Angelo Piraino
Segretario nazionale di Magistratura Indipendente
Consentitemi una piccola nota personale. Mi dispiace che Eugenio oggi concluda la sua esperienza, perché, nella diversità ovviamente di opinioni, è stato un interlocutore veramente gentile, aperto e onesto. Una cosa che ho molto apprezzato.
Avevo in mente un’idea di intervento, però, devo dire che le ultime battute mi hanno indotto un po’ a cambiare rotta. Volevo iniziare il mio intervento, apprezzando la premessa da cui è partito il segretario generale nell’introdurre questo convegno, che ho trovata totalmente condivisibile. L’analisi che ha fatto Eugenio Albamonte sul problema del rapporto tra magistratura e politica e sul fatto che una politica debole ponga sulle spalle dei giudici compiti che questi non vogliono e si trovano costretti a svolgere. E che svolgendo i quali rischiano addirittura di minare la loro immagine di imparzialità e di apoliticità. È una premessa assolutamente condivisibile, sulla quale non posso non ritrovarmi. Anzi, è un tema che solletica tantissimo la mia curiosità, perché è un tema che ci riporta ai problemi dei confini dell’interpretazione.
Togliamo un equivoco. Il modello “le juge est la loi” è un modello assolutamente irreale. Il giudice non può essere la legge, il giudice vive in questo mondo, interpreta delle norme che si prestano a più decodificazioni alternative e deve fare delle opzioni. Quindi, il momento in cui sceglie già per definizione è soggetto politico. Ma c’è un “ma”. L’insieme della politica è il bilanciamento degli interessi contrapposti, perché la politica è libera nel fine. L’insieme della politica sta proprio nell’individuare il punto di equilibrio tra diritti spesso aventi la stessa forza, la stessa natura, spesso tutti fondamentali, che devono essere tra di loro bilanciati. Pensiamo ai grandi temi attualmente in discussione: la gestazione per conto altrui, la genitorialità, i modelli alternativi tra genitorialità biologica e genitorialità per intenzione. Pensiamo anche alle grandi discrasie che ci pone la nostra società, dove da un lato noi diciamo che il figlio adottato ha diritto alla ricerca delle sue origini biologiche. Ma dall’altro, ci chiediamo qual è il peso e come la genitorialità biologica vada invece contemperata con la genitorialità per intenzione o sociale, che dir si voglia. Voi capite, questa è la politica. E questa, secondo me, è anche la sottile ma distinguibile linea rossa, che segna il confine tra la scelta del politico e la scelta dell’interprete. Laddove si entra nel campo del bilanciamento degli interessi, allora si entra in un campo in cui la magistratura, non soltanto rischia di svolgere un ruolo indebito, ma addirittura rischia di svolgere ruolo antidemocratico. Perché noi siamo funzionari nominati per concorso, non siamo eletti.
Su questa analisi, quindi, totale consonanza. È sul secondo pezzo dell’introduzione di Eugenio che io ho trovato un po’ delle difficoltà a entrare in sintonia. Quando si parla di un attacco alla giurisdizione. Questo attacco alla giurisdizione viene ricavato – almeno da quello che ho compreso – da segnali di insofferenza verso le autorità di garanzia; dall’eliminazione di poteri extra ordinem della Corte dei Conti; da molte, tantissime – le abbiamo tutte davanti agli occhi – esternazioni di politici che via via criticano questa o quella decisione. Eugenio addirittura ha detto: la critica che viene fatta è quella di uniformarsi alla Costituzione, piuttosto che al sentimento diffuso nel Paese. Chissà perché ho sentito evocato il Volksgeist. Quasi quasi puzza di zolfo, ho sentito.
Invece, sinceramente, se andiamo a guardare i provvedimenti, ci andiamo a vedere quel poco che c’è nella Gazzetta Ufficiale, ma anche quello che c’è negli atti del Parlamento, non ho trovato ancora qualcosa che lasci pensare che c’è in corso un attacco alla giurisdizione.
Sì, dal punto di vista della comunicazione, c’è un atteggiamento di forte critica, spesso portato avanti per slogan e senza ragionamenti. Critica molto spesso ingenerosa, è assolutamente vero. Però da qui a ricavarne un attacco alla giustizia… io sarei un po’ cauto.
Qui vengo alla deviazione della mia idea iniziale. Se, invece, guardiamo tra gli atti parlamentari, quello che in questo momento rischia di mettere in discussione quella che è l’idea di giurisdizione che fino ad oggi abbiamo avuto, è proprio il disegno di legge elaborato dall’Unione delle Camere penali, presentato a seguito di raccolte di firme nel 2018, e oggi ulteriormente presentato da alcuni parlamentari.
Io mi chiedo, che cosa c’entra con la separazione delle carriere – lo ha detto meglio di me Luca Poniz, ma repetita iuvant – l’abolizione dell’art. 107 terzo comma della Costituzione, che recita che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per le funzioni. Il vostro disegno di legge lo vuole cancellare. Questa norma è la norma baluardo che impedisce in magistratura l’esistenza di gerarchie.
E anche da questo punto di vista, mi piacerebbe che conducessimo tutti insieme una riflessione sulla compatibilità di alcune norme della riforma Cartabia. Mi riferisco, per esempio, all’ampliamento dell’ipotesi di responsabilità disciplinare anche alla violazione di direttive, se questa sia compatibile con il 101 comma due, perché la direttiva non è una legge. E se sia compatibile con l’art. 107 terzo comma, perché la direttiva viene dal capo dell’ufficio.
Questa norma ha garantito che noi non si debba andare a chiedere qualcosa per essere promossi. Perché prima di questa norma c’erano i gradi in magistratura. Prima di questa norma dovevi essere promosso e per essere promosso dovevi chiedere.
Il 107 terzo comma, oltre a far sì che la giurisdizione sia un potere diffuso, è una norma che ha enormemente tutelato l’indipendenza interna. Lei, avvocato Caiazza, prima citava l’onorevole Leone quando diceva che la composizione paritaria del Csm era una garanzia di indipendenza interna. Ma io credo che garanzia di indipendenza interna più forte del 107 terzo comma sia impossibile trovarne. Perché grazie al 107 terzo comma noi non abbiamo più gradi; grazie al 107 terzo comma noi siamo sottoposti a delle valutazioni di professionalità che – smettetela di dirlo, vi prego, – non sono promozioni. Non contrabbandatele per promozioni, sono valutazioni idoneative. Ogni quattro anni esaminano il mio lavoro e mi dicono se posso continuare a farlo oppure no. Perché la conseguenza della valutazione di professionalità non è che io divento qualcosa di più – giudice d’appello, giudice di Cassazione –. No, la conseguenza è semplicemente che posso continuare per altri quattro anni a fare il mio mestiere. E se non ho fatto bene il mio mestiere, se quella valutazione negativa, io devo essere rigiudicato e se anche il secondo giudizio a distanza di due anni è negativo, mi mandano a casa. Quindi, non è una promozione, è semplicemente una verifica di idoneità. E questo è grazie all’articolo 107 terzo comma della Costituzione.
Chi ha pensato questa cosa, che cosa aveva in mente? Credo che non c’entri con la separazione delle carriere, perché questa è una norma che riguarda i giudici, non riguarda i soltanto i pubblici ministeri, riguarda tutti.
E un’altra chicca del progetto di riforma della Camere penali è la modifica anche di un termine della Costituzione che sembra neutro, ma non lo è. La nostra Costituzione dice che “i membri che provengono dalla magistratura vengono eletti”. Attualmente, recita così la Costituzione. Il progetto di legge depositato, invece, sostituisce la parola “eletti” con le parole “scelti con le modalità indicate dalla legge”. Sapete cosa vuol dire questo? Quel termine “eletti” è l’unico termine che in questo momento impedisce al legislatore ordinario di introdurre il sorteggio. L’unico, perché sono eletti. Lo dice la Costituzione.
“Scelti con le modalità indicate dalla legge” vuol dire che il legislatore sarà libero di stabilire il sorteggio. E allora che cos’è un CSM in cui il 50% viene eletto tra personalità illustri dal Parlamento in seduta comune; e l’altro 50% viene preso a sorte tra i magistrati. Questo tutela l’indipendenza interna dei magistrati? Ho dei dubbi, avvocato Caiazza. Non avete sostenuto il sorteggio, ma avete chiesto una modifica che lo consente. Quanto meno avete aperto la porta al sorteggio. Almeno siatene consapevoli.
La cosa che mi lascia perplesso – in questo ho quasi una diplopia, perché è come se gli occhi guardassero da una parte all’altra – è che da un lato vedo nella realtà quotidiana con l’avvocatura una meravigliosa collaborazione, un lavoro insieme, bellissimo. Io mi onoro del fatto che tanti giovani che sono stati insieme a me con il tirocinio formativo negli uffici giudiziari – che purtroppo adesso ci è stato tolto, una cosa su cui dovremmo riflettere – molti di questi siano diventati avvocati. Perché li ho visti fiorire, li ho visti fare un percorso meraviglioso e credo che per loro l’aver visto il lavoro del giudice sia stato fondamentale per la loro maturazione come avvocati. Credo totalmente nel dialogo tra avvocati, pubblici ministeri, giudici, perché credo che siamo tutti facce della stessa medaglia.
Poi però trovo un modello di giurisdizione in cui gli avvocati possono diventare giudici, i pubblici ministeri no. Anzi, gli avvocati possono diventare giudici in ogni grado. Quindi, in primo grado, in secondo grado, in Cassazione. I pm non possono diventare giudici. Non è lo stesso modello di unione che ho in mente, è un modello di disgregazione. E, secondo me, nella giurisdizione più si è disgregati, più si è deboli tutti: pubblici ministeri, giudici e avvocati.
Un altro sintomo di questa diplopia è proprio la partenza di questo Congresso. Vedere da un lato un problema su cui tutti siamo d’accordo, il problema della supplenza e delle conseguenze che derivano dalla supplenza nelle scelte valoriali, e dall’altro vedere questo attacco della giurisdizione, un attacco che, attualmente, è soltanto urlato ma non si è tradotto in fatti concreti.
Noi siamo pronti a dialogare sempre, Eugenio, sui temi di apertura della relazione. Anzi, sarebbe importante che ci fosse una riflessione congiunta su questi temi nella differenza anche delle idee di base.
Sull’altro problema, cioè su l’andare dietro alle urla della politica, io vorrei concludere con la volgarizzazione di un aforisma che viene attribuito a Oscar Wilde: “Non discutere con un politico, ti trascina al suo livello e poi ti batte con l’esperienza”.
in attesa di approvazione del relatore