Maria Cristina Ornano
Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari
L’esecuzione penale versa nel nostro Paese in una situazione di crisi profonda che non riguarda solo il sistema penitenziario, ma investe per intero il settore.
I numeri sono più eloquenti di qualunque ragionamento.
Problema ormai strutturale è quello del sovraffollamento carcerario.
L’esame della serie storica della presenza negli istituti e i dati statistici aggiornati al luglio 2023 mostrano come i detenuti in carcere a quella data hanno raggiunto il numero di 57.749, ad agosto il numero è asceso a 58.428, a fronte di una capienza regolamentare calcolata secondo le indicazioni della CEDU a 51.206 posti.
La serie storica attesta come a partire dal 1992 la popolazione carceraria sia progressivamente aumentata, riducendosi a seguito dell’indulto, ma riprendendo poi inesorabilmente ed esponenzialmente a crescere fino a superare nel 2010 la soglia dei 65.000 reclusi.
Da allora il tasso di sovraffollamento si è abbassato grazie a interventi normativi “sfollacarcere”, ma tra il 2012 ed il 2022 il tasso medio di sovraffollamento è stato pari a circa 57.000 persone; preoccupa che da ultimo, il tasso abbassatosi di poco nei limiti della capienza regolamentare con l’emergenza COVID e i provvedimenti emergenziali che ne sono seguiti, abbia ripreso dal 2022 ad ascendere proseguendo in questa linea anche nel 2023. E’ prevedibile che a breve supereremo inesorabilmente il tetto delle 60.000 presenze, riproducendosi così dentro il carcere una situazione di disagio analoga a quella che nel 2013 aveva comportato la condanna dell’Italia in sede europea per trattamento inumano e degradante.
Cresce, quindi, il sovraffollamento carcerario. E questo è un problema molto serio, perché solo un carcere con numeri non elevati e di dimensione adeguate consente di dare effettività ai principi costituzionali in materia di pena e in particolare, al finalismo rieducativo della pena affermato dall’art. 27 Cost. con i suoi corollari : della sua umanizzazione e del minor sacrificio possibile, della personalità della pena e dell’individualizzazione del trattamento. Di converso, sovraffollamento non significa solo minor spazio pro capite disponibile, ma significa minore assistenza sanitaria, minore opportunità trattamentali e meno rieducazione e risocializzazione.
La riforma “Cartabia”, al di là degli slogan, non frenerà questo trend se non in modo marginale, perché non incide sulle cause di questo sovraffollamento che sono in parte riconducibili al disagio sociale ed economico sempre più diffuso, ad un welfare sempre più fragile e alla mancanza di sicurezza sociale, ma in parte è dovuto al regime dell’ostatività e degli automatismi; e, in ogni caso, questi effetti limitati, seppur vi saranno, si potranno apprezzare solo nel medio periodo.
Ma intanto il disagio in carcere cresce. Nel 2022 i suicidi in carcere sono stati 84, quest’anno sono già 54, con un elenco tragico che si aggiorna di settimana in settimana. I tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo registrano nell’ultimo decennio numeri sconvolgenti, perché sono parecchie migliaia, mentre tante, troppe persone muoiono in carcere di malattia e in solitudine (cfr. Eventi critici negli istituti penitenziari - Anni 1992-2022).
Quattro nel 2022 i suicidi tra gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita con modalità analoghe a quelle utilizzate dagli stessi detenuti che quella scelta drammatica hanno compiuto. A dimostrazione che il disagio nel carcere colpisce tutti coloro che vivono in esso, compresi chi dentro al carcere ci lavora quotidianamente.
Sul fronte dei liberi i numeri non sono meno sconvolgenti. In occasione di una rilevazione statistica promossa da Ministero nella decorsa Primavera e sui cui esiti il Ministro della Giustizia ha riferito alle camere, è risultato che in Italia sono oltre 90.000 i procedimenti pendenti in materia di richiesta di misura alternativa in attesa di definizione.
Vite sospese: perché quando la pena non è ancora espiata non è possibile avere il passaporto, è molto più difficile trovare lavoro e opportunità risocializzanti e si vive in una condizione di incertezza sul proprio futuro. Molte pene vengono poi espiate a distanza di molti anni; ma espiare una pena a 5 o 10 e più dal giudicato per fatti ancor più vecchi, toglie senso alla pena e porta con sé una ulteriore componente di afflittività, che mal si concilia con il finalismo rieducativo della pena.
V’è poi il tuttora irrisolto capitolo delle REMS – Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza – destinate a soggetti autori di fatti-reato riconosciuti incapaci di intendere e volere al momento del fatto per infermità di mente e ritenuti socialmente pericolosi. Sono circa 700 le perone in attesa di fare ingresso in REMS, persone socialmente pericolose che attendono di essere curate; di queste, con stime del tutto incerte ed approssimative, circa 50 sono tuttora recluse in carcere in attesa di entrare in queste strutture: una situazione di gravissima illegittimità perché non v’è alcun titolo che giustifichi il trattenimento in carcere e, tuttavia, ancora recluse perché socialmente pericolose; vi sono poi coloro i quali, destinatari della misura di sicurezza, sono in stato di libertà in attesa di fare ingresso in REMS: soggetti che di regola rifiutano il trattamento terapeutico e che sono socialmente pericolosi, anch’essi posti, spesso senza alcun controllo e monitoraggio, nel limbo di una lista d’attesa che può durare molti mesi, quando non anni.
Una situazione di grave illegalità che la stessa Corte Costituzionale ha fortemente stigmatizzato con la sentenza n. 22/2022 con la quale ha sostanzialmente messo in mora il Governo ed il Parlamento. La Corte ha chiaramente detto che l’intera disciplina è connotata da svariati profili di illegittimità costituzionale, ma ha ritenuto di non dichiararlo per evitare un vuoto normativo totale che sarebbe stato rimedio peggiore del male; ha però messo in mora i decisori politici, invitandoli ad intervenire con rapidità per rivedere integralmente l’intero settore, e a prevedere subito l’ampliamento del numero dei posti in REMS.
Neppure di fronte a questo autorevolissimo intervento Governo e Parlamento hanno fatto qualcosa, sicchè anche dopo la pronuncia della Corte la situazione non è mutata e si è ormai incancrenita, rovesciando addosso ai magistrati indebiti compiti di supplenza,
Noi magistrati veniamo spesso rimproverati di attribuirci compiti di supplenza : noi ne faremmo volentieri a meno, volentieri vorremmo trovare nei servizi e prima ancora nelle norme la soluzione ai problemi dei cittadini; ma quando queste soluzioni non ci sono dobbiamo fare siamo costretti a farci carico anche di problemi ed a trovare soluzioni che non ci competono, perché i diritti, la vita, la salute e la sicurezza, non possono attendere i tempi e i vuoti di una politica distratta, quando non indifferente.
A fronte di tutto questo, quali sono le risorse in campo?
Poche centinaia, davvero poche centinaia, sono i magistrati di Sorveglianza; il personale amministrativo dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza conosce scoperture gravissime, dato ancor più drammatico perché questo è un settore nel quale il Personale svolge l’istruttoria e senza di esso i procedimenti non camminano.
I Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza non hanno avuto assegnata alcuna risorsa dal PNRR: come gli uffici minorili, sono stati totalmente esclusi dall’Ufficio per il processo.
La digitalizzazione è all’anno zero: lavoriamo ancora con procedimenti esclusivamente cartacei, non esiste il fascicolo informatico del detenuto e del libero affidato, si fa fatica perfino ad acquisire le informazioni e i documenti che servono per l’istruttoria. Oggi il Ministro ha parlato di assunzioni in corso e di digitalizzazione ormai come una realtà anche degli uffici penali: noi però non abbiamo visto né personale, né digitalizzazione e informatizzazione.
E se qualcosa sul versante della innovazione tecnologica si sta facendo, nessuno ce lo ha comunicato. Sul fronte dei servizi la situazione è non meno drammatica: mancano i direttori delle carceri, al punto che per anni ci sono stati direttori che hanno dovuto gestire in contemporanea anche due e tre carceri. Solo quest’anno prenderanno servizi i direttori neo assunti, ma intanto i vuoti degli anni passati hanno prodotto i loro effetti negativi sull’organizzazione e la gestione degli istituti.
Inadeguati i numeri del personale addetto all’Area educativa del carcere, mentre del tutto insufficiente è il numero dei funzionari UEPE, investiti negli ultimi anni di sempre maggiori compiti: messa alla prova, giustizia riparativa, pene sostitutive, oltre ai tradizionali compiti previsti dall’ordinamento penitenziario per le misure alternative; le assunzioni annunciate non saranno sufficienti, specie a fronte dei pensionamenti degli ultimi anni, a garantire un servizio efficiente.
Note a tutti sono le gravi scoperture del Corpo di Polizia penitenziaria, chiamato a svolgere un compito delicatissimo che espone continuamente a situazioni stressanti e usuranti.
Sempre più scadente è la quantità e la qualità dell’assistenza sanitaria assicurata in carcere; il passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni ha segnato un complessivo peggioramento del servizio, con disparità di trattamento dei detenuti e con un’assistenza “a macchia di leopardo”.
In conclusione, c’è un tema di risorse, ma prima ancora di crisi del sistema dell’esecuzione penale, della sua capacità di realizzare i fini propri della pena, ad iniziare dal finalismo rieducativo indicato dall’art. 27 Costituzione.
Non è questa la sede per affrontare analisi ed articolare proposte, su cui pure il gruppo dell’esecuzione penale di AreaDG sta riflettendo, ma è legittimo dai magistrati italiani attendersi che il Ministro, in luogo di occuparsi di temi, come quello della separazione delle carriere e delle intercettazioni che in nulla migliorano la qualità del servizio e la sua efficienza, svolga i compiti che la Costituzione gli assegna, ossia provvedere in ordine ai servizi ed all’organizzazione della Giustizia.
Ci sono molti modi di sferrare un attacco ai diritti: si può fare con le azioni, ma c’è anche un altro modo, surretizio, ma non meno efficace, che è quello delle omissioni, quello di non fornire a chi, come la magistratura quei diritti è istituzionalmente chiamata a tutelare, quelle risorse e quegli strumenti indispensabili per assicurare ad essi contenuto ed effettività.