Prima sessione
Il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie

Carlo RIMINI
Professore ordinario di diritto privato Università di Milano

Per abbreviare i tempi e perché la quantità degli stimoli forniti dal dibattito che si è svolto fino ad ora ritengo opportuno accantonare l'intervento che avevo preparato e parlare a braccio. Partirei dunque dalla fine e mi piacerebbe provare a fare una mediazione fra le opposte posizioni da ultimo emerse.

Devo confessare di appartenere al gruppo di coloro che approcciavano il Tribunale per i minorenni in passato con – lasciatemelo dire – estrema diffidenza. Infatti lo frequentavo il meno possibile e incaricavo lei di frequentarlo al posto mio [indicando Grazia Ofelia Cesaro].

Nel senso che, quando eccezionalmente mi capitava di avere qualche cliente che avesse bisogno di un avvocato al Tribunale per i minorenni e si rivolgeva erroneamente a me, dicevo: guardi, se vuole posso rimanerle a fianco, però, io ho bisogno di qualcuno che mi guidi nella giungla perché io non vado in un posto dove non ci sono regole, dove quello che contano sono le relazioni umane, il rapporto di fiducia con il giudice.

Il processo civile minorile appariva alla maggioranza degli avvocati un processo senza alcuna regola. La verità è che i tribunali per i minorenni facevano un lavoro enorme, e lo facevano senza che alcun avvocato chiedesse di intervenire in rappresentanza dei genitori nel 95% dei casi, e lo facevano tutto sommato benissimo. Facevano benissimo quello che diceva prima il dottor Villa.

I giudici del disagio familiare lavorano bene sul disagio senza alcun contraddittorio. Quando però tutto ciò veniva, per le caratteristiche particolari della vicenda, all'attenzione di un contraddittorio e all'attenzione di una difesa tecnica, la difesa tecnica si sentiva (giustamente) esclusa. Percepiva il Tribunale per i minorenni come un tribunale kafkiano in cui non c'erano regole, assolutamente ostacolante, lontanissimo dal rispettare i diritti di difesa propri dell'ordinario processo civile.

Per un avvocato civilista, si trattava di un sistema difficilmente comprensibile. Peraltro, venivano assunte decisioni rilevantissime e durissime quali, per esempio, l'allontanamento di un bambino dai genitori; per questi ultimi, tale circostanza aveva un portata peggiore di una condanna a vent'anni di reclusione. In molti casi, peraltro, veniva assunte decisioni che, nella sostanza, risultavano non impugnabili perché languivano come provvedimenti provvisori fino al compimento della maggiore età di quel bambino.

Quindi, oggettivamente, nei confronti del Tribunale per i minorenni, si era diffuso un sentimento di avversione. Questo almeno nel sottoscritto che, comunque, come ho già detto, lo frequentava poco (pur avendo molti colleghi e amici in quei corridoi). Questo sentimento di avversione, però, ha condotto ad un risultato positivo, cioè allo sviluppo di una coscienza politica in merito alla necessità di regolamentare l'attività del giudice minorile e all'individuazione della figura del "giudice unico". Personalmente ritengo che la figura del "giudice unico" sia una cosa buona.

 

Detto questo, permane il problema che le regole tanto auspicate non siamo stati in grado di scrivere. Perché non siamo stati capaci di scriverle? Perché nel momento in cui è stato necessario sedersi al tavolo, è stato fatto un vero e proprio ostracismo nei confronti dei giudici minorili nel tentativo di evitare di riprodurre proprio le stesse regole che si volevano abbandonare. Così facendo, è stato sottovalutato il fatto che i giudici minorili hanno una grandissima competenza specifica. Si è pensato, quindi, di risolvere il problema semplicemente applicando al processo minorile le regole del processo del contenzioso familiare ordinario. Ciò, in realtà, dal mio punto di vista, è come pensare di riformare il processo penale applicando ad esso il codice di procedura civile.

Il giudizio minorile è un giudizio – parliamoci chiaro – dello Stato "contro" la persona. Pur con l'intento di offrire un aiuto, infatti, lo Stato si pone "contro" i genitori che non sono in grado di tutelare l'interesse dei figli. Non si tratta, quindi, di un processo tra le parti e, pertanto, non ha senso applicare a quel processo il codice di procedura civile, neppure nella sua modulazione familiare.

Il risultato dell'assenza di buone norme sono i numeri di cui abbiamo parlato finora, con procedure in cui 9 volte su 10 le parti non sono assistiti da una difesa tecnica.

Per cui, secondo me, – e con questo poi mi taccio su questa primissima micro parte –. quello che si dovrebbe fare è salvare il giudice unico e, appena entrato in vigore il giudice unico, fare con una commissione di esperti della medesima alta qualità della precedente, e un nuovo rito che deve essere un rito del processo minorile che tenga conto che non è un processo di parti, ma è molto simile a un processo penale, da un certo punto di vista.

Si tenga poi presente che il giudice minorile, nei limiti del possibile, oltre che sanzionare i comportamenti contrari all'interesse dei minori, cerca di individuare soluzioni per le singole situazioni. Si tratta di un processo davvero peculiare per cui occorrono garanzie, procedure chiare, provvedimenti impugnabili e tempistiche compatibili con l'evoluzione della situazione. E' un processo in cui la rapidità non deve essere (il solo) obiettivo.

È un processo che deve essere costantemente adeguato all'evoluzione del nucleo familiare di cui si tratta. Questo, in ogni caso, non significa che esso, fisiologicamente, debba restare pendente per anni ed anni (fino alla maggiore età dei bambini) come accadeva in passato.

Più di questo, sull'argomento, temo di non poter essere particolarmente utile.
Vengo, quindi, a parlare di ciò che conosco meglio e cioè il rito relativo al contenzioso familiare.

Che bilanci possiamo fare? Per la mia esperienza il nuovo rito funziona molto bene ed ha condotto ad una considerevole velocizzazione dei giudizi (circostanza, questa, che è quasi uno degli obiettivi fondamentali della riforma). Quando gli avvocati e i giudici riescono a collaborare, il nuovo giudizio è diventato efficiente, tanto che può concludersi nell'arco di 4/5 mesi, come abbiamo già detto.

La sentenza definitiva può essere pronunciata anche all'esito della prima udienza. A mia opinione, ciò potrebbe realizzarsi in circa 8 casi su 10 senza che vi sia bisogno di alcuna attività istruttoria ulteriore. Ciò, soprattutto nei casi in cui vengono implementate le nuove regole che sono frutto di prassi virtuose elaborate precedentemente. E devo dire che il Tribunale di Roma è stato protagonista, assieme ad altri Tribunali, nell'elaborazione di queste prassi.

Laddove queste nuove regole sono  implementate, infatti, già nel corso della prima udienza, il giudice ha sul proprio tavolo tutto ciò che gli serve per pronunciare la sentenza.

 

Se prima dell'udienza il giudice ha avuto modo e tempo di studiare gli atti e i documenti di parte, egli può davvero trovarsi nella condizione non solo di assumere i provvedimenti provvisori ma anche di definire il giudizio. Il fatto che l'attività istruttoria sia sempre meno necessaria, perché al giudice sono già fornite le informazioni utili, può fare in modo che egli ritenga davvero indispensabile studiare gli atti e i documenti di causa prima dell'udienza.

A volte, infatti, capitava di avere la sensazione, prima della riforma, magari quando le parti erano accompagnate da grossi fascicoli, che il giudice pensasse: "In fin dei conti non è necessario che io studi ora il fascicolo perché devo solo pronunciare un provvedimento provvisorio per il quale mi basta interrogare liberamente le parti senza farmi influenzare dal contenuto degli atti scritto dagli avvocati. Inoltre, magari, con il solo interrogatorio, riesco a convincerle ad accordarsi".

 

Si aveva, insomma, la sensazione che il giudice non fosse preoccupato di studiare la controversia in vista della prima udienza perché poi ci sarebbe stato comunque altro tempo per farlo. Dopo l'istruttoria, dopo le conclusionali e le repliche. Magari, poi, nelle more di un lungo ed estenuante giudizio, i coniugi sarebbero stati indotti a preferire il raggiungimento di un accordo e quindi il fascicolo avrebbe potuto essere archiviato senza l'effettivo studio delle carte. Questa era la prassi.

Per parte mia, sono proprio convinto che quella prassi non potesse funzionare. In particolare, con riferimento alla consensualizzazione della controversia, essa era ovviamente una ipotesi da accogliere positivamente ma, in considerazione dei diritti sensibili di cui tratta il diritto di famiglia, la consensualizzazione doveva essere, prima di tutto, equa. E non era affatto detto che bastasse il libero interrogatorio per capire quale consensualizzazione potesse essere equa. Infatti non è un mistero che esistano parti più scafate di altre, coniugi di forti di altri. Esistono, poi, anche le parti assistite da bravi avvocati che sapendo di non avere grandi possibilità di discussione durante l'udienza presidenziale, preparavano i loro assistiti a rispondere alle domande in modo conveniente. Il giudice, quindi, che riteneva l'interrogatorio libero come un interrogatorio spontaneo, sbagliava. In molti casi non c'era nulla di spontaneo in quell'interrogatorio libero.

 

L'interrogatorio libero poteva portare ad un risultato iniquo per il solo fatto che una parte fosse più sprovveduta dell'altra e una meglio istruita dell'altra dal proprio avvocato.
La riforma sembra aver risolto questo problema consentendo al giudice di disporre di tutti gli elementi necessari per decidere e nella maggioranza dei casi la causa può essere definita subito.

Si è creata, tuttavia, un'altra prassi che personalmente non condivido, pur comprendendola.

 

Il giudice, al termine della prima udienza, riserva la propria decisione e scioglie la riserva solo successivamente con la contestuale pronuncia dei provvedimenti provvisori, affermando di non dover svolgere attività istruttoria e invitando le parti alla successiva discussione orale della causa.  

Non so se anche il Tribunale di Roma abbia adottato la stessa prassi; a Milano ormai accade quasi sempre così. Vedo che Grazia [Cesaro] annuisce, quindi quanto sto affermando non è frutto solo della mia esperienza.

 

La maggior parte della cause a Milano seguono questo iter; pur concludendosi con il rito della discussione orale, tale discussione orale non avviene nel corso della prima udienza, ma è rinviata ad una udienza successiva. Ciò accade perché il giudice, qualora non abbia studiato gli atti e esaminato i documenti del giudizio in vista della prima udienza, non è in grado, in quella sede, di assumere una decisione.

Sulla base di tale prassi, nel corso della prima udienza il giudice tenta la consensualizzazione della controversia (il giudice la tenta ancora), se questa fallisce si riserva e, solo in un secondo momento, magari aiutato dalla discussione avvenuta nel corso della prima udienza, studia approfonditamente le carte. Dopodiché, se non assume mezzi di prova, dispone la discussione orale.

 

A mia opinione tale modus operandi non è corretto e ciò sia perché chiaramente la norma la norma lo impedisce, sia perché – in realtà – esso nasconde il fatto che il giudice non ha già studiato gli atti, le richieste istruttorie e i documenti e, quindi, non è in grado di assumere immediatamente un provvedimento. Certamente, può accadere che tale circostanza sia il frutto di scarsa inclinazione allo studio da parte dei giudici.

Nella maggioranza dei casi, tuttavia, i giudici si trovano a fronteggiare il problema dell'eccesso di fascicoli sul proprio ruolo.
Preferisco non tornare sul problema delle risorse (di cui abbiamo già detto).
Vorrei, invece, soffermarmi su un altro aspetto e cioè sul fatto che la nuova efficienza processuale e la maggior speditezza del giudizio conduca, in realtà, ad una minore consensualizzazione delle controversie.

Di tale questione ho già parlato nel corso di un convegno svoltosi a Genova. Io non penso che il fatto che la prima udienza sia ora preceduta da atti particolarmente impegnativi possa aumentare la conflittualità. La conflittualità, infatti, in quella fase, è già all'apice a prescindere dai contenuti delle memorie degli rispettivi difensori. In altre parole, non solo dell'opinione che una maggiore proceduralizzazione della prima fase del giudizio porti a un incremento della conflittualità che riduca le prospettive di consensualizzazione.

Al contrario, penso che la consensualizzazione possa riuscire comunque, perchè spesso essa riesce innanzi al giudice laddove era fallito il tentativo degli avvocati.
Solo che la consensualizzazione, ora, sulla base della nuova procedura, se avviene, avviene comunque dopo che il giudice ha impiegato del tempo per leggere il fascicolo. Prima, invece, essa avveniva senza che il giudice avesse dedicato tempo e risorse per studiare le carte. Si tratta, quindi, di un problema di gestione delle risorse.
Ma tale problema è ineliminabile?

Io credo di no, penso che possa essere risolto. Si potrebbe, infatti, in via di prassi – senza interventi legislativi sul punto o con interventi legislativi che però dovrebbero essere molto ben meditati – aiutare gli avvocati a trovare soluzioni prima di trovarsi davanti al giudice. Per esempio tramite l'invito alla mediazione familiare.

La mediazione familiare, tuttavia, lo penso ormai da tempo, non è lo strumento necessariamente più efficiente.
Si potrebbe, quindi, guardare alle esperienze straniere nelle quali il giudice ha solo il ruolo di giudice. In quasi la totalità degli altri ordinamenti, il giudice che esperisce un tentativo di consensualizzazione commette un illecito disciplinare.

L'Italia costituisce una eccezione in questo senso, cioè nel prevedere norme che invitano il giudice a fare un tentativo di soluzione transattiva della controversia. In quasi tutti gli ordinamenti dei paesi occidentali ciò non avviene. La ragione mi sembra così ovvia che non servirebbe neppure spiegarla: esperendo il tentativo di conciliazione, il giudice anticiperebbe il giudizio.

Il giudice, attraverso la conciliazione, inoltre, rischierebbe di inquinare la propria terzietà.

Per parte mia, penso, invece, che di un terzo autorevole le parti abbiano bisogno. Perché non sempre gli strumenti dolci della mediazione riescono a risolvere il conflitto. Così come non sempre l'attività degli avvocati che cercano di mettere d'accordo le parti per evitare il giudizio, è un'attività di successo.

Io credo che una figura terza non mediatoria ma che, in qualche modo possa anticipare un giudizio, sia necessaria.

Il Tribunale di Milano utilizza da tempo la figura dei GOT presso il Tribunale civile. Essi celebrano una sorta di "udienza filtro", utile per far incontrare le parti davanti ad un terzo.
Questa soluzione, spesso funziona. Il GOT è una figura cui le parti riconoscono non solo il ruolo del mediatore ma della Autorità. Spesso le parti che trovano innanzi a loro una persona che abbia letto le carte e che illustri loro il possibile esito del giudizio sono indotte a ragionare.

Le possibilità di accordo aumentano molto.

 

L'alternativa ai GOT – come Grazia [Cesaro] mi anticipava all'orecchio un attimo fa – alla quale molti ormai stanno pensando è quella di introdurre anche nel nostro ordinamento una sorta di arbitrato nel diritto di famiglia. Tutto ciò potrebbe ridurre notevolmente la mole dei fascicoli che il giudice deve studiare in vista della prima udienza, facendo così in modo che li possa studiare dedicandovi la giusta attenzione.

 

Così facendo, alla prima udienza, visto che questo dice la legge, dopo avere studiato il fascicolo, il giudice potrebbe esperire un ulteriore consapevole tentativo di consensualizzazione al fallimento del quale  dovrebbe pronunciare il provvedimento provvisorio in udienza e invitare le parti a discutere oralmente la causa per poi pronunciare la sentenza.

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