Comunicato su Afghanistan

La palese e grave violazione dei diritti umani attuata nei confronti del popolo afghano, in particolare nei confronti delle donne, dei minori e delle persone LGBTQ+, ci obbliga, come cittadine e cittadini, prima ancora che come magistrate e magistrati, a interrogarci sulle reali possibilità di intervento e di protezione delle vittime, soprattutto di quelle più vulnerabili, sul piano internazionale.

A questo riguardo dobbiamo prima di tutto distinguere il piano strettamente politico da quello giurisdizionale.

Sotto il primo profilo, l’attuale contesto emergenziale non consente altra tutela per i diritti umani violati in Afghanistan, se non quella ammessa dagli istituti del “Diritto Internazionale Umanitario” a favore delle vittime di guerra o dei conflitti armati, concetto esteso alla popolazione civile e le cui fonti risiedono nella Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864, dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e dai successivi protocolli dell’Aja nel 1977. Ma, ammesso e non concesso che il contesto attuale in Afghanistan possa definirsi “conflitto armato interno”, resta inteso che l’intervento a tutela della violazione dei diritti umani in fase emergenziale è un intervento “sul campo”, concreto e mirato, finanziato da enti anche privati e su ben individuati target.

Sotto il secondo profilo, invece, bisogna ulteriormente distinguere il binario della giurisdizione della protezione internazionale degli Stati di accoglienza da quello della giurisdizione sovranazionale dei e sui diritti.
È proprio quest’ultimo settore – nonostante sia il più evocativo e anche quello più citato dai commentatori occidentali – a rivelare drammaticamente la propria impotenza e così anche la propria natura di “arma spuntata” sulla quale gli Stati occidentali, che sul riconoscimento dei diritti fondano ampia parte della propria narrazione e della propria legittimazione politica internazionale, dovrebbero riflettere con urgenza e senza precomprensioni né preconcetti.

Il “Diritto dei Diritti Umani” non solo è posto da fonti sovranazionali multilivello, promanando da una varietà di sistemi diversi, in primis quello dell’ONU, ma spesso è anche costituito da statuizioni meramente programmatiche e preventive, prive di una loro reale cogenza e quindi inadatte a vincolare le decisioni di politica internazionale degli Stati quantomeno a una previa valutazione di compatibilità, o di impatto, sui diritti della popolazione civile; il che lega le mani a ogni reale possibilità di intraprendere, sul piano universale, azioni concrete a tutela dei popoli.

Sebbene l’Afghanistan sia infatti membro delle Nazioni Unite dal 1946, nonché firmatario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948 e abbia ratificato nel 1983 sia il Patto per i diritti e politici sia il Patto per i diritti economici, sociali e culturali (entrambi del 1966), e addirittura, nel 2003, anche la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), nessuna azione effettiva è stata intrapresa per fermare gli abusi né dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione del 31 agosto 2021, né dall’UNHRC nella sua special session di Ginevra del 24 agosto 2021.

Su scala regionale, poi, certamente non possono invocarsi a tutela dei diritti umani violati in Afghanistan le fonti internazionali relative ad altre aree mondiali (per il contesto europeo, la Convenzione Europea dei Diritti Umani del 1950 e la corrispondente giurisdizione della sua Corte o, sul fronte dei diritti delle donne, la Convenzione di Istanbul del 2011; per il Sud America, la Convenzione Interamericana dei diritti umani del 1969 e la sua Corte; per l’ambito africano, la Carta Africana dei diritti umani e dei popoli del 1981 e la corrispondente Corte).

E nemmeno aiuta rivolgere l’attenzione allo specifico contesto musulmano: né alla Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’uomo, sottoscritta presso l’UNESCO di Parigi nel 1981, che scaturiva dalla critica rivolta da alcuni paesi Islamici nei confronti della Dichiarazione Universale del 1948 secondo cui in essa non sarebbero state debitamente considerate le "esigenze religiose e culturali" dei paesi islamici; né alla successiva Dichiarazione del Cairo dei Diritti umani dell’Islam sottoscritta nel 1990 nel corso della Diciannovesima Conferenza islamica dei Ministri degli esteri; né, infine, alla Carta Araba dei Diritti dell’Uomo del 1994, giudicata incompatibile con la Dichiarazione Universale proprio dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite nel 2008.
Tutte queste fonti, infatti, muovono dall’assunto di essere gerarchicamente sottoposte al Corano ed alle tradizioni islamiche, in primis la Sharia.

Piuttosto, a tutela dei diritti umani violati in Afghanistan potrebbe in via astratta ricorrere proprio lo Stato afghano in quanto tale, o come Paese aderente (2003) allo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale (Corte da adirsi, come noto, per attestare la responsabilità penale individuale di soggetti per gravi violazioni della Convenzioni di Ginevra, crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e crimine di aggressione) o come Paese aderente, per l’appunto, alla Dichiarazione Universale e alla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW) del 1979, ma in chiave programmatica e preventiva.

Il che pone inevitabilmente il problema della soggettività internazionale del nuovo governo – regime talebano e l’interrogativo su una possibile forma di riconoscimento di soggettività internazionale autonoma al popolo violato.
In altre parole, l’insediamento talebano in Afghanistan vale a considerare l’attuale dirigenza e le sue istituzioni un soggetto di diritto internazionale? E, in caso positivo, si tratterebbe dell’unico soggetto astrattamente legittimato alla tutela dei diritti sul piano dell’ONU – un falso interrogativo, visto che dovrebbe azionarla contra se –, mentre il popolo afghano non avrebbe nessuna voce?

Sul piano politico quindi il nodo a cui tutte le strade portano pare essere proprio quello del riconoscimento al regime di una soggettività giuridica piena sul piano internazionale: nodo che, purtroppo, sarà prevedibilmente sciolto in base agli interessi politici ed economici delle Potenze interessate.

A noi, come cittadine e cittadini, resta il dovere di conoscere e di prendere parte al dibattito della società civile, mentre come magistrate e magistrati spetta l’onere di attivare con forza il “doppio binario” della giurisdizione della protezione internazionale, di insistere, come magistratura associata, per la solerte attivazione di corridoi umanitari con gli Stati confinanti con l’Afghanistan, e di assicurare con il sistema della protezione, fondato sul riconoscimento degli stati di vulnerabilità, un’adeguata protezione alle persone in fuga dall’ennesima violazione dei diritti, che sia ovviamente comprensiva del diritto a non essere separati, e quindi a ricongiungersi, con le loro famiglie.