Diario dal Consiglio del 11 novembre 2023
Standard, non un traguardo ma un punto di partenza
Il Plenum dell’8 novembre ha approvato la delibera che avvia la sperimentazione sugli standard medi di definizione, criterio numerico di verifica della laboriosità, la cui individuazione il legislatore demanda al Consiglio superiore (art. 11, co. 2, lett. b, d. lgs 160/2006), ai fini della valutazione quadriennale di professionalità del magistrato.
La necessità di dare finalmente attuazione alla legge giustifica il sostegno all’iniziativa della Quarta commissione. Essa, avvalendosi dei dati raccolti dall’ufficio statistico del CSM per la, diversa, misurazione dei carichi esigibili, ha individuato una fascia di oscillazione della produttività riferita a macro-materie distinte e compresa tra un indice numerico intermedio (coincidente con la mediana dei carichi degli uffici) e un indice inferiore (il rispettivo 30%).
La sperimentazione è diretta a comprendere l’attendibilità di questo metodo di misurazione; durerà sei mesi comprendendo tutte le valutazioni di professionalità aventi decorrenza dall’1.2.2024. Il singolo magistrato, al pari del suo dirigente e del rispettivo Consiglio giudiziario, collaboreranno di fatto alla sperimentazione, verificando, nel corso della procedura di valutazione, la collocazione del dato personale relativo alla produttività all’interno della fascia di oscillazione inerente alla macro-area cui vanno ricondotti gli affari assegnati e illustrando le ragioni di un eventuale scostamento.
Noi, consiglieri di AreaDG, abbiamo votato la delibera, con l’eccezione di Tullio, che ha argomentato la propria contrarietà. Già nel corso dei lavori di commissione, collaborando alla sua elaborazione, avevamo esposto le nostre comuni ragioni di perplessità, che in Plenum anche Marcello ha ribadito. Ne sintetizziamo alcune.
In primo luogo, la legge vuole che gli standard medi di definizione siano “articolati secondo parametri sia quantitativi sia qualitativi, in relazione alla tipologia dell’ufficio, all’ambito territoriale e all’eventuale specializzazione”. Si valorizza così la diversità del valore di riferimento in ragione dei molteplici fattori che diversificano i carichi affidati nelle diverse sedi ai singoli giudici. Il perseguimento di questo fondamentale obiettivo, che consente di fotografare col minore grado possibile di approssimazione il livello di produttività di ognuno, non emerge adeguatamente nel testo della delibera, dove anzi si dà atto di volere ricercare uno standard “tendenzialmente omogeneo a livello nazionale”.
Secondariamente – e a riprova di quanto di è appena rilevato – la delibera risulta silente sull’obiettivo di valorizzare gli elementi che connotano la qualità del carico e delle definizioni del giudice. Vi si afferma che “nella fase successiva alla presente sperimentazione, dovrà essere coniugata anche con le condizioni specifiche delle tipologie di uffici nei quali il magistrato si è trovato ad operare”. Tuttavia, a dare la misura dell’impegno richiesto dagli affari trattati e definiti è, più che la tipologia dell’ufficio (dove peraltro incide non poco il maggiore o minore importo degli addetti all’UPP), la loro qualità: l’oggetto della causa civile, il numero delle parti, la durata di un’istruttoria, la complessità delle questioni giuridiche poste da una controversia.
Ciò richiede l’introduzione di criteri di ponderazione degli affari giudiziari, criteri necessari anche per definire le priorità nella loro trattazione e, soprattutto, la valutazione del carico promiscuo assegnato a un magistrato: quasi tutti i giudici dei tribunali medio-piccoli sono titolari, infatti, di procedimenti appartenenti a macro-materie, se non a settori, differenti.
Di questo straordinario fattore di complessità per la misurazione del carico e delle definizioni del magistrato la delibera non tiene conto, se non prevedendo percentuali di riduzione che sono demandate a una valutazione dell’interessato, come tale del tutto soggettiva e non verificabile obiettivamente. È, questo, uno degli effetti dell’adozione della figura full time equivalent, concepita per i programmi di gestione, anche nella materia dello standard (individuale) di definizione.
Un altro effetto di una tale sovrapposizione di prospettive diverse si riscontra nel divario vistoso esistente tra i valori di tabelle afferenti alla stessa macro-area e dovuto, secondo la delibera, all’appartenenza o meno del magistrato a una funzione specializzata; nell’immigrazione, ad esempio, pur in presenza di procedure di natura omogenea, il range passa da 321-459 (tab. 3) a 158-225 (tab. 2): più del doppio.
L’individuazione dello standard su dati omogenei a quelli adottati per determinare il carico esigibile ai fini del programma di gestione degli uffici è una scelta condivisibile nella misura in cui offre un apporto di chiarezza alla scelta delle fonti di rilevazione statistica e dà una prospettiva di confronto tra i due diversi procedimenti, anche in vista della determinazione, nell’uno come nell’altro caso, dell’apporto effettivo fornito da ausili esterni (il giudice onorario o l’addetto all’UPP). Il metodo fallirà però l’obiettivo se non sarà in grado di valorizzare il numero delle pendenze iniziali e il flusso delle sopravvenienze come variabili che incidono necessariamente sulla quantità e la qualità delle definizioni.
In definitiva, molta strada resta ancora da percorrere (come evincibile dagli interventi di Tullio e Marcello tratti da Radio Radicale). Basti ancora riflettere sul fatto che questa sperimentazione non riguarderà gli uffici di procura, i tribunali di sorveglianza e gli uffici di legittimità. Crediamo quindi che la delibera approvata l’8 novembre, più che giustificare entusiastiche approvazioni, impegni il Consiglio all’assunzione di un onere gravoso, che richiederà senso di responsabilità e una volontà condivisa di ricercare le soluzioni più idonee per misurare finalmente il lavoro di tutti i magistrati.
Francesca Abenavoli, Marcello Basilico, Maurizio Carbone, Geno Chiarelli, Antonello Cosentino, Tullio Morello