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Voto di scambio politico-mafioso: una riforma discutibile, forse dannosa

Il Senato ha approvato, senza alcuna preventiva interlocuzione con Magistratura, Avvocatura e mondo accademico, una modifica dell’art.416-ter cp che rischia di avere effetti opposti a quelli auspicati

Il 24 ottobre 2018 il Senato ha approvato il Ddl di riforma dell’art.416-ter codice penale. Il testo approvato prevede che sia punito con la stessa pena che sarebbe applicabile agli appartenenti di una associazione di tipo mafioso (reclusione da dieci a quindici anni) “chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis, in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”. La stessa pena è prevista per chi, nei casi sopra indicati, “promette di procurare voti”. La pena è raddoppiata, invece, se chi ha accettato la promessa è eletto. Alla condanna consegue, in ogni caso, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Scopo dichiarato della riforma – che è stata presentata all’opinione pubblica come un passo fondamentale nella lotta alla mafia - è quello di contrastare più efficacemente il cosiddetto “voto di scambio politico-mafioso”, non solo prevedendo pene particolarmente severe, ma anche ampliando l’ambito operativo della fattispecie incriminatrice.

Il vigente testo dell’art. 416-ter del codice penale punisce con la reclusione da sei a dodici anni chi accetta la promessa di procurare voti, ovvero procura voti, avvalendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva; concentra, dunque, l’attenzione sulle modalità di raccolta del voto oggetto del contratto illecito, che sono oggetto di accordo tra il candidato e la controparte “mafiosa”. 

Spostando l’attenzione dalle modalità di raccolta del voto alla qualifica soggettiva del promittente, la riforma vorrebbe ampliare l’ambito operativo della fattispecie e rendere più facile l’accertamento del reato. Lo scopo perseguito, però, non viene raggiunto ed, anzi, v’è il concreto pericolo che il risultato sia opposto a quello auspicato.

Perché la nuova fattispecie incriminatrice sia integrata, infatti, è necessario che la promessa di procurare voti provenga da soggetti “appartenenti” alle associazioni di cui all’art. 416-bis cp e che tale appartenenza “sia nota” a chi riceve la promessa. Potrebbe dunque non esservi più uno “scambio elettorale politico-mafioso” se la promessa di procurare voti proviene da persona che si avvale della forza intimidatrice della associazione mafiosa, ma è estraneo ad essa; oppure nel caso in cui il promittente sia un mero intermediario esterno alla cosca, ma portatore della volontà dell’associazione criminale: situazioni che una costante giurisprudenza riconduce entro l’ambito operativo della fattispecie oggi vigente.

La norma, inoltre, apre una possibile questione interpretativa su che cosa intenda la legge per “appartenente”: per essere definito tale sarà necessario che il soggetto che concorda un intervento a favore del candidato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per partecipazione alla associazione di stampo mafioso? O è sufficiente che egli “appaia” come un appartenente all’associazione? E che cosa accade se il patto di scambio politico mafioso viene intavolato con un concorrente esterno all’associazione mafiosa, magari incaricato dall’associazione di contrattare con il candidato proprio per la sua “estraneità” alla struttura criminale?

Ma non basta, il testo approvato dal Senato richiede che l’appartenenza del promittente all’associazione mafiosa sia “nota” al contraente del patto elettorale e ciò rischia di porre nel nulla la fattispecie incriminatrice rendendola nei fatti inapplicabile. A meno di prove indirette molto consistenti sarà difatti molto difficile provare la “consapevolezza” del candidato circa la notorietà criminale del suo contraente.

Infine, con il superamento del riferimento all’impiego del metodo mafioso, che dovrebbe essere oggetto della promessa, viene indebolito il significato della norma. Il delitto, difatti, mirava a sanzionare chi intende avvalersi del “capitale sociale” dell’associazione di tipo mafioso per “truccare le carte” e prevalere nella competizione elettorale. In questo senso si coglie il grave pregiudizio alla libertà elettorale, che giustifica la sanzione. Non bisogna dimenticare che, quando l’alterazione del voto viene compiuta con violenza o minaccia, ma senza l’impiego del metodo mafioso, il legislatore ha già previsto dei reati autonomi nella legge elettorale (art. 96 e art. 97 del Testo Unico), puniti molto meno gravemente. La sanzione più elevata, nel caso del reato previsto dall’art. 416-ter cp, si giustifica proprio perché il candidato intende avvalersi dei metodi mafiosi, della sfera di influenza dell’associazione mafiosa.

Preoccupa e stupisce che una riforma siffatta - prevedibile fonte di incertezze interpretative e difficoltà probatorie – sia stata approvata dal Senato con tanta celerità, senza neppure prendere in considerazione le obiezioni sollevate dalla Commissione Affari Costituzionali che, pur avendo formulato un parere “non ostativo”, ha tuttavia invitato il Senato a “valutare l’opportunità” di prevedere, ai fini della configurabilità del reato, “il requisito della appartenenza del soggetto attivo alle associazioni di cui all’art.416-bis del codice penale”, requisito che - osserva la commissione – “presuppone un riconoscimento con sentenza definitiva passata in giudicato”. Ma ancor più ci preoccupa e ci stupisce, quali operatori del diritto, che, dovendo intervenire in una materia così delicata, non si sia sentita la necessità di avviare un’interlocuzione con i rappresentanti della Magistratura, dell’Avvocatura e del mondo accademico, interlocutori naturali del Parlamento perché preposti alla applicazione ed interpretazione delle Leggi.

29 ottobre 2018