Marcello Basilico
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura
Sia chiaro che a sentire Ernesto Carbone, sembra che lui si faccia un mazzo tanto tutte le settimane per cercare 16 voti. Invece non è così difficile, tu li trovi abbastanza rapidamente. La fatica non è per tutti uguale: c’è chi ne fa di più, c’è chi ne fa di meno. Però, insomma, dalla simpatia di Ernesto Carbone avete capito perché poi non ci prendiamo a mazzate con Felice Giuffrè tutti i giorni…
Volevo provare a riflettere su un’affermazione dell’avvocatessa Anna Falcone, che ieri sera mi ha colpito molto.
Volevo riflettere sul “noi” che viene delegittimato dalla deriva del maggioritario o dal maggioritarismo. Perché questa è la cifra risultante dall’analisi che ieri ci ha proposto l’avvocatessa Anna Falcone e che io condivido. La delegittimazione del “noi”, che significa unilateralismo, verticalismo, imposizione della volontà maggioritaria, senza mediazione con istanze intermedie o minoritarie.
Nel mondo della politica si manifesta con la decretazione d’urgenza, il governo forte, il disconoscimento dell’autorità di garanzia o l’indebolimento. Abbiamo tantissimi esempi nell’architettura costituzionale degli effetti di questa realtà. Sul piano politico comportano la rinuncia a un valore, che è la premessa del principio di uguaglianza, che tanto ieri abbiamo richiamato: è la rinuncia alla solidarietà. Ecco perché i diritti sociali all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alla previdenza, al lavoro, sono oggi soccombenti rispetto alle esigenze dell’economia. Ma anche di un vago spirito di maggioranza, in nome della quale si possono incardinare istanze diverse, che non sono le ragioni dell’economia. Ecco il salto di qualità rispetto a dieci anni fa, quando erano gli interessi economici quelli che dominavano e che giustificavano lo scardinamento e la regressione dei diritti sociali.
Oggi dal ministro della Giustizia abbiamo sentito parlare dell’economia: la sua importanza, l’incidenza sui processi, sui giudizi, sulle decisioni. Ma io ricordo un sottosegretario – ex segretario generale di una corrente della magistratura, oggi al Ministero e componente del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria – rivendicare il ruolo di mediazione del giudice tra i valori in gioco nel processo e le ragioni dell’economia.
In questo scenario, la giurisdizione sarebbe chiamata a svolgere un ruolo di risolutrice di conflitti, che si giocano sul piano dell’intervento applicativo delle norme ordinarie e dell’interpretazione costituzionalmente orientata, conforme al diritto dell’Unione europea.
A sentire il compagno di Consiglio superiore, Felice Giuffrè, ci sarebbero due scuole di pensiero, una che afferma e un’altra che mette in discussione questa affermazione. Già in plenum dissi – è agli atti – che Felice Giuffrè viaggia negli anni Cinquanta, perché questa affermazione è oggi consolidata. La Corte di Giustizia, quando viene ripetutamente interpellata dai giudici su questioni pregiudiziali che sono già state risolte, dice: tu devi decidere con interpretazioni orientate alle nostre decisioni. Tu devi decidere, tu non devi tornare alla Corte di Giustizia e quando noi ti abbiamo indicato la via, tu segui quella via. Se la questione è nuova, ma segue quel percorso, tu non torni da noi. Tu decidi in modo orientato al diritto dell’Unione.
Ecco, questo è il quadro che oggi si vuole disconoscere. Si viene a dire che uno scenario futuro può essere quello di una interpretazione secondo la volontà del legislatore.
Su questo noi dobbiamo essere molto fermi. Perché almeno su questo possiamo dire che la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia dicono parole ferme, univoche.
È chiaro, però, che se poi questo maggioritarismo pone la giustizia, su vari fronti, in una situazione di difficoltà, la giustizia rischia di diventare vittima del maggioritarismo. Riflettendo l’altro giorno con i colleghi dell’Assemblea ligure, questo rischio appariva non solo sotto il profilo delle risorse che ci vengono sottratte o che non ci vengono fornite – lo chiediamo da decenni – ma anche sotto il profilo di una pubblica amministrazione continuamente svuotata dei contenuti rivolti alla difesa dei diritti sociali.
È da questo svuotamento che deriva la delegittimazione dell’azione della magistratura. Pensiamo al diritto minorile, al diritto della famiglia, all’esecuzione della pena. Pensiamo a tutte quelle azioni della giurisdizione che si confrontano con un’amministrazione che non funziona e, quindi, manca il supporto, manca anche l’effetto della decisione nella realtà sociale. E dunque, chi ne risponde è poi l’immagine della giurisdizione.
Anche su questo credo che noi dovremmo vigilare di più. Non è soltanto questione di risorse per la magistratura, ma è questione di risorse per il Paese, delle quali la giurisdizione ha bisogno e che da troppo tempo vengono negate. E l’azione di supplenza della magistratura non è soltanto nei confronti del legislatore, ma è anche un’azione di influenza nei confronti dell’amministrazione.
È stato citato l’intervento della Cassazione sulla legge Pinto in materia previdenziale. Ma se l’Inps a Foggia o in altri territori avesse funzionato, non ci sarebbe stato quel contenzioso. E così potremo fare mille esempi che hanno reso debole la giurisdizione.
A proposito del processo, diceva ieri il professor Grosso, sembra quasi nell’idea del maggioritario che tutto si debba ridurre alla decisione del giudice.
Se si vuole un pubblico ministero che non ha la direzione delle indagini, che non governa le prove, si va direttamente decisione del giudice. Se si accetta nel processo civile che il prezzo della produttività sia un giudizio a distanza, dove non c’è l’udienza… dunque, non c’è il confronto? Dunque, si svuotano i palazzi di giustizia? Dunque, non esiste più quel luogo in cui si dice al cittadino qui tu non devi temere? Qui c’è un giudice terzo che difende il tuo diritto. Ecco, se non c’è più quel luogo, allora sì, si corre alla decisione molto rapidamente. La formazione del convincimento non è più una formazione sana nel vero contraddittorio tra le parti.
Proprio l’altro ieri, c’è stato l’ennesimo sfogo del presidente delle Camere civili. Mi spiace molto che non sia venuto l’avvocato Greco che da presidente della 6ª Commissione – non ho timore di dirlo – a cui più volte ho richiesto di farsi fautore di iniziative presso la nostra commissione per riavviare quel dialogo che in passato c’è stato tra Consiglio e Consiglio nazionale forense, ritenendo che sia interesse del Consiglio nazionale dell’Avvocatura avere un ruolo nella giurisdizione e nel governo autonomo della giurisdizione. Perché è chiaro che se non è Area che prende questa iniziativa, non saranno gli altri gruppi rappresentati in Consiglio a prenderla nei confronti degli avvocati.
Sono rimasto sconcertato – come direbbe Luca Poniz – dal silenzio anche in questo caso. L’avvocatura dice di essere tra due fuochi: tra l’esigenza della tutela dei diritti e gli obblighi di solidarietà e le ragioni dell’efficienza, con sanzioni processuali che tagliano le decisioni, con questi strumenti di impugnazione che vengono a mala pena tollerati dai giudici – lo vedono nei gradi superiori –, con questa trattazione scritta che persino rende loro impossibile essere ricevuti da un giudice. Allora perché poi gli avvocati non vengono da noi quando allunghiamo una mano?
Oggi abbiamo una rivisitazione nell’ordinamento giudiziario su cui non torno perché già enunciato da altri: è indubbio che il peso della maggioranza è il pugno sul tavolo – come direbbe Cosentino – che toglie spazio al dialogo, toglie spazio al confronto delle idee e che dà luogo solo alla decisione, secondo maggioranza: perché noi abbiamo i voti.
Sicché noi nel plenum facciamo delle meravigliose o meno discussioni, ma poi c’è chi vota e decide. Vince coi 16 voti trovati da Ernesto Carbone. Ecco, lì è chiaro che lo scenario è molto disegnato. Mi avrebbe fatto piacere che in pochi decimi di secondo Felice Giuffrè mi avesse elencato le pratiche in cui non c’è stata questa maggioranza che lui dice di non essere così constante.
A proposito dell’egemonia della politica in questo scenario, vorrei ricordare come ieri il vicepresidente del CSM – e mi spiace non ci sia – ci diceva che è un vizio del correntismo avere esaltato la rilevanza delle pratiche relative ai conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi. Non siamo stati noi a dare importanza alla pratica del procuratore di Firenze, dicendo che avrebbe votato solo in quella circostanza. Non siamo stati noi a dirlo. Noi avevamo chiesto qual era il criterio di importanza. La realtà è che il voto in quello e un altro caso ha riguardato due pratiche di nomine. Non ha riguardato pratiche sui pareri che il Consiglio dà al Parlamento o al Ministro, non ha riguardano pratiche sull’incompatibilità. Ma erano pratiche sulle nomine.
E allora qui ci dobbiamo mettere d’accordo, se questo è un debito delle correnti o, invece, è l’intendimento di chi ha la maggioranza di scegliere, di decidere perché ritiene che dirigere la Procura sia qualcosa di rilevante per la parte politica. Ecco, io mi sarei aspettato ingenuamente – nonostante i miei 62 anni – che in Consiglio superiore la rappresentanza laica avesse la capacità di limitare la nostra sfera autoreferenziale calandosi nel sociale. Ma che ci desse anche la dimensione della maggior capacità del Consiglio di difendere i diritti cittadini. Di difenderli anche, se necessario, mandando a casa o fermando qualche magistrato.
Tutte le volte abbiamo chiesto: perché? Guardate che quel magistrato ha fatto questo. Perché? Guardate che questo procuratore non dà le sufficienti garanzie. Ma la maggioranza era già consolidata in quell’orientamento. E ha ragione Felice Giuffrè, quando ci dice che loro non seguono Magistratura Indipendente, perché la verità è che Magistratura Indipendente segue i laici di centrodestra.
Però, la realtà del maggioritarismo è che è difficile portare il ragionamento su base logico razionale. La realtà del maggioritarismo è che di fronte alla legge dei numeri si perde.
Di poche ricette abbiamo parlato in questi giorni. Io credo che una fondamentale ricetta sia tornare a parlare di noi. Non noi magistrati. Perché troppi magistrati, bombardati in questi decenni dalla delegittimazione della magistratura, che ha fatto i suoi effetti anche presso di loro, ma bombardati anche dalle idee che noi ci siamo fatti sul produttivismo, non colgono più la rilevanza. Ed è vero che tanti magistrati di fronte alla separazione delle carriere la valutano con un’alzata di spalle. È la realtà, che non dobbiamo nasconderci.
Credo che il “noi” vada riferito soprattutto all’avvocatura, soprattutto al personale giudiziario. È sacrosanta la stabilizzazione degli UPP, forse. Ma non dimentichiamo quegli 8.000 dipendenti, che per trent’anni hanno tirato la baracca, non hanno mai avuto riqualificazione professionale. E oggi si vedono scavalcati da questi giovani brillanti, che avranno un contratto a tempo indeterminato, dopo che sono entrati con un concorsino per un contratto a tempo determinato. Intanto si preparano ai loro concorsi in una realtà estremamente variegata che vede – è vero – alcuni UPP dare un apporto fondamentale alla giustizia, altri invece mal impiegati, per esempio, in molte corti d’appello.
Credo che la risposta che noi dobbiamo dare è chi siamo “noi”. Perché se l’operazione che viene compiuta in questo periodo è la delegittimazione di questo pronome, noi dobbiamo tornare a dare un significato a questo pronome.