Intervento

Fabrizio Guercio
Presidente della sottosezione di Marsala dell’ANM

Buongiorno a tutti.

Il 23 maggio del 1992, a pochi chilometri di distanza da qui, 500 chilogrammi di tritolo hanno sventrato un’autostrada, provocando la morte di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. Io avevo appena compiuto tre anni e quindi non ricordo nulla di quel giorno. Ciononostante ho il volto di Giovanni Falcone ben impresso nella mia mente. È un volto sorridente affianco a quello, pure lui sorridente, di Paolo Borsellino, trucidato 57 giorni dopo in via D’Amelio insieme alla sua scorta. Anche di quel 19 luglio non ricordo praticamente nulla. E come me tanti giovani magistrati cresciuti nel mito di Falcone e Borsellino, quasi fossero endiadi. Due uomini coraggiosi che, come molti altri prima di loro – troppi purtroppo – hanno fedelmente servito il loro paese al punto di dare la vita per esso.

Quel ‘92 ha costituito uno spartiacque nella storia recente della nostra Repubblica, perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti al mondo, ma sono rinati eroi. Loro gesta hanno ispirato migliaia di giovani che hanno scelto di indossare la toga come fosse un abito talare. Sacro, incorruttibile, etereo. Dopo il ‘92 fare il magistrato non è stato più un lavoro ma una missione, come il medico. Una vocazione, come fare il prete.

E questa rivoluzione copernicana del modo di concepire il lavoro del magistrato vale per tutti, o quasi tutti, giudici o pubblici ministeri indifferentemente. Perché siamo un corpo unitario. Anche per quelli che nel ‘92 erano già in magistratura o che comunque avevano già deciso di intraprendere questa professione. Ma quelli erano anni, proprio per citare Falcone, in cui la gente faceva il tifo per noi, perché aveva fiducia nella magistratura e nel suo operato.

Oggi la situazione è molto cambiata, perché la società cosiddetta civile ci ha voltato le spalle. È sfiduciata e ciò genera una certa disillusione, soprattutto nei giovani magistrati. Perché tu, che indossi da pochissimo quella stessa toga indossata dai tuoi eroi, dopo anni di studio matto e disperatissimo, prove iperselettive in grado di far saltare i nervi persino un monaco tibetano, ti scontri contro un muro di disaffezione o, peggio, di disistima. Ti chiedi come sia possibile, dato che ogni giorno stai per molte ore curvo su pile e pile di fascicoli con l’intento di rendere giustizia, distribuendo torti e ragioni in modo equanime, senza accanirsi nei confronti di nessuno, caro ministro Nordio, talvolta peraltro lavorando in condizioni di estrema difficoltà, in edifici vetusti inadeguati, in uffici sottodimensionati con profonde carenze di uomini e di mezzi e così via dicendo.

Certo, noi magistrati ci abbiamo sicuramente messo del nostro, inutile negarlo. Ma per dirla con le parole di Rocco Chinnici, non bisogna confondere le istituzioni con gli uomini che le compongono. Ci sono stati sicuramente, e forse ci saranno ancora, tra i magistrati dei servitori infedeli dello Stato. Ma la magistratura come istituzione resta sacra in quanto essenziale per il corretto funzionamento di uno Stato democratico.

Per queste ragioni appaiono profondamente ingiuste, oltre che antistoriche, le aspre critiche rivolte alla magistratura tout court e ancor di più all’ufficio del pubblico ministero che, con cadenza oramai quotidiana, provengono da ambienti politici o dai mass media. Sia chiaro, le condotte antigiuridiche o quelle deontologiche discutibili, ascrivibili ad alcuni magistrati persone fisiche, vanno stigmatizzate. È giusto che sia così. Ma queste situazioni patologiche e assolutamente marginali sul piano percentuale non possono essere il pretesto per un attacco generalizzato alla categoria e, quindi, a un potere dello Stato.

Una guerra senza quartiere alla magistratura, infatti, non giova al Paese, perché i cittadini devono potere riporre la loro fiducia su chi quotidianamente tutela i loro diritti, su chi amministra la giustizia nel loro nome, onorando giorno dopo giorno la toga che indossa. Per questo non potete continuare a delegittimarci ai loro occhi. Ed è per questo motivo che, a nome di tutti i giovani magistrati progressisti, vi chiedo sommessamente in punta di piedi, di cessare il fuoco, di riportare il confronto-scontro su un terreno dialettico, franco, se volete, ma leale. Perché soltanto un dialogo costruttivo tra la classe politica e gli operatori del diritto – non solo i magistrati ma anche gli avvocati – può essere una premessa fertile per una migliore legiferazione.

L’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che rischiano di essere erose dalle riforme legislative e costituzionali in cantiere, non sono un pericolo da arginare. Sono una risorsa da cui ripartire per la ripresa di questo Paese. Non sono un privilegio di casta, ma un presidio di democrazia, dell’eguaglianza di tutti i consociati di fronte alla legge. Perché, al netto degli scandali che hanno riguardato una sparuta minoranza di magistrati, abbiamo ancora nella mente e nel cuore gli insegnamenti di Falcone e Borsellino, dei Chinnici, dei Terranova, dei Livatino, dei Costa, dei Montalto. E non mi basterebbero i 10 minuti che mi hanno dato per citarli tutti, i servitori fedeli di questo Stato, che hanno militato tra le nostre fila e hanno perso la vita per esso.

Anche se sono in magistratura da pochissimo tempo, mi è capitato più di una volta, andando in una scuola di legalità, che mi si sia avvicinato uno studente, una studentessa, per dirmi con gli occhi luccicanti “sa dottore, da grande voglio fare il magistrato”. Ecco, queste parole mi suscitano sempre una grandissima emozione. Perché sono l’onda lunga delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Finché quella luce a me pure familiare, brillerà negli occhi di questi giovani studenti, ci sarà speranza per questo Paese.

Ed è per questo motivo che mi rivolgo a tutti i politici, a tutti i giornalisti in sala e in ascolto, a cominciare dal ministro Nordio, che purtroppo è andato via. Cessate il fuoco. Non spegnete questa luce che dal ‘92 brilla negli occhi degli italiani di buona volontà.

Ora invece mi rivolgo ai colleghi un po’ più grandi di me. Non è affatto vero, e lo dico per esperienza diretta da presidente della sottosezione Anm di Marsala, che i giovani magistrati non si interessano della giurisdizione, della vita associativa, che hanno a cuore soltanto la gestione del loro ruolo. I più giovani hanno soltanto bisogno di una guida, di qualcuno che li prende per mano, come è successo a me quando ho messo piede a Marsala, quando ancora non ero nemmeno iscritto all’Anm, figuriamoci ad Area.

Andate a stanarli nelle loro stanze. Disseppelliteli dalle cataste di fascicoli che li sovrastano e ricordate loro, col vostro esempio quotidiano in primis, che, per quanto questo lavoro sia gravoso, per essere un buon magistrato, non basta fare bene le indagini, scrivere belle sentenze, perché non possiamo permetterci di essere dei burocrati piegati a logiche aziendalistiche. Per poter essere dei buoni magistrati e non tradire i valori che ci hanno spinti a scegliere questo mestiere – che era ed è il più bello del mondo –, occorre uno sforzo ulteriore. Andare nelle scuole a parlare di legalità, occuparsi della formazione specialistica di quanti, per esempio i docenti, sono in grado di intercettare sul nascere o prevenire ipotesi di reato, per esempio in materia di codice rosso, bullismo, cyberbullismo. O, più in generale, aprirsi alla società civile nelle forme più disparate. Per esempio, avvalendosi dell’arte come strumento per veicolare ai cittadini messagggi di legatlità.

I giovani colleghi hanno soltanto bisogno che nei loro occhi un po’ disincantati e sfiduciati, torni a brillare quella luce che li ha chiamati a vestire la toga nel nome di Paolo, nel nome di Giovanni.

Trascrizione a cura della redazione,
in attesa di approvazione dal relatore

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