Tavola rotonda I diritti sotto attacco

Marco Tarquinio
Giornalista

Secondo intervento

Grazie per questo invito, grazie per quanto ho sentito finora in questo Congresso che ha come tema “Il ruolo della giurisdizione all'epoca del maggioritarismo”. I saluti qui portati, le relazioni introduttive e gli interventi dei relatori che mi hanno preceduto mi hanno fatto sentire un po’ “a casa”, con un clima giusto. Questo è importante in un Paese in cui tanti di noi si sentono spaesati. Nel quale a tanti di noi non tornano più i conti su questioni umane e giuridiche fondamentali e sui valori di riferimento che le illuminano.

Intendo restare centrato sul tema migratorio, quello che mi è stato assegnato, anche se la tentazione di collegare la riflessione alle cose sin qui ascoltate è molto forte. Partirò tuttavia da un’idea, innanzitutto: il maggioritario si sta rivelando sempre più un modo per rendere una minoranza organizzata forza egemone in grado di condizionare la vita di una comunità.
Vale anche per il tema della migrazione, dell’accoglienza del diverso. Quello che è accaduto negli ultimi 15 anni, soprattutto a partire dal 2010, è drammatico. Sono state cambiate delle regole, che non sono “tutto” e, da sole, non possono tenere insieme tutta la vita degli uomini delle donne. Voi che conoscete le leggi e amministrate giustizia lo sapete benissimo. Però le regole servono. Aiutano per preparare il futuro e a gestire il presente e, qualche volta, dovrebbero servire anche a far tesoro del passato, per non ripetere gli errori.

La realtà evidente e sconsolante è che in questi anni in Italia si è lavorato per picconare e distruggere normativamente tutte le strade che portano in modo regolare in Europa, cioè nel nostro pezzo di mondo – ma questo vale anche per altri pezzi del Nord del mondo emerso, nelle Americhe e altrove. E così per i poveri non esistono più strade regolari da percorrere. Non esistono soprattutto per i più poveri, specialmente se hanno la pelle di un altro colore, più scuro di quello prevalente dalle nostre parti. Inutile fingere che non sia così, inutile dire che non è così. È diverso se si è poveri e vulnerabili nel Sud del mondo o se lo si è in Europa.

Lo vediamo bene con quello che sta accadendo con la guerra in Ucraina. Ai profughi d’Ucraina consentiamo quello che dovremmo consentire a tutti, per la nostra civiltà giuridica, per i Trattati che abbiamo contribuito a formare e che abbiamo firmato. Princìpi e testi che stabiliscono che se persone in difficoltà drammatica bussano alle porte della “casa comune”, si aprono le porte e le persone accolte possono scegliere in accordo con i custodi della casa in quale “stanza” andare – ad esempio dove hanno parenti o amici – e dove stabilirsi.

L’articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo – 75 anni quest’anno – dice esattamente questo, che il movimento sulla Terra è parte della dignità umana e ogni uomo e ogni donna hanno libertà di movimento, e in un quadro di regole servizievoli e solide possono scegliere dove andare: liberi di partire, liberi di restare.

Vale per tutti, ma per quelli che vengono dal Sud del mondo, no. Anche se scappano delle guerre, anche se scappano dalle persecuzioni. Anche se sono richiedenti asilo a tutto tondo. L’asilo che, noi italiani per la nostra parte, secondo l’articolo 10 della Costituzione italiana dovremmo far con loro e per loro: non soltanto una strada per arrivare fin qui, ma anche case dignitose dove vivere, percorsi per inserirsi nel tessuto della nostra democratica repubblica “fondata sul lavoro”.

Questo è il punto. E voi sapete che la questione è lancinante e lo diventa sempre di più: perché noi non facciamo i CPR per quelli che vengono dall’Est Europa, lo facciamo per quelli che vengono dal vicino Oriente, dall’Asia centrale e dall’Africa, soprattutto dall’Africa, il continente che – per definizione – indichiamo e sentiamo come problema.
Come siamo stolti, come vediamo poco, come non capiamo molto di essenziale: la speranza la ingabbiamo nei luoghi sbagliati della “custodia” che vediamo costruire in Italia e progettare anche all’estero. Quelli dove, magari, quando va bene a chi ha sete, tirano in testa la bottiglietta dell’acqua e con chi deve lavarsi usano l’idrante.

Eppure, noi e loro siamo, in realtà, un “noi” unico. Per comune umanità, e di più: per fratellanza. Qualcuno dirà: “Questo è il cattolico, il cristiano che parla”… Ma è un’idea che accomuna tanti, cristiani e no, e che abita le visioni sociali e i progetti politici fondati, appunto, sulla consapevolezza di una fraternità e di una sororità necessarie e possibili.

Penso anch’io che quello che non riusciamo a capire per amore, dovremmo almeno capirlo per convenienza. Noi siamo nati e viviamo nella parte del mondo che è più vecchia per età media e più tecnologicamente avanzata, più – per certi versi – strutturata e organizzata. E siamo in relazione, un tempo coloniale oggi interessata e sempre più spesso sospettosa, con l’altra parte. Meridionale, rispetto a noi. Più giovane, più povera eppure più ricca di risorse naturali, con sistemi sociali dalle molte facce e “affluenti” in modi diversi dal nostro. Che cosa dovremmo razionalmente fare, se non lavorare a un progetto comune? Se non sviluppare una cooperazione utile a tutti e darci una comune misura di diritti e doveri che siano capaci di valorizzare le complementarità cui ho appena accennato e che saltano agli occhi?

Ora in Italia, il governo Meloni sembra voler imboccare una strada cooperativa. Lo vogliono chiamare “Piano Mattei”. Suona bene, evoca una stagione in cui l’Italia dell’Eni di Enrico Mattei, facendo anche il proprio interesse, seppe stringere patti più rispettosi con i Paesi produttori di materie prime energetiche rompendo così consolidati schemi predatori in quel settore decisivo. Ma se vero “Piano Mattei” vorrà essere, gli dovrà esser dato un contenuto che non sia centrato sulla concessione di prestiti onerosi e, soprattutto, sull’esternalizzazione delle nostre frontiere in Africa! Bisogna, appunto, che gli si dia un contenuto di cooperazione vera, di lungimirante e paziente costruzione di quello che più di qualcuno – e io con loro – chiama il “Continente Verticale”, che va dalla Scandinavia al Sudafrica. Un cantiere che mette insieme Europa e Africa e comprende la sponda orientale del Mediterraneo e ridà a questo mare la dignità del tessuto connettivo e non del muro d’acqua che separa le civiltà, contrappone i sistemi e spezza l’umanità.

Dicevo, iniziando questa riflessione, di minoranze organizzate che prendono in ostaggio il dibattito pubblico su temi come quello della mobilità umana. Il movimento degli uomini delle donne è vita del mondo. Se potessimo vedere come dall’alto il movimento che uomini e donne fanno sulla faccia della Terra, quelli che son costretti a farlo o quelli che liberamente lo scelgono, ci renderemmo facilmente conto che esso è esattamente come la circolazione del sangue nel corpo umano. Questo qualcuno ancora non lo capisce… ma pretendere di fermare il movimento degli uomini e delle donne è un po’ come pretendere di fermare la vita. È folle e annichilente. Il movimento, lo scambio di geni e di merci, di parole e di altri strumenti, di sentimenti e di idee è parte essenziale della vita, la genera e la rinnova, le dà valore. E poi, ditemi, conoscete un posto sulla faccia della Terra, dove quelli che vi si sono rinchiusi sono sopravvissuti e sono rimasti uguali a sé stessi? Sparsi per il globo abbiamo solo i brandelli di una ragnatela spezzata di muraglie e di altre barriere che si ritenevano inespugnabili che ci raccontano del vuoto di poteri che non ci sono più e delle presunzioni atroci di quelli che ritenevano di bastare a sé stessi e alla fine si sono consumati in questa illusione. Se per salvare dalla febbre che temiamo imperversi nel resto del corpo una nostra mano decidessimo di fissare al polso uno stretto braccialetto di ferro, non “salveremmo” affatto quella mano, la manderemmo in cancrena…

L’incomprensione e il sospetto generano mostruosità. Siamo arrivati a parlare delle persone che migrano, quelle che hanno la pelle di un altro colore e vengono da culture che riteniamo diverse o addirittura opposte alla nostra, come di “armi ibride”. E guardate che lo diciamo in documenti ufficiali di governi e organizzazioni internazionali, in sedi parlamentari e non solo sulle pagine di giornale, dove s’avventurano anche quelli che non dovrebbero osare avventurarsi con certe intemerate, dove i giornalisti troppe volte fanno i titoli con virgolettati di slogan odiosi e odianti che dovrebbero deontologicamente rifiutarsi di riproporre con quella violenta evidenza: regola questa – permettetemi una digressione – che avevo dato ai miei colleghi finché sono stato direttore di giornale. Perché ci sono espressioni che non possono diventare titolo così come sono! Non vanno censurate, ovvio, e se deve dar conto, ma non ci si può “alleare” di fatto a esse, perché si tratta di offese all’intelligenza, alla verità delle cose e, non poche volte, anche al buon diritto.

“Armi ibride” gli esseri umani… E con questa etichetta abbiamo inchiodato migliaia di persone al supplizio, a decine e decine le abbiamo fatte morire al confine fra Polonia e Bielorussia. Venivano dalla Siria e dall’Iraq, profughi da guerre che noi abbiamo fatto e che il califfato nero jihadista ha ferocemente continuato in quelle terre. E il Daesh o Isis, chiamatelo come volete, è frutto non solo di un fondamentalismo religioso ma anche e soprattutto della guerra “per esportare la democrazia” che un pezzo del nostro mondo occidentale ha condotto nella convinzione che la democrazia si possa sul serio portare sulla punta di baionette che sono diventate carri armati bombardieri, missili intelligenti, droni letali. Noi no, credo.

È possibile uscirne? Sì, è possibile se ognuno fa la sua parte fino in fondo.

E posso dire qui, oggi, che ci sono magistrati che in questi anni hanno fatto la loro parte, custodendo l’essenza della Costituzione anche rispetto alle norme che, via via, venivano poste e imposte per impedire che nel nostro Paese esseri umani poveri venissero trattati da esseri umani.

Ho dato conto, facendo il mio mestiere di cronista, di sentenze di capitale importanza: sul diritto alla cura, sul diritto a non essere umiliati, perché stranieri di origine, nella dignità e integrità personale e nell’utilizzo di servizi essenziali della cittadinanza. Già, la cittadinanza e le regole per ottenerle… Si vagheggia ma specialmente si osteggia una riforma che, così è sempre in fieri… La legge vigente è del 1992 – un’era geologica fa rispetto all’Italia che viviamo oggi – eppure non ci si decide a cambiarla. E questo perché una minoranza organizzata non ha voluto e non vuole che la riforma si faccia. E la maggioranza che la riforma avrebbe potuto farla è stata a lungo pavida e anche quando ce n’erano le condizioni per introdurre lo ius culturae, o ius scholae, non è stata capace di dare alla Repubblica e alla nostra gente, vecchi e nuovi italiani, una di quelle leggi davvero essenziali e costruttive che al nostro Paese, e a chi in esso vive, servono come il pane.

Non bisogna più dire che s’intende fare una nuova legge sulla cittadinanza: bisogna farla e basta. Perché ogni volta che si dice “la facciamo” e poi non la facciamo, diamo uno schiaffo in faccia a più di un milione di giovani italiani che italiani non sono ancora per legge, ancora, ma che italiani sono nella realtà: parlano italiano e vivono italiano con tutte le contraddizioni degli italiani di oggi. Perché questi nuovi italiani non sono speciali, sono figli e figlie della nostra società. Dipende da noi però farli sentire pienamente “a casa”. Altrimenti, costruiremo in loro un pericoloso senso di estraneità, che – come in altri Paesi – potrebbe farsi conflittuale o che li spingerà, in un modo o nell’altro, ad aggiungersi ancora di più ai milioni di italiani che si fanno migranti economici nel mondo.

Però – diciamoci anche questo – noi che siamo cittadini a pieno titolo per ius sanguinis possiamo emigrare col nostro “potente” passaporto italiano che è secondo – insieme allo spagnolo e al tedesco – soltanto a quello della piccola e ricchissima Singapore. Possiamo comprare i biglietti di aereo, di treno o di nave regolarmente, non dobbiamo affidarci ai trafficanti di esseri umani per arrivare dove vogliamo e speriamo perché veniamo da uno di quei pezzi di mondo di cui dicevo all’inizio. Possiamo farlo su mezzi regolari perché le nostre strade sicure per emigrare non le abbiamo distrutte, ma consolidate e, anche in maniera inconsapevole e autolesionistica, rese molto attraenti. Bisogna ricostruire strade umane per tutti.

Ogni tanto mi dicono: ma allora come si ferma il flusso degli irregolari? Rispondo: rifacendo flussi regolari, degni di questo nome. Con accordi bilaterali, ricostruendo partnership e quei luoghi di formazione che sono stati sistematicamente smantellati a partire dal 2010. Sono 13 anni che, in tanti modi, radiamo al suolo i luoghi della formazione e dell’inclusione fuori d’Italia e utili a chi li frequentava e all’Italia.

Qualche tempo fa, alla mia collaboratrice familiare ecuadoriana – dunque, una donna proveniente dall’America Latina, che consideriamo un pezzo del Sud del mondo più vicino a noi e dal quale, perciò, si può più facilmente arrivare in aereo – è nato un figlio in Italia. Una delle nonne, la madre della madre, avrebbe voluto venire a conoscere questo bimbo e far visita alla figlia. Ho garantito che avrebbe dormito a casa nostra, che le avremmo pagato il biglietto andata e ritorno... Il no del Consolato sulla base dI regole vigenti e direttive informali ma ferree è stato insuperabile. Questa donna ha visto il nipote quando aveva già sei anni e perché i genitori l’hanno portato da lei in Ecuador. È una ferita seria, forse non gravissima, ma è certamente un avvelenamento insensato. Questo producono norme e direttive ingiuste.

Un’ultima parola su questo punto. Io non so se questo Parlamento, così come è composto, e questo Governo troveranno la forza morale per dar vita a una riforma della cittadinanza e delle regole per entrare in Italia. Vedo che si lavora per introdurre altre riforme, quelle di cui più si parla sui giornali, che sono soprattutto “di vertice”. E vedo che si cerca di rimodulare e in parte svuotare i poteri di garanzia e terzi che la Costituzione oggi disegna e assegna, a cominciare da quelli del Capo dello Stato: chi mi ha preceduto ne ha parlato in vari modi. Con una battuta, mi pare che – stringi stringi – il ragionamento sia: “Non ci fate eleggere direttamente il Presidente della Repubblica? Allora gli togliamo alcuni poteri e li allochiamo diversamente, passandoli a chi guida l’azione di governo”. Non posso soffermarmi su questo, e dico solo: attenzione, è uno schema rischioso. Così come è rischiosa la captatio benevolentiae nei confronti dell’opinione pubblica che su certi temi – a cominciare, come ho cercato di dire sinora, da quello delle migrazioni – si fa captatio malevolentiae. Eppure. la realtà dei problemi merita di essere capita e la sostanza dei problemi risolta. E siccome il mondo della produzione comincia a chiedere a gran voce persone che vengano a sostenere con il loro lavoro e la loro intelligenza il nostro sistema, allora vedrete che a poco a poco cambierà il vento. E accadranno cose che forse non c’aspettiamo: a qualche ministro è già scappato detto che dovremmo portare mezzo milione di persone qui, subito. Del resto, altri Paesi stanno facendo politiche analoghe.

Non dobbiamo arrivare alla svolta per resa, ma per visione, non per puro calcolo, ma per convinzione. E io vorrei per la mia e nostra Italia, dentro l’Europa che sogno federale, una legge comune che preveda che le persone che vengono qui a lavorare e a vivere con noi possano diventare cittadini come gli altri. Cittadini e non soltanto “stranieri residenti” come nel modello tedesco – che, comunque, è infinitamente migliore di quello italiano attuale perché riconosce a queste persone uno stato di dignità piena. Considero la pur buona via tedesca una soluzione di serie B.

L’idea, per me, dev’essere quella che noi sappiamo fare e riconoscere “cittadinanza”. Per questo serve ius culturae, e accanto a esso un diritto del lavoro che non lasci ad alcuni imprenditori sleali, cioè leali soltanto al proprio profitto, i margini di cui oggi godono per “pagare” infinitamente meno in soldi e in condizioni di sicurezza alcune persone semplicemente perché questi uomini e queste donne vengono da pezzi di mondo che riteniamo possa metterci a disposizione dei non-cittadini. Non esiste un’umanità di serie B.

Secondo intervento

Non so se c’è una strategia della diseguaglianza e dell’attenuazione selettiva dei diritti fondamentali delle persone. So che viviamo in una società globalizzata diseguale, strutturalmente diseguale. Nella quale alcuni potenti – potenti a livello economico e/o politico – pensano che sulle disuguaglianze si possa lucrare molto e che enfatizzare le disuguaglianze è un buon affare in termini di profitto e/o di consensi. Accade in Italia, in Europa e nel mondo che abbiamo costruito. E questa disuguaglianza sta alla radice delle guerre che stanno massacrando il mondo in 184 diversi conflitti aperti di diverso grado di intensità (dati dell’Università di Uppsala). Uno di essi è la guerra d’Ucraina, che negli ultimi due anni è diventata di nuovo veemente. Dico “di nuovo” perché era già in corso prima dell’invasione russa del febbraio 2022. Chi voleva vederlo, poteva farlo.
Si presume che le guerre consentano brutalmente di “sistemare le cose”, quando non ci si riesce con mezzi pacifici. Nel nostro mondo tra il XX e il XXI secolo non siamo stati capaci, dopo la fine della “guerra fredda” con la vittoria delle liberaldemocrazie occidentali, di vincere la pace con la giustizia, con l’ordine, con la sicurezza per tutti, cioè con dignità e vera libertà…  E questi pilastri della pace mancata sono diventati gli alibi degli incapaci, dei totalitari e dei bellicisti.

Dico sempre che l’unica parte giusta è quella delle vittime. Lo ripeto oggi. Quelli che possono cambiare il mondo sono le prime vittime di tutta la disuguaglianza, di tutto il (dis)ordine e di tutta la guerra che c’è. Loro non possono fare altro. E noi dobbiamo saper stare al fianco di queste persone. Perché sono i più deboli, e spesso non hanno più patria e non ne hanno ancora un’altra, soprattutto se provengono da Paesi che non danno tutele sufficienti o attuano discriminazioni e persecuzioni.

Pensiamo agli afgani. Agli afgani due anni fa eravamo pronti a spalancare le porte di casa. Oggi li inchiodiamo lì dove sono, nel loro Paese sotto regime talebano o nei Paesi vicini dove sono avventurosamente arrivati. Se vogliono venire qui, in Europa, richiamo di venire a morire davanti alle coste di Cutro... E neanche si va a rendere omaggio alle salme. Meno male che il presidente Mattarella c’è andato a nome di tutti noi… Ma avrei voluto che ci fosse andata anche la premier Meloni, perché davanti a quell’orrore avrebbe dovuto umanamente e politicamente fare quello che fece Enrico Letta dieci anni fa dopo la prima e terribile strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013.

Da domani sarò anch’io a Lampedusa. Si sono accumulati 27mila morti in questi dieci anni. Tra quei 27 mila, i 700 piccoli della “nave dei ragazzi”: nessuno voleva davvero credere che fossero state imbarcate 700 persone in quello scafo, ma i trafficanti li avevano stipati a bordo come i negrieri stipavano gli schiavi quando li portavano nelle Americhe. Tra quei 700, anche il bambino con la pagella cucita nel risvolto della giacchetta di cui tutti abbiamo poi scritto e per cui in tanti ci siamo commossi. Ecco, per capire di chi parliamo... Ricordo che qualcuno protestò per le spese fatte per dare nome e volto a quei ragazzi. La disuguaglianza è far sì che ci siano persone, adulti o bambini, che non hanno nome e volto. Che sono numeri, usati per far paura e non per mobilitarsi per fare giustizia.

È stato qui affermato che i magistrati non devono pensare di essere “parte della soluzione”. Io so che l’autorità morale è quella che, quando ci si sente senza bussola, aiuta a ritrovare una rotta. Io credo che ognuno di noi abbia il suo pezzo di responsabilità e che i magistrati ne abbiano un po’ più di altri, perché incarnano uno dei poteri costituiti della Repubblica. Penso però che gli uomini e le donne della politica obiettivamente portino una responsabilità maggiore. Perché se le regole che si fanno non rispettano le norme fondamentali della convivenza umana e i princìpi di umanità; se insomma la legge a cui diamo forma e sostanza non ha un cuore umano o lo violenta in diversi modi, allora siamo davanti a un problema enorme. E questo purtroppo sta accadendo. E dal mio punto di vista spiega tanto anche dei processi di allontanamento dalla politica e dall’idea che la legalità sia qualcosa da custodire e da incarnare nelle nostre vite.

Non si tratta di essere moralisti, ma di essere realisti con un ideale: tenere i piedi a terra e aver chiara la stella polare. Io, sin da ragazzo, ho sempre in testa una frase di Emmanuel Mounier. È un filosofo che amo molto, anche se non lo considero un oracolo a ogni proposito, ma sulle radici profonde della centralità della persona umana certamente sì. Mounier – cito a memoria – incitava a battersi per cambiare la società, non perché la società è cattiva, perché non c’è da dare un giudizio moralista su quello che accade, ma perché la società è ingiusta. E l’ingiustizia non si può accettare. Questa, credo, è la sfida che abbiamo davanti.

Trascrizione a cura della redazione,
rivista dal relatore

Gli altri interventi

Saluti

Relazione introduttiva

Tavola rotonda:
I diritti sotto attacco

Dibattito congressuale