location.href = 'https://www.areadg.it/speciali/la-giustizia-per-i-deboli/interventi/carlo-rimini';
Intervento alla prima sessione
L’impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici giudiziari

Carlo RIMINI
avvocato, professore ordinario diritto privato Università di Milano

Risposte alla domande

Il professore Rimini esprime il suo favore per la riforma del diritto di famiglia in Italia, perché ritiene che favorisca una consensualizzazione consapevole dei conflitti genitoriali. Sottolinea l’importanza che il giudice abbia una piena conoscenza delle domande e delle prove offerte dalle parti prima di emettere un provvedimento provvisorio o tentare una conciliazione. Ricorda che in altri ordinamenti il giudice non può fare un tentativo di conciliazione, perché sarebbe considerato un’anticipazione di giudizio mentre nel nostro è il legislatore che lo prevede: ma deve essere un tentativo di conciliazione consapevole.

Il professore Rimini approva anche l’aspetto della riforma che prevede la concentrazione della lite, cioè la possibilità di discutere tutti gli aspetti del conflitto genitoriale in un’unica udienza. Critica invece le posizioni che vorrebbero allontanare il conflitto dall’udienza presidenziale, perché ritiene che il giudice debba avere una visione complessiva della situazione familiare. Sostiene che il conflitto non sia sempre negativo, ma possa essere anche un’occasione di crescita e di dialogo tra le parti.

Infine, evidenzia alcuni problemi pratici della riforma, come la scarsità di risorse umane e materiali dei tribunali e la necessità di una formazione adeguata dei giudici e degli avvocati.

Il professore Rimini osserva che nella sua esperienza le cause di separazione e divorzio e quelle relative alla responsabilità genitoriale non prevedono più istruttoria orale, ma si basano solo su atti scritti. Ritiene che questo comporti una perdita di tempo e di risorse per i tribunali e per gli avvocati, che si scambiano atti spesso inutili. Propone quindi di concentrare la lite in un’unica udienza, in cui il giudice possa decidere subito sulla base delle domande e delle prove offerte dalle parti. Sottolinea anche l’importanza della modulistica, che può aiutare gli avvocati a scrivere atti chiari e sintetici, evidenziando le questioni rilevanti per il giudice.

Il professore Rimini insiste sulla necessità di una modulistica che guidi gli avvocati nella redazione degli atti, in modo da fornire al giudice le informazioni essenziali per la decisione. Propone anche l’introduzione della disclosure, cioè la dichiarazione sull’onore delle parti sulla loro situazione reddituale e patrimoniale, che dovrebbe essere accompagnata dai documenti necessari. Ritiene che in questo modo il giudice possa avere una visione chiara e completa della lite già alla prima udienza, senza bisogno di ulteriori istruttorie. Ammette però che ci possano essere casi in cui sia necessario ricorrere ad altri strumenti di indagine, come la polizia tributaria o i consulenti tecnici.

Il professore Rimini affronta la questione della differenza tra il giudice civile e il giudice minorile, che si occupa del disagio familiare. Rileva che il legislatore ha previsto un unico rito per entrambi i mondi, ma che il giudice minorile ha sempre avuto un ruolo di terapeuta, che richiede più tempo e attenzione. Sostiene che la riforma è stata una reazione a un certo malcostume di alcuni tribunali per i minorenni, che prolungavano le procedure senza trasparenza. Spera però che il giudice minorile possa continuare a esercitare il suo ruolo di terapeuta, sfruttando le possibilità di dilazione che la riforma gli offre

Il professore Rimini critica la privatizzazione degli strumenti previsti dalla riforma, come il curatore speciale, il coordinatore genitoriale e il CTU. Sostiene che sono strumenti utili solo per chi se li può permettere, o per chi trova professionisti disposti a lavorare gratis. Propone invece di creare delle strutture pubbliche, come esiste in altri paesi, che assistano il giudice della famiglia e che non siano dipendenti dai servizi sociali. Ammette però che queste strutture hanno un costo elevato e che le riforme non si possono fare a costo zero.

Parto da una premessa: per quel che riguarda i temi che gli organizzatori di questo convegno mi hanno affidato, che sono per fortuna sono molto più limitati di quelli che a questo tavolo oggi sono stati affrontati, a me la riforma piace. Ho voluto fare questa sorta di disclosure prima di iniziare per chiarire da che parte sto, per chiarire che la mia è una visione di parte. Per questo mi scuserete se enfatizzerò più le luci che le ombre, pur consapevole che le ombre ci sono e talora queste ombre si risolvono in rilevanti problemi applicativi, che – seppure controvoglia – sommessamente illustrerò.

Partiamo quindi dalle luci.

Questa riforma a me piace perché credo che non nuocerà affatto alle prospettive di consensualizzazione dei procedimenti (come invece molti temono che possa accadere), ma permetterà consensualizzazioni consapevoli, anziché consensualizzazioni basate sull’istinto momentaneo del presidente del tribunale, come purtroppo accadeva troppo spesso sulla base delle regole del rito applicabile fino a quindici giorni fa.

Da un lato è, a mio avviso, fondamentale che il giudice chiamato a pronunciare un provvedimento provvisorio all’inizio di una controversia relativa al conflitto genitoriale abbia una piena consapevolezza delle domande, degli strumenti di prova già disponibili e delle prove che ciascuna parte chiede siano acquisite nel corso del giudizio: altrimenti, se non vi è questa piena consapevolezza, i provvedimenti provvisori sono provvedimenti basati sull’intuito. D’altro lato, quanto al tentativo di consensualizzazione compiuto alla prima udienza, se non vi è tale piena consapevolezza, il tentativo finisce con il prendere semplicemente come punto di partenza una soluzione mediana fra le richieste dell’uno e le offerte dell’altro.

Un po’ di tempo fa un Presidente di tribunale soleva ripetere: “Gli avvocati scrivono tantissimo, ma io non leggo quasi nulla: perché se avessi conoscenza del fascicolo il mio tentativo di conciliazione sarebbe un’anticipazione di giudizio”. Si tratta, a mio avviso, di una impostazione sbagliata che può risolversi in un diniego di giustizia. Certamente esiste il problema che il tentativo di conciliazione compiuto da un giudice consapevole del contenuto del fascicolo si risolve in una anticipazione di giudizio. Tuttavia, nel nostro ordinamento, si è ritenuto – e questa riforma conferma questa impostazione – che sia opportuno che sia il giudice a fare un tentativo di conciliazione. In altri ordinamenti, se il giudice effettua un tentativo di conciliazione commette un illecito disciplinare ed è suscettibile di immediata ricusazione per la ragione che diceva quel presidente di tribunale: il tentativo di conciliazione è inevitabilmente un’anticipazione di giudizio. Fare il tentativo di conciliazione significa mettere le mani nella pasta della lite ed anticipare la propria opinione. In Italia, uno dei pochi paesi occidentali, il legislatore, che è sovrano, spinge con decisione in questa direzione. Ma, se questa è la scelta del legislatore, il tentativo di conciliazione deve essere un tentativo di conciliazione “consapevole”, con l’obiettivo di tutelare effettivamente i delicati diritti e interessi che sono in gioco nelle controversie familiari. Non deve invece essere fatto sulla base dell’intuito, non sulla base dell’istinto che ha qualsiasi negoziatore a forzare di più la parte che gli sembra più flessibile a partire dal punto mediano fra le rispettive posizioni. Purtroppo, l’atteggiamento del “giudice-conciliatore” che si tiene distante dai fatti e dalle prove per non anticipare il proprio giudizio dà talora alle parti l’impressione pessima di trovarsi non in un’aula di giustizia, ma in un mercato.

Il tentativo di conciliazione deve invece essere condotto con serietà e consapevolezza del fatto che esso ha ad oggetto i diritti dei deboli. Non può essere svolto in un contesto e sulla base di presupposti che favoriscono i furbi e coloro che fanno della negoziazione un’arte. Per evitare che ciò accada, chi fa il tentativo di conciliazione deve avere nel fascicolo tutti gli elementi che è possibile acquisire all’inizio del processo. La riforma va proprio in questa direzione e per questo mi piace tantissimo. La medesima conoscenza dei fatti permette di pronunciare un provvedimento provvisorio equo nel caso in cui il tentativo di consensualizzazione non riesca.

Un altro argomento tradizionalmente utilizzato da coloro che sostenevano che i fascicoli di parte devono essere completati (in termini di formulazione delle domande, produzioni documentali e istanze istruttorie) solo dopo la prima udienza è quello per cui la formulazione delle domande e degli argomenti a sostegno delle domande medesime rischierebbe di acuire il contenzioso e ciò diminuirebbe le possibilità di raggiungere un accordo. Lo stesso presidente di tribunale di cui vi dicevo prima era solito affermare: “Il conflitto deve stare lontano dall’ udienza presidenziale perché così, solo se il conflitto è lontano, noi riusciamo a consensualizzare”. Anche questa argomentazione non mi ha mai convinto. La prima udienza, a prescindere dal contenuto degli atti, coincide sicuramente con la fase più acuta del conflitto familiare. I magistrati forse non hanno idea di quale sia l’entità della conflittualità a cui arrivano le parti aspettando l’udienza presidenziale, conflittualità che gli avvocati faticano in qualche modo a contenere. Quando le parti arrivano a quell’udienza – dopo una attesa di molti mesi che spesso è un tempo di mezzo che, nell’assenza di qualsiasi regola, si trasforma in una sorta di far west – hanno bisogno di un giudice, non di un dispensatore di buoni consigli.

Altro aspetto sotto il quale la riforma mi piace è quello del tentativo di concentrazione della lite. Le stesse persone che sostengono che il conflitto deve restare lontano dalla prima udienza, aggiungono che il conflitto familiare ha bisogno di tempo, ha bisogno di sedimentare, ha bisogno di calma; sostengono che le parti devono con il tempo acquisire la consapevolezza della dannosità della lite. Una certa lentezza nell’affrontare la lite sarebbe quindi utile a stemperare gli animi. Costoro trascurano che il conflitto familiare è un palcoscenico in cui le parti danno il peggio di sé. Prima chiudiamo quel palcoscenico meglio è: con una decisione la più giusta possibile, la più rispettosa possibile dei diritti dei deboli. Le regole di rito che applicavamo fino a quindici giorni fa erano quanto di più inefficiente si potesse immaginare nel panorama occidentale: una serie di udienze che spesso si ripetevano a vuoto, con cadenze fissate dal codice per incombenti sovente del tutto inutili. Oggi il rito ci consentirà  invece (io sogno che questo avvenga con percentuali rilevantissime) di chiudere la causa alla prima udienza, con l’invito del giudice che conosce le carte alla discussione orale e la decisione in udienza. Per come è disciplinata la prima udienza, se la legge sarà rispettata nella sua lettera, l’istituto della riserva in prima udienza non dovrebbe essere consentito, perché il giudice in udienza è chiamato a decidere: pronuncia i provvedimenti provvisori, decide sulle prove ammissibili e fissa il calendario del processo; se non ritiene vi siano attività istruttorie necessarie, invita le parti alla discussione orale che si svolge nella stessa udienza, a meno che non siano le parti a richiedere che questa si svolga in una udienza differente.

Nella mia esperienza (non so se sia un’esperienza condivisa dagli avvocati presenti) ormai l’istruttoria orale nelle cause di separazione e divorzio e nelle cause relative all’esercito della responsabilità genitoriale è un evento assai raro. Non ricordo quanti anni sono che non assisto a una prova orale in un giudizio di separazione. L’evento è ancora più raro nei giudizi di divorzio. La maggior parte dei giudizi si basano sull’esame di documenti (l’attività che viene più frequentemente svolta durante la fase istruttoria è l’esperimento di una consulenza tecnica). Se le produzioni documentali saranno effettuate con gli atti introduttivi, come la riforma impone che avvenga, quindi, la maggior parte dei giudizi saranno maturi per la decisione al loro esordio. Queste cause dovranno essere decise subito con un risparmio di lavoro immenso per i tribunali che adesso continuano a far girare carte e far lavorare cancellerie senza che accada nulla di utile ai fini della decisione.

Prima della riforma, le regole processuali non invogliavano il giudice ad uno studio approfondito del fascicolo processuale fino al momento della decisione. Mi scuso per la descrizione che segue, volutamente un po’ brutale, del rapporto fra il giudice e gli atti del giudizio nella maggior parte dei giudizi di separazione e divorzio nella prassi precedente alla riforma. Durante l’udienza presidenziale, il presidente esperiva il tentativo di consensualizzazione per il quale si affidava al colloquio con le parti. Se questo falliva, il presidente doveva limitarsi a pronunciare i provvedimenti provvisori e molti magistrati ritenevano di poter fondare il proprio convincimento solo sull’interrogatorio libero delle parti, ritenendo (erroneamente) questo più utile degli scritti difensivi, spesso (effettivamente) sovrabbondanti di affermazioni non supportate da alcun riscontro probatorio. Dopo l’udienza presidenziale, assegnati i termini di cui all’art. 183 del codice di rito, veniva fissata l’udienza di discussione delle istanze istruttorie durante la quale i legali si limitavano a richiamare le rispettive istanze e il giudice si riservava di decidere. Solo a quel punto il giudice leggeva gli atti contenenti le istanze istruttorie, per ritenerle nella maggior parte dei casi inammissibili. Fatte salve le ipotesi nelle quali il conflitto genitoriale rendeva indispensabile un approfondimento relativo alla responsabilità genitoriale tramite una indagine dei servizi territoriali o di un CTU e le ipotesi in cui veniva disposto qualche ordine di esibizione oppure una CTU contabile, veniva quindi fissata l’udienza di precisazioni delle conclusioni. Il giudice leggeva quindi nella maggior parte dei casi le comparse conclusionali e le repliche, ma, fino al momento di stendere la sentenza, non aveva nulla da studiare e la causa andava avanti, nella maggior parte dei casi, come uno stanco rito nel quale – fra un incombente processuale e l’altro – gli avvocati si scambiavano atti francamente inutili.

Tutto ciò, se la riforma raggiungerà i suoi obiettivi, finirà. Sia i giudici, sia gli avvocati dovranno modificare il loro modo di lavorare. Questo vale anche, e soprattutto, per gli avvocati che dovranno abituarsi alla massima concretezza. Dovranno abituarsi a riportare, già negli atti introduttivi, i fatti rilevanti ai fini del decidere e a supportare le affermazioni con documenti. Dovranno produrre documenti e fornire indicazioni anche su circostanze contrarie all’interesse dei loro clienti, nel rispetto delle indicazioni del codice e del generale principio di lealtà e trasparenza che la riforma impone. Sarà necessaria una presa di consapevolezza del fatto che ciò che i nostri clienti vogliono che noi scriviamo negli atti è nella maggior parte dei casi inutile: i nostri clienti vogliono convincere il magistrato di essere stati coniugi migliori dell’altra parte, genitori migliori dell’altro genitore. Ma l’esito del contenzioso familiare, nella grande maggioranza dei casi, non dipende affatto da una valutazione dei comportamenti tenuti durante la vita di coppia, dai torti e dalle ragioni reciproche. La riforma, invece, impone alle parti di fornire al giudice dati di fatto indispensabili ai fini della decisione. Gli avvocati dovranno quindi occuparsi di quei dati di fatto fornendo una rappresentazione utile al giudice all’inizio della causa, con atti chiari e sintetici.

Uno strumento che reputo assolutamente fondamentale per far funzionare il nuovo processo della famiglia è la cosiddetta disclousure. La riforma, come sappiamo, prevede che le parti producano una serie di documenti, fra i quali gli estratti conto dei conti correnti bancari degli ultimi tre anni, produzione che costringerà le parti e i loro avvocati a inserire nel fascicolo telematico centinaia di pagine che metteranno a dura prova le capacità del sistema informatico. E’ tuttavia opportuno che i tribunali non si limitino a ricevere tali documenti, ma chiedano alle parti di effettuare una dichiarazione che fornisca un quadro sintetico delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali, come avviene in quasi tutti gli ordinamenti occidentali, da ormai trent’ anni: la dichiarazione sull’onore prevista in tutti gli ordinamenti di derivazione francese, la disclosure prevista in tutti gli ordinamenti di derivazione anglosassone. Si tratta di un modulo in cui si chiede alla parte di dichiarare quali sono i suoi redditi, e qual’è il suo patrimonio, non solo indicando i saldi attivi dei conti correnti bancari, ma ogni cespite patrimoniale; non solo indicando i redditi indicati nella dichiarazione presentata all’Agenzia delle Entrate, ma qualsiasi reddito, menzionando anche quelli che per qualsiasi ragione il contribuente non è tenuto ad indicare nel quadro che riporta il reddito complessivo nel modello di dichiarazione fiscale. Ormai il legislatore sanziona in modo chiaro l’infedeltà processuale e i giudici dovranno essere molto severi nell’esercitare questo potere di sanzionare colui che riporta in modo opaco la propria situazione. In questo modo sul tavolo del giudice, già alla prima udienza, ci saranno una buona parte degli elementi che, nel rito previgente, venivano acquisiti all’esito di una estenuante istruttoria. Certamente la disclosure non permetterà sempre di acquisire ogni elemento utile al fine del decidere: ci saranno i casi in cui una indagine con la polizia tributaria dovrà essere disposta, casi in cui l’accesso agli archivi dell’Agenzia delle Entrate (mi riferisco in particolare a Serpico) permetterà di avere prova di rilevanti lacune nelle produzioni e nelle dichiarazioni delle parti, casi in cui la complessità della situazione economica delle parti renderà necessaria una consulenza tecnica. Saranno tuttavia casi minoritari e tutte le altre vicende potranno essere gestite con estrema rapidità.

Fino ad ora ho parlato delle innovazioni positive. Parliamo ora delle ombre.

Innanzitutto, parliamo della questione di un unico rito per due mondi così diversi: quello del normale contenzioso familiare a cui mi sono riferito sino ad ora e quello del disagio familiare, oggi di competenza del tribunale per i minorenni. Sentendo prima parlare il presidente Villa mi sono fatto l’idea che il legislatore abbia in mente un ruolo del giudice minorile completamente diverso, o molto diverso, da quello che il giudice minorile si è attribuito da cinquant’anni a questa parte. Penso che il legislatore non abbia in mente un terapeuta del disagio, ma abbia disegnato il giudice minorile come un magistrato che prende decisioni alla luce della realtà dei fatti che ha davanti: non gli lascia il tempo per curare, per elaborare e somministrare una terapia. Ciononostante, sono convinto che nella riforma siano presenti alcuni giunti di dilatazione che consentiranno al giudice minorile, comunque, di continuare ad esercitare il suo ruolo di terapeuta e tuttavia in un tempo definito.

Ecco io credo che questa impostazione sia una reazione, lasciatemelo dire, a un certo malcostume di alcuni tribunali per i minorenni, soprattutto negli anni passati, di considerarsi terapeuti per l’eternità o comunque fino alla maggiore età. Ricordo procedure che languivano per decenni, ricordo prassi non totalmente trasparenti in cui non si consentiva alla parte l’accesso alle informazioni che invece il giudice ha. La riforma ha voluto quindi con forza affermare, con una reazione certamente eccessiva, che anche il giudizio minorile è un giudizio civile come tutti gli altri. Io spero che i giudici che si occupano e continueranno ad occuparsi del disagio familiare minorile saranno in grado di usufruire dei giunti di dilatazione che comunque la riforma contiene.

Secondo tema: la privatizzazione degli strumenti per la gestione del conflitto familiare. Abbiamo una serie di strumenti bellissimi: il curatore speciale, il curatore sostanziale, il coordinatore genitoriale, il CTU. Ma sono strumenti che mettono in campo professionisti privati che devono essere remunerati. Esistono professionisti privati (e per la straordinaria generosità di questo Paese ne esistono molti) che sono disposti a lavorare sostanzialmente gratis. Mi domando: ma che ordinamento è un ordinamento che si regge sul lavoro pressoché non remunerato e sulla generosità dei professionisti? Non è un ordinamento che possa funzionare: queste persone, queste nuove figure professionali esercitano una funzione fondamentale per il disagio familiare, per la soluzione dei contrasti genitoriali e non è possibile pensare che queste funzioni siano privatizzate. Neppure è immaginabile che le stesse funzioni siano caricate sulle spalle dei servizi sociali. I servizi sociali nascono nel nostro ordinamento per assolvere una funzione totalmente diversa da questa: nascono per dare assistenza alle famiglie in difficoltà, non nascono per essere gli ausiliari del giudice della famiglia, né per contenere i conflitti familiari. Il giudice della famiglia deve operare attraverso un apparato pubblico di indagine e di supporto, ma sono convinto che questo non possa essere costituito, o non possa essere costituito unicamente, dai servizi sociali (a prescindere dalle eccellenti professionalità che operano nei servizi), perché i servizi sono strutture territoriali decentrate che non dipendono dal Ministero della Giustizia, ma dai Comuni. Se mi è concesso un confronto ardito, sarebbe come far fare le indagine per un omicidio alla polizia municipale. È evidente che non potrebbe funzionare (soprattutto nei piccoli comuni), e ciò a prescindere dalle eccellenti doti investigative che pure potrebbero trovarsi nel corpo della polizia municipale.  Anche in questo caso guardiamo fuori dei nostri confini: in Inghilterra esiste il Cafcas (Children and Family Court Advisory and Support Service), in Germania esiste lo Jugendamt. Sono strutture centralizzate al servizio e alle dirette dipendenze del Ministero della Giustizia e quindi operano funzionalmente sotto la direzione del giudice (e non del sindaco). Sono certamente strutture che costano moltissimi denari. Ma questo è il problema: non possiamo fare riforme a costo zero. Le riforme costano. Il sistema attuale, peraltro, dal punto di vista della gestione dei costi, è totalmente inefficiente. I piccoli comuni devono ovviamente consorziarsi per gestire i servizi sociali. Ma i consorzi non riescono a svolgere interamente il lavoro loro affidato e quindi delegano una parte delle funzioni alle cooperative. Questo non è modo di lavorare.

Questa perlomeno la mia opinione. Grazie.

Gli altri interventi

Saluti

Prima sessione
L’impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici giudiziari

Seconda sessione
I soggetti processuali alla prova del nuovo rito

Terza Sessione
Csm e Ministero: quali interventi per attuare la riforma?

Quarta sessione
L’impatto sulla tutela dei diritti

Interventi al dibattito

Conclusioni