Vittorio Manes
Professore di Diritto Penale presso l’Università di Bologna
Eugenio Albamonte
Approfittando della presenza e dell’amicizia di Vittorio Manes, vorremmo costruire con lui un veloce scambio di battute. Per quanto mi riguarda, sarò sollecitatore delle sue riflessioni, mettendo insieme i temi generali con le ricadute particolari di cui parleremo di qui a poco.
Grazie Vittorio di esserti trattenuto anche dopo l’ora di pranzo e dell’amicizia che ci dimostri con questa tua presenza. Innanzitutto, volevo sollecitarti due battute sul titolo del nostro Congresso, cioè sull’aver dedicato queste giornate di riflessione al tentativo di ridefinire quali possano essere i perimetri e il ruolo della giurisdizione, ma inevitabilmente anche della magistratura, in quest’epoca molto particolare, segnata da maggioranze, segnata da una forte spinta verso la riscrittura – a noi sembra – non soltanto di singole norme, ma di un quadro generale di sistema della giustizia.
Vittorio Manes
Anzitutto grazie a te, se mi posso permettere di ricambiare il tuo, in questo dialogo che abbiamo scelto che sia informale. Grazie soprattutto ad Area, per questo invito che ho accolto con grande entusiasmo, consapevole del fatto che, come poi è stato, avrei tratto un notevole arricchimento da quanto ho sentito, perché ho ascoltato delle riflessioni davvero molto stimolanti. Non lo dico per forma.
Dalle quali però partirei, proprio per misurarmi con il titolo che avete dato: “Il ruolo della giurisdizione nell’epoca del maggioritarismo”. Questa mattina abbiamo ascoltato molti interventi di interlocutori della politica anche molto autorevoli, taluni anche sicuramente con aspetti di interesse. Ma non mi è parso di cogliere mai in nessuno degli interventi che abbiamo ascoltato, una minima assunzione di responsabilità in ordine al fenomeno che maggiormente ha poi comportato una esposizione della giurisdizione, una sovraesposizione della giurisdizione. Cioè al fenomeno in base al quale in particolare il diritto penale – io guardo la scena dall’angolo lettura limitata della giustizia penale – è diventato ormai una risorsa irrinunciabile. Non da oggi. Naturalmente, questo fenomeno di strumentalizzazione del diritto penale da parte della politica si acutizza, si estremizza nell’epoca del maggioritarismo per ovvie ragioni. Ma è un’esperienza che ormai dura da tre, quattro lustri. Perché la giustizia penale è intimamente politica – “politica” nel senso etimologico –: ha a che fare con la polis, ha a che fare con le regole che determinano chi sta fuori o dentro alla polis, chi partecipa o meno al discorso pubblico, all’agorà.
Questa materia così intimamente politica è stata via via strumentalizzata dalla politica. Negli anni Sessanta e Settanta il fallimento delle politiche di welfare sono state progressivamente delegate al diritto penale. Poi questa tendenza si è fatta sistema e non solo nel nostro ordinamento, dove abbiamo avuto esperienze di espansione punitiva senza limite in ogni campo, in ogni ambito.
Qualche mese fa siamo stati al Congresso nazionale dei professori tedeschi di diritto penale e si parla sempre di più di espansione di utilizzo del diritto penale. Pensate ai crimini sessuali, al codice rosso in determinati contesti. La politica ha costantemente accarezzato, coccolato, viziato il diritto penale. Lo ha fatto sentire importante, irrinunciabile. Perché diventava lo strumento non solo di delegare interi problemi sociali alla giurisdizione e, quindi, non all’attore politico ma ad altri. E, soprattutto, di delegare alla giurisdizione le inefficienze della politica.
Attenzione, la cosa più rischiosa ai miei occhi è che al contempo, delegando problemi sociali spesso molto complessi alla giurisdizione, si istituiva implicitamente un terminale di responsabilità, qualora questi problemi non riuscissero poi ad essere risolti: un capro espiatorio, che è stata la giurisdizione.
Forse si spiega anche con questo percorso così complesso, il perché oggi la fiducia dei cittadini nei confronti di una giurisdizione così sovraesposta tocca i suoi minimi storici. Perché nel corso del tempo alla giurisdizione sono stati chiesti e via via demandati dei compiti che non poteva sopportare a livello quantitativo. Pensate che se un giudice per le indagini preliminari maneggia – ad esempio nel tribunale di Bologna – 200, 300, 400 fascicoli alla settimana, non può svolgere il suo lavoro. O se un relatore in Cassazione scrive 40, 45 provvedimenti al mese, evidentemente non può svolgere quel compito altissimo di giurisdizione. Perché giurisdizione – che è un termine così evocativo jurisdictio – per “dire il diritto” bisogna aver tempo di studiare, pensare, anche passeggiare liberamente, prima di poter decidere in questo compito così importante. Quantitativamente è stata sovraesposta e qualitativamente è stata sovraesposta. Cioè è stata sempre più chiamata a compiti che non possono essere della giurisdizione, perché sono compiti impropri.
Questa mattina in diverse occasioni ho sentito evocare, forse dal consigliere Cosentino e prima dal presidente Santalucia – richiamerò ancora l’intervento prezioso che ha fatto Giuseppe Santalucia – il giudice di scopo dicendo: attenzione, stiamo tutti molto attenti ad abbracciare questa immagine suadente, che può suggestionare, ma che è molto pericolosa. Perché significa autoattribuirsi dei compiti che non sono della giurisdizione e che sovraespongono la giurisdizione, chiamandola poi fatalmente a una resa dei conti.
Quando Giuseppe Santalucia questa mattina richiamava quella necessaria distanza dalla legge, addirittura il ritorno a un’interpretazione che sappia rispettare il testo di legge, sottolineava un punto che è decisivo per difendere la giurisdizione. Perché se la giurisdizione non si muove nel perimetro testuale, si fa carico di responsabilità che sono del legislatore e non di chi deve amministrare giustizia. Ecco perché la Corte costituzionale, in due occasioni negli ultimi cinque anni, ha detto che “l’ausilio interpretativo del giudice non è che un posterius incaricato a scrutare le eventuali zone d’ombra, quelle sole che il perimetro testuale consente”.
E ha detto lo stesso in quella sentenza recentissima, pur così gravata da istanze di tutela della vittima, la sentenza 98 del 2021. Ogni volta che ci si allontana dai principi costituzionali si sovraespone la giurisdizione, la giurisdizione sovraespone se stessa. Pensate a quanto oggi il problema interpretativo, visto che viviamo nell’età non della legge ma dell’interpretazione, ponga sollecitazioni in questa direzione.
Pensate quanto oggi siamo distanti da tanti altri principi costituzionali. Pensate al principio di umanità della pena. Noi abbiamo forse sovraccaricato per il magnetismo che esercita il finalismo rieducativo – la seconda parte dell’articolo 27 – e ci siamo dimenticati della prima parte: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Noi sentiamo parlare di castrazione chimica nella civilissima Europa delle carte dei diritti e nella civilissima Italia di Beccaria. Noi abbiamo dimenticato il problema del carcere, drammaticamente e dolorosamente ricordato dal numero dei suicidi.
Noi viviamo, purtroppo, in un contesto dove molti precetti costituzionali sono autenticamente sospesi. E questo sovraespone ancora di più la giurisdizione, perché i principi costituzionali non sono solo posti a tutela dell’indagato, ma anche a tutela del giudice. Perché se il giudice decide in quel perimetro rispetta le regole d’ingaggio che legittimano la giurisdizione, altrimenti no. E poi sarà chiamato a pagarne il conto.
Eugenio Albamonte
Oltre che essere un professore, sei anche un fine osservatore di tutte le dinamiche che girano intorno al processo e sei autore di un saggio molto apprezzato: Giustizia mediatica, edito da Il Mulino. Rispetto a questo temo oggi dobbiamo inserire un’ulteriore variante. A me sembra che attraverso l’introduzione della presunzione d’innocenza, si sia creato non un meccanismo che potesse sopire la mediatizzazione del processo, ma una sorta di sbilanciamento. Processo mediatico sì, ma parlino soltanto alcuni e non altri. Rispetto a quanto tu pure hai sottolineato, cioè al gigantismo della comunicazione della pubblica accusa, adesso la funzione di necessaria rendicontazione attraverso la notizia della vicenda giudiziaria viene meno anche nella fase di indagine. Non è soltanto il dover specificare volta per volta che sono esiti provvisori, ma si tratta proprio di una fortissima limitazione alla capacità comunicativa: solo comunicati stampa, solo conferenze stampa in un certo modo. Quindi da una parte un forte ridimensionamento della comunicazione, dall’altra parte nessun limite alla comunicazione che può fare un certo tipo di persona sottoposta a procedimento e il suo sistema di difesa, i suoi avvocati. Quando poi il soggetto che è sottoposto a procedimento è anche un soggetto politico, è anche un soggetto con una forte visibilità mediatica, è anche un soggetto editore di comunicazione – potrebbe capitare che sia il direttore di un giornale – allora mi sembra che ci sia uno sbilanciamento. Non abbiamo aggredito il processo mediatico, abbiamo semplicemente sbilanciato la comunicazione. Mi sbaglio?
Vittorio Manes
No, non è che ti sbagli. Il problema della giustizia mediatica è un problema, come ben sai, estremamente complesso. È un problema anzitutto culturale e come tutti i problemi culturali non si risolve con una legge. Perché non esiste una legge per far rispettare le leggi.
Penso però che una consapevolezza sullo stato delle cose ci debba essere, perché uno dei valori che oggi è suscettibile di massima vulnerabilità è il valore della reputazione. I beni giuridici non sono tutti uguali nel corso del tempo: i valori cambiano, cambia la loro vulnerabilità. Il bene della reputazione è davvero facilmente deperibile oggi, nell’epoca dei social, delle fake, dell’informazione selvaggia e anti-istituzionale. Quindi, io credo che la riproduzione mediatica della giustizia sui media crei davvero parecchi problemi. Altera tutta la macro fisica della giustizia penale e la micro fisica di un processo. E ancora una volta rappresenta un’ulteriore aggressione per la stessa giurisdizione.
Lo disse anche un vostro autorevole collega qualche anno fa e mi colpì anche il coraggio con cui espresse questo concetto: i media finiscono con espropriare la giurisdizione dalle mani dei giudici. Tanto che si sviluppa una giustizia parallela, che peraltro gode di vantaggi notevoli presso la pubblica opinione. Arriva prima ed è più efficace rispetto alla giustizia istituzionale, che deve seguire un iter molto lento, travagliato, complesso prima di arrivare a un esito.
E voi sapete bene che, quando poi questi due esiti divergono, il risultato in termini di credibilità della giustizia istituzionale è drammatico. L’opinione pubblica è il terminale della narrazione mediatica e, oggi come ieri, la folla assiepata davanti al Sinedrio grida sempre “crucifige”. E anche quando si parla di parti civili, bisogna avere contezza del fatto che le parti civili strutturalmente non chiedono giustizia, ma chiedono condanna, che è una cosa diversa. Tra mille altre, ce lo ricordano dolorosamente le vicende di Rigopiano.
Quando una determinata narrazione della vicenda giudiziaria subisce una forte influenza mediatica, il giudice non è più libero di decidere. Non abbiamo riscontri empirici di questo, ma il giudice si sente fatalmente chiamato a dire da che parte sta: se sta dalla parte della pubblica opinione che ha già condannato gli imputati o se sta dalla parte di imputati che la vox populi considera già colpevoli. E voi sapete ben meglio di me, che è molto delicato quando il giudice si debba sentire chiamato a prendere parte per uno o per l’altro dei contendenti.
Sulla trasposizione della direttiva sulla presunzione di innocenza rimane scoperta la parte terminale, che è anche difficile da regolamentare: quella di chi fa informazione. Servirebbe davvero un’ecologia dell’informazione giudiziaria, che parte dalla professionalità, che parte dalla deontologia, che parte, appunto, da una revisione culturale. In questo libro che ho scritto, proponevo non come antidoto – per carità – ma come profilassi, l’idea di un supporto con misure di incentivo pubblico ai giornali che sappiano fare buona informazione, rispettando cioè tutta una serie di diritti fondamentali tra i quali, anzitutto, la presunzione di innocenza.
Bisogna prendere atto che i valori in gioco sono fortemente vulnerabili, che la pena mediatica è una nuova forma di pena infamante e come tale inumana, perché è una pena sine iudicio. Bisogna cercare di trovare dei correttivi.
Eugenio Albamonte
Abbiamo tempo per un’ultima battuta sull’abuso di ufficio: uno dei temi che è stato ripreso più volte da diversi punti di vista, sia in termini assoluti, sia in termini di parametro di un’azione normativa, che a più di uno degli intervenuti è sembrata un po’ strabica. Da una parte, Conte ci ha detto che è stata riscritta e che ci sono i parametri sovranazionali; dall’altra, l’abbiamo presa un po’ come paragone di una sorta di bilanciamento forte nell’azione del nuovo governo nel campo del diritto penale. Da una parte si introducono fattispecie – ieri Provenzano parlava del ‘diritto dei briganti’ – che arricchiscono lo strumentario penale contro segmenti più comuni della popolazione: per dei ragazzi che fanno i graffiti, norma che viene introdotta quando buttarono un secchio di vernice su un palazzo delle istituzioni; oppure per i rave party. E nel frattempo si elimina un presidio di legalità che, guarda caso, riguarda un segmento della politica e dell’amministrazione.
Vittorio Manes
Ultimamente la riforma dell’abuso ufficio è diventato il desiderio proibito della politica. Come in tutte le vicende nella esperienza recente italiana, si forma una sorta di tifoseria da stadio, pro e contro.
Devo fare una premessa: ogni riforma di segno riduzionista in materia penale tendenzialmente mi trova favorevole per le ragioni che vi ho detto all’inizio, perché credo che uno dei principi maggiormente disabitati della Costituzione sia il principio di extrema ratio.
Seconda premessa: credo che nessuno più di me sia incline a raccogliere il grido di dolore dei sindaci in ordine a questo problema dell’abuso d’ufficio. Molti tra i casi più eclatanti che vengono citati li ho fatti io come avvocato. Il sindaco di Pistoia, che autorizzava nella festività pasquale a portare i coniglietti con le gabbiette di trasporto, lo difesi io.
Ho l’impressione che il dibattito sull’abuso d’ufficio sia condizionato o fuorviato da una sorta di aberratio ictus. Noi ci stiamo misurando con un problema che non è il problema, perché il problema sta prima e più in alto. Oggi non c’è norma più tassativa dell’abuso d’ufficio, se la misuriamo nel contesto dei reati contro la pubblica amministrazione, dove le esigenze di determinatezza e tassatività sono ben maggiori rispetto ad altre norme. Pensate alla corruzione dell’articolo 318, pensate anche al 319-quater. Alcune sono fattispecie catch all – direbbero gli americani – cioè una norma “prendi tutto”, con gravi problemi di selettività. L’abuso d’ufficio no. Dopo la riforma del ‘97, dopo la riforma del 2020, è una norma fortemente tassativa. Semmai, talvolta ne sono state date delle interpretazioni anti-tassativizzanti – questo è un primo problema – con iscrizioni troppo generose.
Però, dicevo, secondo me il problema sta altrove. Il discorso sulla riforma dell’abuso d’ufficio a me sembra il canto funebre sulla presunzione di innocenza. Nel senso che ormai ci siamo abituati culturalmente, e la politica prima di tutto, a un automatismo che lega il giudizio etico, ancor prima che politico, all’iscrizione nel registro degli indagati. Lo ha detto bene ieri il vicepresidente Pinelli: la politica deve riattribuirsi la valutazione morale sulle proprie condotte e non affidarla al registro degli indagati. Allora, questo dibattito sarebbe molto meno strumentalizzato, perché non è abrogando l’abuso d’ufficio che si ripristina un principio di fondo.
Provo a fare una proposta politica più forte. Eliminiamo quelle prassi interpretative ermeneutiche o anche quelle prassi valutative all’interno della stessa politica, che fanno scattare dalla semplice apertura di un procedimento penale tutta una serie di conseguenze incapacitanti. Vedremo che nessuno si lamenterà più dell’abuso di ufficio e delle sue eccedenze ermeneutiche. Abbiamo provato a farlo in seno alla Commissione Lattanzi. Ricordo perfettamente il dibattito in quella mattina di sabato ad un’ora molto tarda: alcuni di noi insistettero molto per introdurre – fu poi introdotta dalla riforma Cartabia – l’articolo 335-bis quando dice che “la mera sottoposizione a procedimento penale non può avere alcuna conseguenza sul piano extra penale”. Ricordo anche la replica che qualcuno mi mosse disse: c’è già l’articolo 27, comma due della Costituzione. E la controreplica, molto diffusa, fu: ma è assolutamente inattuato questo articolo della Costituzione. Quindi siamo dovuti arrivare a sovrascrivere la Costituzione con legge ordinaria. Se si recuperasse questo, che il principio più primordiale, e non si agganciasse una conseguenza incapacitante alla mera apertura di un fascicolo, io penso che il dibattito sull’abuso d’ufficio – aberratio ictus perché stai prendendo di mira un bersaglio che non è quello vero – non ci sarebbe più.
Penso che ogni problema complesso ha una soluzione semplice e – aveva ragione Umberto Eco – in genere è sbagliata. Non è con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio che noi risolveremo i problemi di equilibrio tra magistratura e politica.
Prima di chiudere voglio ringraziare Eugenio Albamonte per questi anni di conduzione della vostra segreteria, perché ho sempre riscontrato un equilibrio straordinario nelle posizioni che ha saputo prendere.
Come ultima battuta, il dibattito sull’abuso d’ufficio mi fa venire in mente quel proverbio spagnolo che dice “Cuidado con los deseos, porque a veces los deseos se hacen realidad” (attenzione con i desideri, perché a volte i desideri diventano realtà). Ma se noi abroghiamo l’abuso d’ufficio, quanti e quali altri controlli limitrofi poi subirebbero riespansioni indebite? È un rimedio davvero efficace o sarebbe un rimedio peggiore del male?
in attesa di approvazione dal relatore