Separazione delle carriere e assetto costituzionale della magistratura
Nelle prossime settimane la Camera dei Deputati sarà chiamata a discutere del disegno di legge di iniziativa popolare, promosso dalla Unione delle Camere Penali Italiane, avente ad oggetto la “separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti”.
Io credo che su questo tema ci siano due piani di discussione che vanno tenuti separati.
Il primo è quello del dibattito, teorico e politico, sulla unità/separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti, tema sul quale da tempo magistrati e avvocati hanno posizioni diverse.
Gli avvocati invocano la necessità di rafforzare la terzietà del giudice, che oggi sarebbe pregiudicata dall’appartenenza di giudici e pubblici ministeri al medesimo ordine, mentre i magistrati sottolineano l’importanza di conservare una cultura comune tra tutti i magistrati. Un pubblico ministero inserito all’interno dell’unica carriera dei magistrati, coltiva come il giudice, pur nella diversità del ruolo, quella cultura del dubbio, che è un elemento essenziale della funzione giudiziaria e che rischieremmo di perdere affidando l’attività inquirente e requirente a un corpo separato dello Stato che si gestisce da solo e si organizza da solo. Perché se allontaniamo il pubblico ministero dal giudice, inevitabilmente lo avviciniamo e lo assimiliamo a qualcos’altro: al potere politico o ai corpi di polizia, che comunque sono incardinati nel potere esecutivo.
L’altro piano di discussione è, invece, quello della proposta di riforma costituzionale in discussione alla Camera, che è stata presentata con il titolo e con gli argomenti della separazione delle carriere, ma che in realtà contiene una serie di interventi che poco o nulla hanno a che fare con questo tema e che riguardano invece direttamente il tema della autonomia e della indipendenza della magistratura, sul quale operano un radicale stravolgimento dell’attuale assetto costituzionale.
Molte di quelle proposte ricordano il contenuto dei lavori di una commissione di saggi che il Presidente della Repubblica dell’ epoca, Francesco Cossiga, incaricò di elaborare un progetto di riforma dell’autogoverno. Si tratta, lo dico per i più giovani, del Presidente della Repubblica che inviò i Carabinieri al CSM per impedire la trattazione di una pratica, che, guarda caso, riguardava i rapporti tra il Procuratore della Repubblica e i Sostituti.
Nel testo della proposta ci sono, anche sul piano lessicale, alcune cose che evocano immediatamente quello che nella vulgata giornalistica e nel linguaggio politico è sovente enunciato come il tema del rapporto tra politica e magistratura o, più esplicitamente, del necessario riequilibrio tra questi poteri, che nella sostanza si traduce nell’esigenza di ridurre la c.d. invadenza del potere giudiziario nei confronti del potere politico.
Provo ad indicare per punti gli interventi di cui parlo e a spiegare perché il prodotto offerto al Parlamento è cosa del tutto diversa da quella “separazione delle carriere” che è indicata nell’etichetta.
All’art. 3 della proposta di riforma costituzionale si propone di riscrivere l’art. 104 della Costituzione, affermando che l’ordine giudiziario è autonomo e indipendente da ogni potere. Il testo vigente dice da ogni altro potere.
In buona sostanza si vuole tradurre in norma costituzionale l’affermazione, ricorrente nel dibattito politico, secondo la quale la magistratura sarebbe un ordine e non un potere. È una affermazione che io ho trovato sempre stravagante sul piano teorico, in quanto mi viene difficile immaginare che non sia un potere, anzi un terribile potere, come diceva Montesquieu, quello di privare un uomo della sua libertà o dei suoi beni. Ma che ha un chiaro significato in quel dibattito pubblico sull’equilibrio tra i poteri cui facevo cenno sopra: la magistratura è un ordine, non un potere, e dunque deve essere sottordinata e subalterna al potere politico.
Con l’art. 4 della proposta si prevede che le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura sono solo quelle espressamente attribuite dalla Costituzione o da leggi costituzionali. Dunque, tante delle iniziative assunte dal CSM sui temi della giustizia, e che hanno spesso trovato il consenso degli avvocati, non sarebbero più possibili. Penso, per richiamare solo gli interventi degli ultimi mesi, ai pareri resi dal CSM sul decreto-sicurezza, sulla riforma della prescrizione, sul divieto di abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo.
Questo era uno dei cavalli di battaglia della Commissione Paladin: togliere al CSM il potere di esprimere pareri sui disegni di legge, di fare proposte sui temi della giustizia, di fare pratiche a tutela di magistrati soggetti ad attacchi. In un disegno che aveva il dichiarato obiettivo di trasformare il CSM da organo di rilievo costituzionale a organo di amministrazione del personale della magistratura.
Si tratta di questione che non ha nulla a che vedere con il tema della separazione delle carriere, ma che ha molto a che fare, invece e ancora una volta, con il tema del rapporto con la politica, o meglio del primato della politica, tanto caro a gran parte del mondo politico.
Ancora, l’articolo 8 della proposta prevede l’abrogazione del terzo comma dell’articolo 107 della Costituzione, cioè di quella norma, a noi particolarmente cara, in base alla quale i magistrati si distinguono solo per funzioni, cioè sono tutti eguali, dal Primo Presidente della Cassazione al M.O.T. appena nominato. Abolire questa previsione significa ripristinare il principio gerarchico all’interno dell’ordinamento giudiziario, ritornare alla distinzione tra bassa magistratura e alta magistratura, attribuire poteri gerarchici ai dirigenti degli uffici.
E credo vada detto con chiarezza che l’imparzialità e la terzietà dei giudici italiani, visto che questo è l’obiettivo dichiarato della riforma, non si rafforza certo mettendogli un capo sulla testa.
L’articolo 7 della proposta sostituisce il terzo comma dell’art.106 della Costituzione prevedendo che la legge può prevedere la nomina di avvocati e professori ordinari universitari di materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante. In buona sostanza si elimina l’obbligo di concorso per l’accesso in magistratura, attribuendo alla legge la possibilità di prevedere forme di reclutamento alternative, senza alcuna limitazione né di numero né di criteri.
E dunque si potrebbe stabilire con legge che la metà dei giudici italiani sono nominati per concorso e l’altra metà dal Governo.
Noi abbiamo già oggi un esempio di giurisdizione che riceve una “provvista” di nomina governativa e non mi sembra che abbia dato frutti tali da consigliare di estendere l’esperienza.
Infine, gli artt. 3 e 5 della proposta che, nel ridisegnare gli assetti dei due Consigli Superiori, quello dei giudicanti e quello dei requirenti, fissano la composizione dei due organi per metà di componenti eletti dai magistrati e per metà nominati dal Parlamento in seduta comune. Si tende in questo modo a rafforzare la componente laica rendendola numericamente pari a quella togata. Questa previsione modifica radicalmente la natura del Consiglio Superiore, privandolo di fatto della sua funzione di governo autonomo. La componente laica, infatti, non avrebbe più la funzione di portare all’interno di una istituzione di governo autonomo il punto di vista esterno dell’accademia e delle professioni, mediato dalla investitura parlamentare, ma parteciperebbe in posizione paritaria al governo (non più autonomo) della magistratura. E anche questo ha ben poco a che vedere con la separazione delle carriere e molto a che vedere con la separazione dei poteri e con l’ autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Una scelta particolarmente miope, perché uno dei rischi più seri della separazione delle carriere è quello dello scivolamento del Pubblico Ministero nell’orbita del potere politico, e dunque un intervento sulla separazione delle carriere dovrebbe essere accompagnato da misure che tendono a rafforzare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, non certo ad indebolirla.
Pensiamo, ad esempio, che la richiesta di un Ministro di sanzionare i giudici che non si adeguano, nell’attività di interpretazione della legge, all’indirizzo politico di governo troverebbe maggiore o minore ascolto in un Consiglio composto per metà da componenti eletti dal Parlamento? O che i magistrati che indagano su comportamenti illeciti di esponenti politici sarebbero più o meno sereni se la Sezione disciplinare che dovesse valutare eventuali contestazioni disciplinari a loro carico fosse composta per metà da componenti eletti dal Parlamento?
Insomma, ciò che vorrei proporre è di continuare il confronto sul tema della collocazione ordinamentale del Pubblico Ministero, ma sgombrando il campo da proposte che con quel tema non hanno nulla a che fare e che invece toccano direttamente lo statuto di autonomia e indipendenza della magistratura sancito dalla Costituzione.
La separazione delle carriere si può fare con legge ordinaria: si entra per concorso, poi si fa una scelta irreversibile per l’una o per l’altra funzione. Io sarei fermamente contrario ad una proposta del genere e mi opporrei ad essa con argomenti che considero molto seri, ma almeno avrebbe il pregio di realizzare esattamente ciò che dichiara di voler fare, mentre l’attuale proposta fa piuttosto pensare ad un cavallo di Troia attraverso il quale, con l’occasione della separazione delle carriere, si mette mano in maniera radicale allo statuto costituzionale di autonomia e indipendenza dei magistrati italiani.
Con questo non voglio certo negare i gravi difetti del sistema di governo autonomo della magistratura, che emergono con tutta evidenza dalla lettura degli atti di inchiesta pubblicati nei mesi scorsi dai giornali. Ed è chiaro che questi comportamenti dei magistrati agevolano e favoriscono i progetti di riduzione della autonomia della magistratura.
Ma dobbiamo essere consapevoli che il rimedio a quei mali deve essere ricercato attraverso l’attuazione virtuosa del modello di governo autonomo disegnato dal costituente e non certo attraverso la sua distruzione.
Personalmente sono convinto, e lo dico pubblicamente da anni, che la magistratura ha il dovere di operare un cambiamento radicale nella gestione del potere interno al sistema di governo autonomo, abbandonando definitivamente metodi e prassi, che hanno favorito i comportamenti deviati a cui abbiamo assistito.
Ma allo stesso tempo penso che gli avvocati dovrebbero essere al fianco dei magistrati nella difesa della loro autonomia e indipendenza, perché esse sono la precondizione per la tutela dei diritti e delle garanzie delle persone, a cui presidio è posta la funzione del difensore.
In un momento storico in cui è evidente a tutti l’insofferenza sempre più manifesta, sempre più dichiarata da parte del potere politico nei confronti degli spazi di autonomia e di indipendenza della magistratura, l’ avvocatura dovrebbe essere in prima fila al nostro fianco in difesa di questi valori inderogabili, così come noi siamo in prima fila al fianco dell’ avvocatura nella difesa dei diritti fondamentali dei cittadini. Queste due battaglie le dobbiamo fare insieme perché stanno insieme, perché senza una magistratura autonoma e indipendente, non vi è spazio per la tutela dei diritti e per le garanzie dei cittadini.
Per cui il mio suggerimento, la richiesta che umilmente mi sento di rivolgere alla avvocatura italiana è di …separare le questioni: separare la questione della separazione delle carriere dalla questione dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Tornate al nostro fianco nella difesa dell’autonomia e della indipendenza e continuiamo a litigare sulla questione della separazione.
Giuseppe Cascini
Consigliere CSM
22 ottobre 2019