Antonello Cosentino
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura
Un grande grazie alla sezione palermitana, che ha offerto a questo nostro congresso un’organizzazione veramente bellissima, accogliente, efficientissima.
Il titolo della tavola rotonda di ieri è stato “i diritti sotto attacco”. È un titolo che coglie due profili che obiettivamente caratterizzano la fase storica che stiamo attraversando.
Da un lato c’è un sensibile arretramento rispetto al livello di tutela dei diritti sociali che era stato raggiunto nella seconda metà del secolo scorso.
È l’effetto di processi sociali, appunto, e delle loro conseguenze politiche, che vanno in realtà oltre la dimensione nazionale e di cui non possiamo che prendere atto. Ricordo una battuta del miliardario americano Warren Buffett, che, intervistato dal New York Times nel 2006, disse “Certo che c’è la lotta di classe. Ma è la mia la classe, quella dei ricchi, che la sta conducendo e la sta vincendo”. E questo, in effetti, è ciò che è successo in tutto l’occidente.
In Italia c’è qualcosa di più.
Negli ultimi due o tre anni, c’è anche l’arretramento del processo di espansione dei diritti civili e di libertà che si era sviluppato nei precedenti dieci/quindici anni.
Sotto questo profilo è abbastanza significativo come nel dibattito pubblico e nella polemica politica sui temi eticamente sensibili (penso, tra gli altri, ai modelli di genitorialità o al tema del fine vita) siano stati recentemente rilanciati modelli di relazione familiare o di comportamento individuale che la seconda metà del Novecento sembrava aver superato. Su questi temi mi pare che gli ultimi due o tre anni abbiano segnato un qualche arretramento delle prospettive di tutela.
Sotto altro aspetto, dobbiamo registrare una crescente rincorsa alla pan-penalizzazione. L’idea del diritto penale minimo - sulla quale c’eravamo esercitati per decenni (basti pensare ai grandi dibattiti sulla depenalizzazione degli anni Settanta, culminati nella legge 689 del 1981) e che sembrava una conquista acquisita – pare abbandonata da un dibattito pubblico sempre più orientato dallo slogan order and law. Stiamo pericolosamente ritornando alla moltiplicazione delle fattispecie penali, all’inasprimento delle pene, ad una azione legislativa orientata a rispondere più alle esigenze securitarie dell’opinione pubblica che ad un razionale programma di politica criminale.
Il biglietto da visita in materia di giustizia dell’attuale Governo, del resto, è stato il decreto sui “rave party”, ma tutto - pensiamo alla gestione dei fenomeni migratori - sembra muoversi in questa direzione.
È innegabile che il tema del ruolo del diritto penale nella nostra società ci pone degli interrogativi e che tali interrogativi vanno affrontati alla luce del principio di uguaglianza; di eguaglianza sostanziale, intendo, perché sul principio di uguaglianza formale è sufficiente ricordare l’aforisma di Anatole France per cui “la legge, nella sua maestosa equità, proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, mendicare per le strade e rubare il pane”.
Noi dobbiamo porci oggi questo problema, che era ottocentesco, ma che sta tornando come un problema del XXI secolo; il problema del doppio binario del diritto (e del processo) penale, quello dei briganti e quello dei galantuomini.
Questo è un quadro generale che viene dall’ascolto della bellissima tavola rotonda di ieri.
Poi vi è un profilo che riguarda più direttamente noi, la magistratura e lo stesso sistema dell’autogoverno. Mi riferisco all’accelerazione dei processi che da circa un quarto di secolo – penso, per evocare un evento politicamente simbolico, alla Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema, ma se guardiamo il fenomeno in una prospettiva più latamente culturale dobbiamo risalire ancora di una decina d’anni, al settennato del Presidente Cossiga – tende modificare degli assetti istituzionali disegnati dalla Carta costituzionale e in particolare, nell’ambito di questi, il ruolo della giurisdizione e, in essa, della magistratura.
Colgo tre profili di questa accelerazione.
In primo luogo, era già indicato nella relazione di Eugenio Albamonte di ieri, il rilancio della discussione sulla portata dell’interpretazione delle norme. Non è assolutamente il caso di aprire qui, nemmeno solo di sfiorare, il dibattito teorico su questo tema. Ci sono grandi maestri che si sono contrapposti; per tutti, da una parte Paolo Grossi e Nicolò Lipari; dall’altra Natalino Irti e Massimo Luciani. Non è certamente questa la sede per affrontare il tema.
Però alcune cose vanno chiarite.
La polemica sulla giurisprudenza creativa è una polemica che non tiene conto della considerazione semplice, che deriva dalla lettura delle sentenze di legittimità, che la giurisprudenza non ha mai preteso di svolgere una funzione nomopoietica. La Cassazione ha ripetuto più e più volte che l’interprete non può assegnare a una disposizione un significato che non corrisponda ad uno dei possibili significati attribuibili al testo della disposizione stessa. Nonostante questo, che dovrebbe chiudere il discorso, assistiamo quotidianamente da parte del mondo politico e di alcuni settori dell’accademia, alla riproposizione dello stereotipo del giudice che si inventa le norme, del giudice che fa operazioni di diritto creativo. Sono polemiche che riecheggiano l’assunto di Raymond Carrè de Malberg che all’inizio del Novecento, diceva “Il giudice applica la legge, non la Costituzione”.
Tutta la storia costituzionale italiana dal 1948 è invece, appunto, la storia dell’applicazione della Costituzione da parte del giudice. Nel congresso dell’ANM di Gardone del ’65, la mozione finale – approvata all’unanimità – affermava che “il giudice deve essere consapevole della portata politico istituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”.
Il risvolto del principio costituzionale di soggezione del giudice soltanto alla legge è, appunto, il risvolto per cui il giudice è tenuto a interpretare la legge alla luce della Costituzione. Deve “vedere” la Costituzione oltre la legge. E illuminare la lettura della legge con la Costituzione.
Vedremo come si svilupperà questo dibattito. È un dibattito che attraversa tutta la società e attraversa naturalmente tutto il mondo della giurisdizione. È necessario un grande lavoro su questo. Un grande lavoro anche di autoconsapevolezza. È necessario che su questo tema sia presente anche la scuola di formazione della Scuola Superiore della Magistratura, perché è necessario che ci sia chiarezza su questo spartiacque valoriale.
Il secondo aspetto di quella accelerazione a cui facevo riferimento concerne la tendenziale verticalizzazione della magistratura a cui abbiamo assistito negli ultimi a partire dalla riforma del 2006, la riforma Castelli-Mastella. Verticalizzazione della magistratura che ha proceduto su un duplice binario: da un lato il rinforzamento dei poteri gestori dei dirigenti degli uffici. Questo l’abbiamo visto soprattutto nelle Procure. E soprattutto nelle Procure abbiamo visto come sul dirigente dell’ufficio si accentri un’attenzione, una visibilità mediatica, un interesse anche della politica, che obiettivamente non dovrebbe trovare giustificazione in un sistema ben ordinato, in cui il dirigente di un ufficio, anche di procura, abbia la funzione di coordinare dei colleghi che, al pari di lui, sono soggetti soltanto alla legge. Certo, mi rendo conto che anche questo prezioso avverbio, “soltanto”, oggi è tornato in discussione. C’è una proposta anche di modifica della Costituzione su questo. Io credo si debba avere ben chiaro che il “soltanto” vuol dire “soltanto” e deve restare dove sta.
Ma non c’è solo il problema delle relazioni e della distribuzione dei poteri all’interno degli uffici; c’è anche, forse soprattutto, il problema che una serie di meccanismi ordinamentali hanno gradualmente formato un’invisibile barriera, nel corpo dei magistrati, tra chi dirige e chi è diretto; hanno lentamente costruito una doppia carriera, quella dei magistrati semplici e quella dei magistrati comandanti. È un problema che Area dovrà affrontare con urgenza e con decisione: dobbiamo ritornare all’idea della distinzione dei magistrati soltanto per funzioni; quest'ultima è un’idea enunciata nella Carta costituzionale, predicata negli atti dei congressi associativi, ma sempre meno effettiva nella realtà della giurisdizione. Non so bene a cosa si può pensare. C’è un gruppo di studio che si è occupato del tema dei direttivi e sono molto interessato alle conclusioni che vorrà rassegnarci in questa sede congressuale. Ma certamente su questo tema, sulla dirigenza giudiziaria, è necessario tornare.
Bisogna pensare forse ad uno sfoltimento, forse a parziali meccanismi di tabellarizzazione. Bisogna uscire da questo schema dei due binari, insomma.
Ma certo la verticalizzazione è funzionale a un modello di governo della magistratura e, tramite questa, a un modello di governo della società.
E qui siamo al tema del Congresso: “La giurisdizione nell’età del maggioritarismo”. Ieri il professore Grosso ci spiegava che il maggioritario richiede semplificazione, richiede catene di comando semplificate. All’interno di queste catene di comando semplificate, evidentemente, si inscrive anche la magistratura.
Devo fare un cenno alla particolare posizione, in questo quadro, del CSM. Anche sul CSM si addensa un clima che è quello del ridimensionamento della sua dimensione costituzionale.
Si tratta di un’idea vecchia, che risale agli anni Settanta-Ottanta e che aveva manifestato il presidente Cossiga. Cioè, l’idea del CSM come “ufficio personale” della magistratura.
Ora questa idea si sta manifestando con forza attraverso segnali che impongono a tutta la magistratura un plus di attenzione.
Segnali che vanno da aspetti banali, quasi di bassa cucina, come l’organizzazione dei lavori consiliari (la quale, però, finisce con il ridurre la capacità dei consiglieri di dialogare con i colleghi nei territori in cui sono stati eletti), ad aspetti meno banali; come la timidezza che una parte del Consiglio dimostra nell’esercizio del potere di fare proposte e di dare pareri conferito all’Organo di autogoverno dall’articolo 10 della relativa legge istitutiva; come la pervasività che sta assumendo nel dibattito pubblico la stravagante idea della scelta per sorteggio dei magistrati componenti del CSM; come l’interruzione della tradizione secondo cui il ministro va a dialogare nella sede consiliare quando il Consiglio si insedia.
Sono tutti segnali che, visti atomisticamente, possono essere anche considerate accidentali, banali, irrilevanti. Ma messi insieme, unendo i puntini con una linea - come si faceva nei giochi della Settimana enigmistica di tanti anni fa - emerge un disegno. E il disegno, appunto, è quello del maggioritario.
È l’idea di una magistratura che, in qualche modo, sia compatibile con certi assetti, certe esigenze di equilibrio. Si potrebbe fare una riflessione su come il legislatore sia intervenuto negli ultimi vent’anni sui rapporti nel riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Si potrebbe fare una riflessione sul dibattito che è stato attivato dalla proposta di riforma costituzionale sull’istituzione dell’Alta Corte di giustizia, sulla sottrazione al CSM della potestà disciplinare sui magistrati, con quello che significa, in termini di relazione tra potestà disciplinare e costruzione del modello, del tipo di magistrato da parte dell'Organo di autogoverno.
Il quadro è questo. Ieri qualcuno diceva “si ha il diritto di avere le proprie idee ma non si ha il diritto di avere i propri fatti”. E i fatti, purtroppo, sono quelli che ho descritto sopra.
Cosa può fare la magistratura progressista? Io credo che, come diceva nella relazione il segretario Albamonte, può tenere acceso il lume. Ma, forse, tenere acceso il lume non basta, perché poi – sottolineava il professore Grosso – dai e dai, alla fine, se fai solo quello, il lume si spegne.
E allora, in primo luogo, la nostra responsabilità è di fare tutto quello che possiamo fare per dare ai cittadini una risposta di giustizia efficiente, nei limiti del possibile. Sappiamo che i limiti del possibile non dipendono, in larga parte, dalla magistratura e forse nemmeno dal Ministero della Giustizia. Dipendono da dati oggettivi della società italiana, relativi ai meccanismi sociali, economici e culturali di formazione del contenzioso giudiziario (penso, per fare un esempio, a come nei tribunali del Meridione il contenzioso previdenziale si è sviluppato abnormemente per poi tradursi in contenzioso per il risarcimento del danno da lesione del diritto alla ragionevole durata del processo; o, per fare un altro esempio, a quanto pesa il contenzioso tributario nelle sopravvenienze della Corte di cassazione). Il problema della efficienza e celerità dei processi investe, molto più di quanto non possa apparire, l’intera struttura sociale nazionale.
Però, certo, su questo terreno la magistratura deve fare la sua parte; deve fare tutto quello che può per dare una risposta alle domande di giustizia che provengono dalla società italiana, perché quella risposta è il nostro primo biglietto da visita con i cittadini, è la nostra prima attestazione di credibilità.
In secondo luogo, la magistratura deve aprire un dialogo effettivo con i pezzi di società interessati a far funzionare la giustizia. Prima fra tutti l’Avvocatura, con la quale noi come Area abbiamo avuto un rapporto sempre molto aperto. La mia opinione personale è che su questo terreno si debba fare uno sforzo apertura all'esterno. Si debba, cioè, evitare di chiudere la magistratura in una torre di avorio e, al contrario, farla promotrice di un fronte comune di riflessione e di proposta con quanti continuano a credere nella giustizia come difesa di coloro che non hanno altre difese.
rivista dal relatore