può negarsi che abbia influito pesantemente e prepotentemente sulla stessa idea di carriera e di dirigente. Non si metabolizza ancora il dato qualificante della perdita di ogni decisività dell’anzianità di servizio, e non rientra ancora nella fisiologia della storia professionale del singolo né l’accettazione di essere pretermesso per il posto ambito in favore di un collega più giovane, né la perdita delle funzioni ricoperte allo scadere del tempo, che è vissuta come trauma che può evitarsi solo in un modo, ossia procurarsi altro, magari superiore, incarico. In altre parole, si può affermare che il precetto costituzionale di cui all’art. 107, co. 3, per cui «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» ha perso ogni capacità conformativa, e sembra davvero che in esso e nel modello che esprime, il corpo della magistratura oggi non si riconosca più.

L’investimento operato dal Legislatore del 2006 sulla figura del dirigente dell’ufficio, come garante e responsabile di un impegno complessivo per il miglioramento del servizio, su cui per vero si imperniava il disegno di ammodernamento e di sburocratizzazione, ha costituito invece il punto di svolta, l’occasione di un vero e proprio “mutamento antropologico” di negativa portata.

Sia chiaro, l’ambizione del singolo può operare come potente leva di miglioramento se ad essa si associa indissolubilmente l’idea di un sindacato serio e penetrante sui risultati dello svolgimento delle funzioni direttive o semidirettive a cui si aspira; se il pregresso svolgimento di incarichi organizzativi costituisce occasione di apprendimento e di acquisizione di competenze mirate, e non rappresenta invece l’espletamento di un cursus rivolto ad uno scopo preciso e preordinato; se nell’avanzare la propria disponibilità per la direzione di un ufficio si intende mettere in gioco proprie specifiche attitudini a quel particolare tipo di attività, che non coincidono sempre e necessariamente con quelle allo svolgimento della funzione giurisdizionale. Occorrerebbe innanzitutto rinforzare presso i magistrati, soprattutto i più giovani, il concetto che l’attribuzione di incarichi di natura dirigenziale non è il portato di un diritto alla carriera del singolo: secondo questo schema operava piuttosto il regime passato, che è stato abbandonato dopo decenni di inefficienze dovute alla deresponsabilizzazione ed alla visione corporativa che lo ispirava. Solo un profondo cambiamento nella coscienza collettiva del corpo professionale – insieme con un robusto richiamo all’etica individuale – potrà invertire il senso di marcia, che dopo poco più di un decennio ha profondamente segnato il modo di essere magistrato.

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3. L’autogoverno di fronte al cambiamento

Giungiamo al punto: occorre verificare gli effetti della riforma alla luce della sua attuazione da parte dell’autogoverno. Il quadro non è semplice né monocromatico. Dopo il 2006 si è effettivamente affermata una generazione nuova di dirigenti, il superamento del criterio dell’anzianità senza demerito ha concretamente dato modo al Consiglio di operare scelte adeguate ad una visione più moderna del servizio e delle sue esigenze. Non sembra proponibile un ritorno al passato, anche se una componente associativa, Autonomia & Indipendenza, ha recentemente proposto un referendum tra i magistrati per l’attribuzione all’anzianità di un rilievo quale criterio autonomo di valutazione da affiancare ai parametri del merito e delle attitudini, e per la reintroduzione delle fasce di anzianità per la considerazione dei candidati, ed anche Area prospetta nelle sue «Dieci ipotesi per cambiare le regole per le nomine» una valorizzazione dell’anzianità come indice dell’esperienza professionale acquisita, escluso però ogni automatismo valutativo.

Le proposte esprimono un reale disagio, che molti colleghi avvertono, di fronte all’esercizio di una discrezionalità molto ampia, ma che soprattutto sembra non volersi attenere al doveroso compito di rendere trasparenti i criteri adottati nell’operare le scelte, e di utilizzare questi stessi in termini coerenti e saldamente ancorati a dati quanto più oggettivi.

Qui sta il problema. Ha sicuramente un solido fondamento l’affermazione per cui la considerazione del ruolo costituzionale del Consiglio dovrebbe implicare una qualificazione della sua attività secondo uno schema che non può ridursi a quello dello svolgimento delle funzioni meramente amministrative[4], e dunque il sindacato di legittimità nei suoi atti dovrebbe tener conto della particolare collocazione costituzionale dell’organo: ma non può trascurarsi, per contro, che gli annullamenti anche di recente espressi dagli organi di giustizia amministrativa di alcune nomine per eccesso di potere, colpiscono in realtà proprio l’assenza di motivazione delle delibere rispetto alle ragioni della scelta.

Le sentenze si rifanno proprio alle premesse della relazione al già citato Testo unico della dirigenza che, come si legge nelle premesse della relazione introduttiva, ha inteso «garantire le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni consiliari» attraverso la ridefinizione degli indicatori di idoneità direttiva, diversificandoli secondo le tipologie di incarico e, soprattutto, porre «nuove e chiare regole del giudizio di comparazione tra aspiranti», con la finalità di «far sì che la meritocrazia non rimanga un’affermazione di principio, ma rappresenti realmente il valore fondante di ogni scelta selettiva, ... che deve sempre orientarsi alla scelta del migliore dirigente da proporre al posto da coprire, nel rispetto del superiore interesse pubblico».

Secondo questa giurisprudenza, i principi enunciati nel nuovo Testo unico «non concernono il contenuto delle valutazioni del Csm, che appartiene al merito insindacabile in giustizia (....), salvi manifesti aspetti di irragionevolezza, sproporzione o arbitrarietà», ma «precisano e intensificano un dovere procedimentale di valutazione del merito tecnico (...) che si riflette, tra l’altro, nella necessità di una particolare chiarezza e di una particolare comprensibilità della formazione lineare della decisione», la quale, ferma la non necessità di una motivazione significativamente diffusa, deve essere tale da «esternare l’essenziale apprezzamento tecnico e non presentare salti logici, così che lo sviluppo procedimentale si deve manifestare non solo come una sequenza formale di atti, ma anche come un autentico, coerente e logico percorso elaborativo della determinazione» (Consiglio di Stato, sezione V, 28 ottobre 2016, n. 4552).

Ora, sono note le obiezioni che vorrebbero limitare il sindacato sugli atti del Csm per vizi di violazione di legge, escludendo invece quello relativo ai vizi sintomatici dell’eccesso di potere, in ragione di una valorizzazione della discrezionalità consiliare che ne accentuerebbe così «la responsabilizzazione rispetto alla corretta attuazione dei principi costituzionali di autonomia ed indipendenza, ma anche di governo effettivo della politica di amministrazione della giurisdizione[5]».

Nella realtà dei fatti, le stesse Sezioni unite della Corte di cassazione escludono che il giudice amministrativo ecceda dalla propria amministrazione se, chiamato a vagliare la legittimità di una deliberazione con cui il Csm ha conferito un incarico direttivo, si astenga dal censurare i criteri di valutazione adottati dall’amministrazione e la scelta degli elementi ai quali la stessa amministrazione ha inteso dare peso, ma annulli la deliberazione per vizio di eccesso di potere desunto dall’insufficienza o dalla contraddittorietà logica della motivazione in base alla quale il Csm ha dato conto del modo in cui, nel caso concreto, gli stessi criteri da esso enunciati sono stati applicati per soppesare la posizione di contrapposti candidati[6].

L’orientamento, peraltro, ha un suo condivisibile fondamento giuridico, ed uno, forse ancora più rilevante, di principio: il dovere di rendere conto del percorso motivazionale che ha determinato una scelta dovrebbe essere particolarmente avvertito in un consesso che rappresenta proprio chi, professionalmente, esercita quotidianamente una funzione il cui esercizio presenta ampi margini di discrezionalità, e che assolve al proprio compito ritenendo ad esso fisiologicamente connesso quello di esplicitare i motivi delle proprie decisioni.

Il ritmo serrato che ha seguito il Csm negli anni a partire dal 2006 nell’operare le nomine per incarichi direttivi e semidirettivi[7], non ha sicuramente favorito il perfezionamento di una tecnica motivazionale “a tenuta di ricorso”, considerato anche il vertiginoso ricorso alla collaborazione di magistrati esterni alla struttura consiliare cui viene affidata la sola stesura delle motivazioni (di decisioni che non sono state da loro assunte).

A prescindere da ciò, è pur vero che alla discrezionalità che il Legislatore ha voluto attribuire al Consiglio al fine di poter meglio perseguire l’obbiettivo di una migliore individuazione delle risorse più idonee a ricoprire i ruoli di vertice, dovrebbe corrispondere una simmetrica responsabilità che riguarda il perseguimento del buon governo degli uffici.

Solo attraverso il rispetto di dovere di trasparenza l’azione del Csm potrà legittimarsi nel rendere conto della propria fedeltà ad un preciso modello di dirigente, funzionale alla realizzazione del precetto dell’art. 97 Cost.; diversamente, sarà preclusa all’esame esterno l’individuazione di quella “cifra politica” capace di rendere “accettabili” le scelte «anche quando non condivisibili e a differenziarle da quelle “arbitrarie”, segnando il confine fra ciò che può rientrare in un uso non corretto della discrezionalità rispetto a una selezione per “accordo” o per “appartenenza”[8].

D’altronde, è sempre più difficile l’affermazione di un principio di responsabilità in ordine al cattivo uso del potere discrezionale, visto il progressivo depotenziamento della presenza dei gruppi associati nel Consiglio operato dalle modalità di elezione dei singoli candidati. La personalizzazione del consenso stabilisce un rapporto diretto con l’elettorato che in realtà vanifica o comunque attenua ogni responsabilità per le scelte compiute dagli eletti, non rieleggibili. Questa esplosiva miscela di fattori è stata sin qui gestita dall’associazionismo, e dai singoli, senza la dovuta attenzione alle ricadute che le opacità, le incoerenze, a volte l’evidente rispondenza a mere logiche di spartizione possono avere non solo e non tanto sulla credibilità della scelta nell’occasione compiuta, quanto sulla stessa tenuta dell’intero sistema di autogoverno, e sulla difesa dell’indipendenza della magistratura tutta. Le minacce che si profilano all’orizzonte, quale la presentazione del disegno di legge per la separazione delle carriere e la costituzione di due Csm, entrambi a pari composizione di laici e togati[9], rendono tutt’altro che remota la necessità di una mobilitazione. Il recupero della fiducia di tutta la magistratura deve impegnare l’associazionismo, e soprattutto quello di orientamento progressista, non solo nello spazio di una campagna elettorale, ma guardando all’orizzonte, ben più vasto, della tenuta del quadro costituzionale.

4. Il nuovo rapporto con la politica

Un capitolo a sé meritano indubbiamente le nuove modalità con cui si esplicita la presenza dei consiglieri eletti dal Parlamento all’interno del Consiglio.

Il crescente protagonismo della componente laica, e la decisiva capacità di aggregazione al fine di rendere determinante il proprio schieramento su alcune nomine, rappresentano la novità che ci ha regalato l’esperienza del Csm in corso. Effetto che non può essere letto disgiuntamente dalla disgregazione della capacità di iniziativa politica della rappresentanza togata, e dall’evidente venir meno del protagonismo del Consiglio nel dibattito sulle politiche giudiziarie. Allo spostamento di interesse che, dicevamo, ha segnato il corpo professionale dei magistrati, sempre meno attratti dall’impegno critico collettivo sul piano della proposta, e ancor più della protesta, per il miglioramento del servizio, e viceversa tentati dalla ricerca individuale di un soddisfacente percorso di carriera, ha corrisposto la strategia di una inedita alleanza che ha scavalcato le diverse originarie provenienze e che è stata capace di fare blocco su molte delle scelte più importanti e significative.

Il mutamento di scenario si fa più sensibile in alcune vicende, dove esplicita è stata la centralità dello schieramento della componente laica. La vicenda della nomina del presidente del Tribunale di Firenze risulta per molti versi emblematica. La comparazione si poneva tra due candidate, il profilo di una delle quali rispondeva a moltissimi degli indicatori previsti dal Testo unico, per la pluralità di esperienze professionali (anche direttive), per la specifica conoscenza dell’ordinamento giudiziario nonché per la peculiare esperienza di carattere internazionale.

La preferenza verso l’altra candidata, magistrato di indubbie qualità ma con un’esperienza ben più circoscritta, è stata rivendicata in dichiarazioni ad organi di stampa da componenti laici del Csm in quanto ritenuta «più adatta alla gestione pratica»: una valutazione di natura meramente soggettiva, priva di ogni oggettività e trasparenza, lontana da ogni minima considerazione di quei criteri di merito dalla cui considerazione le decisioni del Consiglio non possono prescindere, pena la violazione della normativa specifica.

Non si tratta allora di rimpiangere anacronistici meccanismi automatici basati sull’anzianità, e di agitare il malcontento in nome di una eccessiva discrezionalità riservata al Consiglio: ciò che è venuto meno, in molte occasioni, è innanzitutto l’esercizio faticoso, e necessariamente umile, del dovere di dare conto del potere che si esercita, in nome dell’istituzione. Davanti a queste opacità si fa vieppiù radicato il convincimento che dietro lo scudo della discrezionalità si cela invece un intollerabile arbitrio, che in alcuni casi non ci si perita nemmeno di dissimulare.

Il tema è però ancora più ambiguo e insidioso, e riporta al tema del nuovo rapporto tra la magistratura e la politica[10]. La recente vicenda dell’”emendamento a sorpresa” alla Legge di stabilità che ha abrogato del tutto la norma che poneva limiti temporali all’assunzione di incarichi dirigenziali e di fuori ruolo agli ex consiglieri, dimostra che la logica dello scambio si è ormai radicata e non ha remore a rendersi palese, né ha timore di suscitare scandalo. La modifica legislativa sarà operativa peraltro proprio rispetto ai futuri destini professionali degli attuali consiglieri, una volta cessati dall’incarico. Inutile dire che la nuova disciplina viene letta come un oggettivo favore ai componenti del Consiglio, a partire da quelli in carica, e fomenta la diffidenza e l’avversione (ma anche il metus) verso l’istituzione stessa.

La tendenza in atto meriterebbe un’analisi più approfondita dello scontato stigma contro il populismo dell’antipolitica, e una riflessione che parta dalla responsabilità a cui tutti chiama la difesa dell’indipendenza della magistratura, divisa all’interno da una competizione perenne e facilmente condizionabile sulla base delle ambizioni individuali.

Non si tratta solo della necessità per la magistratura di orientamento progressista, che si ritrova nel comune spazio ideale e politico della difesa dei valori dettati dalla nostra Costituzione, di trovare la spinta per distinguersi nel panorama associativo, e per ribellarsi ad ogni tentazione di omologazione ai gruppi interessati essenzialmente alla gestione del potere. Si tratta piuttosto, e più ambiziosamente, di mettere al centro dell’attenzione di tutta la magistratura, e delle sue componenti associative, l’urgenza di un cambio di passo, di un patto in nome del quale ritorni al centro l’orgoglio dell’autogoverno, la sua trasparenza, la sua capacità di coinvolgimento della magistratura tutta.

[1] Ed in ispecie di Md. V. tra gli altri, E. Paciotti, La questione dei dirigenti degli uffici giudiziari, in La professione del giudice, Milano, 1985, pp. 173 ss.; della stessa A., I dirigenti degli uffici giudiziari, in L’organizzazione della giustizia: servizio o disservizio?, Milano, 1994, pp. 207 ss.

[2] C.Viazzi, I quadri dirigenti oggi, tra giurisdizione e organizzazione, in questa Rivista, Franco Angeli, Milano, n. 2-3, 2013, p.168.

[3] G. Campanelli, Nuovo Testo unico sulla dirigenza giudiziaria: possibili effetti sul limite del sindacato giurisdizionale, in www.questionegiustizia.it/articolo/nuovo-testo-unico-sulla-dirigenza-giudiziaria_possibili-effetti-sui-limiti-del-sindacato-giurisdizionale_09-04-2016.php.

[4] L. Geninatti Saté, Il sindacato giurisdizionale sugli atti del CSM: una questione politico – costituzionale, in questo numero di questa Rivista.

[5] E. Cesqui, Fenomenologia di un rapporto difficile: Csm, giudice amministrativo, sezioni unite, in questa Rivista, Franco Angeli, Milano,  n.6, 2012, p.11.

[6] Cass., sez. un. 4 febbraio 2014, n. 2403; v. anche Cass., sez. un., 2 ottobre 2015, n.19787, in Foro it., 2015, I, 3440, con nota di A.Travi.

[7] Nell’ultima consiliatura, sono stati nominati 339 direttivi e 449 semidirettivi.

[8] M. Guglielmi, Nomine e tentazioni conformiste: il difficile ma necessario esercizio della discrezionalità, intervento in Le Giornate di Napoli, I nodi critici dell’esercizio della responsabilità del Csm, i problemi sul tappeto e la necessità di un confronto, in questa Rivista on line, Rubrica Cronache fuori dal Consiglio, 25 luglio 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/le-giornate-di-napoli-i-nodi-critici-dell-esercizi_25-07-2017.php.

[9] Il testo del disegno di legge si trova alla pagina www.separazionedellecarriere.it/doc/Proposta_di_legge_costituzionale_CSC.pdf.

[10] Sia consentito richiamare alcune riflessioni ancora attuali, Il Manifesto, 15 settembre 2017, La magistrata: «Cantone e i tecnici garanti del potere», www.ilmanifesto.it/la-magistrata-cantone-e-i-tecnici-garanti-del-potere.

Articolo pubblicato in Questione Giustizia trimestrale, n. 4 del 2017, numero monografico «L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm», www.questionegiustizia.it/rivista/2017/4/le-nomine-dei-dirigenti-banco-di-prova-per-la-difesa-dell-autogoverno_495.php