Intervento

Dario Greco
Avvocato, presidente del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Palermo

Mi complimento per l’altissimo livello di tutte le relazioni. Veramente mi hanno arricchito e quindi ringrazio il segretario e la dottoressa Galazzi, perché è stata lei ad invitarmi ben prima dell’estate: non sarei potuto mancare quando ho letto il titolo del convegno “Il ruolo della giurisdizione nell’epoca del maggioritarismo”.

Devo confessare che nel 1991 e poi nel ‘92 ’93, ancora studente universitario, ho raccolto dapprima le firme per il primo referendum Segni per l’abolizione della multipreferenza. Poi per il secondo referendum che mirava ad introdurre il sistema maggioritario elettorale nel nostro Paese. Quindi, devo dire che allora, e forse ancora oggi, di essere un sostenitore convinto dei sistemi elettorali maggioritari.

Ritengo che quando si vota, chi vince governa, chi perde fa opposizione. Chi governa lo faccia senza prevaricare la minoranza. Chi governa rispetti i principi fondamentali, le regole della Costituzione in un sistema di pesi e contrappesi di controbilanciamento, per cui non vi può essere mai una prevaricazione.

Quando ho letto maggioritarismo – che il correttore di Word segna in rosso, dandolo come errore – ho inteso il disvalore dell’“ismo”. E il disvalore che ho aggiunto io nella mia testa, non è tanto il maggioritario in sé. Anche perché oggi in Italia i sistemi elettorali sono maggioritari al 25%, perché il 75% è proporzionale. Cioè l’inverso di quello che era stato l’esito del referendum Segni.

Ma il problema fondamentale e il motivo di quel “ismo” è che nel nostro sistema politico le maggioranze parlamentari si contraddistinguono per la loro mutevolezza e contingenza. E questa volta forse è stato un caso avere raggiunto una maggioranza parlamentare. Molto spesso l’elettore decide per chi votare la mattina dentro la cabina elettorale. Si aggiunga il populismo imperante, l’impoverimento culturale costante e progressivo della nostra classe politica, una incompetenza dei nostri governanti, che molto spesso è disarmante.

Stamattina ho assistito a interventi di autorevolissimi politici, di governo e di opposizione. E il vizio tipico del politico italiano è quello di rimproverare all’altra parte gli errori che sta commettendo, senza accorgersi che sono i medesimi errori che ha commesso lui, quando governava.

Per quanto riguarda la politica giudiziaria degli ultimi trent’anni, al di là dello scontro durissimo che abbiamo vissuto tra politica e magistratura successivo agli anni di Tangentopoli, abbiamo assistito al continuo annuncio di riforme epocali da parte delle maggioranze parlamentari di turno. Riforme che avrebbero risolto definitivamente i problemi della giustizia tanto civile, quanto penale. Annunci che avevano esclusivamente lo scopo pubblicitario di ottenere il consenso. Molto spesso, queste riforme epocali sono rimaste nei cassetti di via Arenula o ingolfate nelle commissioni parlamentari. Quando sono state approvate, alcune volte sono servite a nulla, altre volte sono state dannose. Ad esempio, abbiamo avuto nei primi anni Duemila la riforma del processo societario, scritta da uno dei migliori studiosi del processo civile italiano, che avrebbe dovuto risolvere tutto. Fortunatamente, dopo qualche anno ci si è accorti che era un grande errore ed è stata prontamente abolita. Perché è proprio la cosa più facile e che inorgoglisce di più il ministro della Giustizia di turno, quella di portare avanti l’idea di riformare il codice di rito civile e penale, perché hai bisogno di un codice che porti il tuo nome. Quale riconoscimento maggiore puoi avere?

Il primo messaggio che unitariamente noi, magistrati e avvocati, dovremmo dare alla classe politica è: per piacere, state fermi per almeno dieci anni sui codici di rito.

Stamattina il procuratore De Lucia ha detto che le riforme hanno bisogno di sedimentare. Le dobbiamo capire. Se me le cambi ogni anno, ogni 18 mesi, ogni due anni, non abbiamo neanche la possibilità di capire se funzionano o non funzionano.

Quindi, un impegno comune dovrebbe essere quello di dire alla politica: stai ferma per dieci anni, non toccare più il codice di rito, non fare riforme epocali. Lasciate lavorare chi sta nei tribunali e chi sa come si vive e quali sono i problemi. Indubbiamente queste cose le sanno i magistrati e gli avvocati. Non possono saperlo i politici incompetenti, né i professori universitari, ad eccezion di pochi, tra cui Giuliano Scarselli, che è anche avvocato. Perché c’è una distanza immensa tra la teoria e la pratica, tra quello che si studia nei manuali e quello che si vive nei palazzi di giustizia.

L’organizzazione del lavoro non può che essere affidata a chi vive sul campo. Alcuni giorni fa sono stato ad un convegno a Cagliari in cui si presentava uno studio effettuato da professori universitari: i dipartimenti di Giurisprudenza, Economia e Ingegneria hanno fatto uno studio nelle sedi giudiziarie siciliane e sarde. Una cosa per cui gli ingegneri gestionali sono rimasti inorriditi è che nella giustizia non si sa quanto costa un processo. Non mi riferisco alle spese delle intercettazioni. Ma in qualsiasi settore, una corretta amministrazione deve sapere qual è il costo di ogni singola fase del suo ciclo di produzione.

Nella giustizia si confonde l’informatizzazione degli uffici giudiziari con la digitalizzazione dei processi. Il processo civile telematico non è digitale: in realtà è solamente informatizzato, perché noi facciamo scansioni o file pdf. E nel processo penale non ne parliamo. L’informatizzazione è scansione, ma la digitalizzazione è tutt’altro.

La digitalizzazione sarà il passo che consentirà di studiare le inefficienze, di capire perché qualcosa va bene e qualcosa va male, per individuare le soluzioni senza necessità di ricercare il colpevole di turno. Non ci interessa punire qualcuno, ma capire come intervenire per risolvere le criticità.

Non mi posso sottrarre al tema della separazione delle carriere. È evidente che io sono per la separazione delle carriere. Ma sono certo che non la faranno. State tranquilli, ne parlano, annunciano. Sono trent’anni, quarant’anni che si parla di separazione. Hanno già hanno detto che scivola a fine legislatura, perché è un tema talmente caldo e talmente divisivo. Ma chi glielo fa fare?

Però se la difesa dell’unicità delle carriere è la salvaguardia del principio dell’obbligatorietà penale… – io sono un civilista, non ho mai fatto un processo penale –, ma davvero l’azione penale in Italia è obbligatoria? Davvero possiamo dire e gridare con la mano sul cuore che in Italia l’azione penale è obbligatoria?

Fermo restando che è interesse di ogni avvocato italiano avere un giudice indipendente ed autonomo, ma siamo certi che noi garantiamo l’indipendenza e l’autonomia del giudice e del pubblico ministero,  consentendo che nei consigli giudiziari la valutazione di professionalità del giudice venga affidata al pubblico ministero, quella del pubblico ministero affidata al giudice e senza la partecipazione degli avvocati?

Perdonatemi, ma non ci credo a quanto ho sentito. Non ci credo che il pm è indifferente alla sentenza di assoluzione o di condanna. Mi volete dire che un pubblico ministero che fa le indagini, chiede il rinvio a giudizio, fa il processo, chiede la sentenza di condanna, il giudice legge che l’imputato è assolto… e se ne va al bar tranquillo, non è successo nulla. È evidente che ci resterà male e ne soffrirà.

E nessuno ha mai sospettato che un pubblico ministero possa mai chiedere la condanna di qualcuno che reputi innocente. Sarebbe una cosa immorale, prima ancora che antigiuridica. Non ritengo che siano questi gli argomenti per contrastare da parte vostra la separazione delle carriere.

Stamattina ho sentito Giuseppe Cascini, che diceva che il processo più iniquo della storia è stato quello di 2000 anni fa, in cui c’era un giudice non indipendente e autonomo, che arrivò a una sentenza di condanna. Ce ne furono tanti altri processi del genere, come quelli in questo palazzo che fu tribunale dell’Inquisizione – qui nel cortile venne fatto un rogo per i condannati –.

È vero che lì non c’era un giudice indipendente e autonomo. Ma in quel processo, così come nei processi dell’Inquisizione, c’era anche un grande assente: l’avvocato.

Trascrizione a cura della redazione,
rivista dal relatore

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Saluti

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