Tavola rotonda I diritti sotto attacco

Enrico Grosso
Professore di Diritto Costituzionale presso l’Università di Torino

Secondo intervento

Ringrazio molto gli organizzatori per avermi invitato. Le domande che mi sono state poste sono numerose e particolarmente gravose. Proverò a rispondere esaurientemente, nel tempo che mi è stato assegnato.

1. Sullo spirito generale delle proposte di riforma dell’organizzazione giudiziaria

Io non so che cosa pensi il ministro della giustizia in ordine all’atteggiamento che la politica dovrebbe avere nei confronti dei suoi interlocutori nel momento in cui mette mano a delicatissime riforme ordinamentali.
Quello che mi sembra chiaro, però, è che il clima complessivo entro cui questo dibattito si sta svolgendo non sia dei più sereni. Egle Pilla ha fatto cenno all’esistenza di un filo rosso tra le varie questioni di cui stiamo dibattendo oggi. Vi è sicuramente anche un filo rosso che lega strettamente la disciplina organizzativa dei poteri dello Stato – e per quello che qui interessa, della giurisdizione – e la garanzia complessiva dei principi costituzionali affermati nella prima parte della Costituzione. Queste due sfere stanno necessariamente insieme. Non si può prescindere dall’una, nel momento in cui si considera l’altra.

Le norme che disciplinano l’organizzazione del sistema giudiziario hanno in effetti molto a che fare con le garanzie contenute nella prima parte. C’è, tra le une e le altre, un rapporto diretto. Le norme costituzionali organizzative, e le norme legislative che a quei principi organizzativi danno attuazione, non servono alla magistratura, non hanno come principali destinatari i magistrati. Servono al complessivo funzionamento dei meccanismi costituzionali di garanzia dei diritti e di affermazione dei principi fondamentali, se tra le due sfere viene mantenuto un rapporto equilibrato e proficuo.

Mi sembra invece che il dibattito pubblico che si sta sviluppando sulle tematiche che toccano l’organizzazione giudiziaria vada in una direzione opposta.

Innanzitutto noto un piglio almeno apparentemente decisionista, una tendenza alla verticalizzazione. Culturalmente, anche al di là del premierato e delle riforme che più direttamente sono connesse alla forma di governo, l’idea è sempre quella della verticalizzazione, nonché della sbrigativa semplificazione di questioni complesse.
Noto poi un tono inutilmente polemico e punitivo nel modo in cui queste proposte sono presentate e giustificate. Come se ci fossero conti da regolare e non proposte da dibattere e condividere in serenità. Mi sembra inoltre, per le convinzioni che ho maturato sul senso profondo dei delicati meccanismi che sostengono il nostro ordinamento costituzionale, che vi sia una sostanziale incomprensione del ruolo che è assegnato al sistema delle norme organizzative in relazione a quelle che disciplinano la tavola dei principi. Le une e le altre sono strettamente funzionali alla valorizzazione e alla protezione del pluralismo politico e sociale, nella sua complessità e nella sua ricchezza. Il che mi pare sia proprio ciò che l’ideologia maggioritarista – è molto efficace, sotto questo profilo, il titolo che avete dato al vostro congresso – si propone di combattere e in qualche modo di mettere in discussione.

Mi pare infatti che le proposte in campo, soprattutto le proposte di revisione costituzionale del titolo quarto, lette tutte insieme, compongano un mosaico che mette in discussione proprio quell’equilibrato rapporto tra prima e seconda parte della Costituzione. Andiamo per punti.

2. Separazione delle carriere

Della separazione delle carriere si è già parlato moltissimo e non posso certo qui dilungarmi sulle ragioni per cui è veramente insensato ritenere che sia quello l’ostacolo alla garanzia della terzietà del giudice. Penso che questo assunto non sia plausibile e che la separazione – posto che sia la difesa della terzietà l’obiettivo ad essa davvero riconnesso – non costituisca il mezzo idoneo allo scopo perseguito.

La separazione delle funzioni c’è già, come sappiamo tutti: è stata ulteriormente accentuata a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 71 del 2022.  Il sostanziale divieto di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, se non una sola volta nel corso della carriera, a condizioni stringenti e con l’obbligo di un cambiamento di sede, appare aver già conseguito il fine della separazione di fatto delle carriere. Che bisogno c’è, quindi, di una nuova e ancor più stringente normativa, addirittura affidata alla fonte costituzionale?

La mia impressione è che vi sia un grave errore di prospettiva o un disegno preordinato diretto a colpire proprio la sfera dei diritti costituzionali di cui abbiamo parlato fino qui e la loro migliore garanzia, perché come dicevo nella Costituzione tutto si tiene, e l’organizzazione istituzionale (e pertanto le norme organizzative che ad essa presiedono) è funzionale alla piena ed effettiva garanzia dei diritti che la stessa Costituzione enuncia.

L’idea che pare sottintesa, davvero superficiale, è che il processo si riduca alla decisione del giudice, ossia al momento della pronuncia della sentenza, e che basti quindi garantire che la sentenza sia redatta da un soggetto terzo – il magistrato giudicante – perché si realizzi, per incanto, il giusto processo.

Quello che viene meno in questa prospettiva è il necessario rapporto di compenetrazione organica a fini di giustizia», come ha affermato la Corte costituzionale, la quale ha precisato che, mentre è ben possibile distinguere - già nell'attuale sistema costituzionale – la figura, i poteri e le stesse funzioni del giudice rispetto a quelle dei p.m., non appare invece opportuno non ricomprendere nel concetto di giurisdizione anche l'attività di esercizio dell'azione penale che la nostra Costituzione affida al p.m. (così la sentenza n. 96/1975). Proprio rispetto a tale attività vi è oggi un crescente problema – lo si diceva all’inizio della giornata – di indipendenza interna. È un attentato all’indipendenza del p.m. l’idea che non sia più lui il responsabile delle indagini; che non sia più lui a disporre della polizia giudiziaria dirigendone e controllandone l’attività. Anche questo è un tassello, una tessera, che va a modificare il disegno costituzionale complessivo. È infatti nel processo inteso come procedimento – e quindi, oltre che nel momento della decisione, anche e ancor prima in quello delle indagini, della raccolta delle prove, del contraddittorio tra le parti – che si realizza la giurisdizione, e si dà significato al principio del giusto processo.

E allora, mi chiedo, ma perché nella proposta di revisione costituzionale si prevede addirittura l’organizzazione di concorsi separati? È proprio l’unicità del concorso ad assicurare una comune cultura, una comune sensibilità giuridica per i giudici e i pubblici ministeri. A meno che non sia proprio questa comune sensibilità che si vuole colpire.

E per quanto si vogliano separare le carriere, io spero veramente che non si aspiri anche a dividere la conoscenza del diritto, la comprensione delle regole processuali, la comune idea di giustizia che deve essere fatta propria da tutti gli attori del processo. Forse allora dovremmo prendere insegnamento dalla Germania, dove è netta la separazione tra giudici e pubblici ministeri, ma è unico il percorso formativo per tutte le professioni legali, compresi gli avvocati.

Poi, come dovrebbero distinguersi i concorsi dei p.m. rispetto a quelli dei giudici? Sarebbe un paradosso, e quasi un’eterogenesi dei fini, se dovessimo concludere che nel caso del concorso dei p.m., vista la specificità del ruolo delle procure, si debba prestare più attenzione agli strumenti d’indagine mentre la cultura delle garanzie verrebbe assunta come fondamentale soltanto nei concorsi dei giudici. In tal caso, più che la separazione delle carriere, avremmo ottenuto lo scopo di formare – scusate, mi si passi l’espressione gergale – p.m. poliziotti e magari giudici totalmente inconsapevoli della realtà investigativa.

Nella relazione di accompagnamento della proposta di revisione costituzionale A.C. n. 23 (ma la problematica è menzionata indirettamente anche nelle altre) c’è un richiamo importante alla “cultura del limite”, e si ricorda la propensione del potere giudiziario ad esondare – com’è nella natura di ogni potere – mettendo a rischio le libertà e i diritti dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato. Io, da costituzionalista, sul tema della cultura del limite sono particolarmente sensibile. Certo, è vero che ogni potere tende naturalmente ad occupare spazi, ed è per questa ragione che ad esso devono essere posti limiti e contrappesi eteronomi. Ma quella cultura del limite, da riscoprire e rinsaldare, non può certo essere considerata un patrimonio esclusivo del giudice terzo. Ad essa devono essere formati tutti i magistrati. Il che costituisce un ottimo argomento per difendere la conservazione di un unico concorso, funzionale a valutare le capacità tecniche e la cultura garantista di chi – nelle sue diverse funzioni – esercita un potere che può andare oltre il limite e mettere a rischio i diritti e la libertà collettive.

3. Consiglio Superiore della Magistratura

Dalla lettura di talune proposte di revisione costituzionale in discussione in Parlamento si evince che si vorrebbero istituire due CSM. E perché? Dividendo gli organi di autogoverno rischiamo di creare, in realtà, una maggiore corporativizzazione dei diversi tipi di magistrati.

Quanto alla proposta di aumentare il numero dei componenti laici, mi sembra davvero che essa risponda esclusivamente alla logica di assoggettare il governo dell’organizzazione giudiziaria ad un controllo politico più stringente, con buona pace del principio dell’autogoverno. È assolutamente evidente che una riforma del genere produrrebbe un non auspicabile aumento della conflittualità tra magistratura e politica. Se a ciò si aggiunge che nella proposta di riforma costituzionale dell’art. 104 viene prevista addirittura l’eliminazione della presidenza del CSM in capo al Presidente da Repubblica, con la conseguente rinuncia al ruolo di alta mediazione e di saggio arbitraggio svolto notoriamente dal Capo dello Stato nelle situazioni di conflitto, l’assetto complessivamente preconizzato non potrà che accentuare ulteriormente una deprecabile contrapposizione tra politica e magistratura di cui davvero non abbiamo bisogno.

Secondo una proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario attualmente in discussione in Senato, l’intera componente togata del CSM verrebbe designata – abbandonando parzialmente il principio elettivo – con un meccanismo di sorteggio degli “eleggibili” (in numero multiplo ai componenti da designare), tra i quali i singoli magistrati eserciterebbero la loro scelta elettorale. Per il momento non ho riscontrato, in proposito, proposte di revisione costituzionale dello stesso art. 104. Personalmente ritengo che, a meno che non si intenda porre mano alla revisione di quest’ultimo, vi siano ragioni costituzionali di fondo che impediscono l’introduzione per legge del sorteggio. Il principio elettivo sottinteso dall’art. 104 (e salva, appunto, la modifica del medesimo) non può che ricomprendere, per ragioni sistematiche, entrambi gli aspetti – attivo e passivo – dell’elettorato. Quei componenti eletti «da tutti i magistrati» vanno infatti scelti «tra gli appartenenti alle varie categorie», il che sembra escludere che costoro possano essere limitati a pochi individui pre-selezionati dalla sorte attraverso artificiali meccanismi di “etero-riduzione”. Sarebbe in altre parole incostituzionale privare totalmente (come sembra fare il disegno di legge attualmente in discussione) il singolo magistrato appartenente ad una determinata “categoria” del diritto individuale a proporsi come componente dell’organo di autogoverno. Inoltre, l’abolizione pura e semplice dell’elettorato passivo finisce inevitabilmente per riverberare i propri effetti sullo stesso diritto di elettorato attivo, costituzionalmente garantito, in quanto costringe l’elettore a una scelta condizionata e “forzata” tra colleghi che non si sono liberamente proposti, facendo venire completamente meno ogni effettivo rapporto “rappresentativo” tra l’eletto e l’elettore. In definitiva, concordo con i molti colleghi che hanno più volte sottolineato come la pura e semplice abolizione tout-court dell’elettorato passivo in quanto tale si collocherebbe in evidente contrasto con la lettera e con lo spirito dell’art. 104 della Costituzione. So peraltro che tale opinione non è unanimemente condivisa (neppure da alcuni magistrati).

Vi è però un’ulteriore ragione, indipendente dall’interpretazione delle norme costituzionali, che mi fa essere molto perplesso in ordine a tale proposta. Il vero problema riguarda la funzione che, tramite tale tipo di scelta, viene ascritta all’organo di autogoverno. L’idea che a farne parte possano essere, indifferentemente, tutti i magistrati italiani (tranne coloro che volontariamente decidano di rifiutare di essere inseriti nell’elenco, come previsto dal meccanismo introdotto all’art. 3 del disegno di legge in esame), indipendentemente dall’esperienza maturata, dal ruolo ricoperto, dal luogo in cui hanno operato, è figlia di una visione puramente burocratica del Csm. L’ordine giudiziario non è affatto un corpo burocratico come tanti, né la Costituzione lo presuppone come tale. Di conseguenza, non è immaginabile (oltre a non apparirmi auspicabile) che il suo organo di autogoverno si trasformi all’improvviso, per effetto di un nuovo sistema elettorale, nel mero organo amministrativo chiamato a gestirne (in forme neutrali e burocratiche) l’organizzazione. Il Csm, a sua volta, non è affatto un organo amministrativo, neppure di “alta amministrazione”, come taluno continua erroneamente a pensare. Nonostante l’iniziale incertezza interpretativa in cui era stato lasciato dai Costituenti, che non ne avevano prefigurato nitidamente scopi e struttura organizzativa, esso si è irreversibilmente strutturato, per effetto delle trasformazioni che si sono prodotte nella società e nelle istituzioni, come organo di alto rilievo costituzionale, cui la Costituzione assegna il delicatissimo compito di contribuire a produrre le forme e le condizioni della separazione dei poteri, ossia del complesso equilibrio tra la sovranità della politica e l’autonomia della giurisdizione nel contesto costituzionale pluralistico.

Tale autonomia è intesa quindi, essenzialmente, proprio come autonomia dal potere (politico), e si manifesta nella pretesa costituzionale che tutte le scelte più significative riguardanti lo status giuridico e la carriera dei magistrati siano operate all’interno di un organo che sia fisicamente lontano da quest’ultimo e che tale lontananza quotidianamente dimostri e manifesti (anche e soprattutto – è bene sottolinearlo – nella sua componente laica).

Il sorteggio annichilisce l’organo, presuppone un organo asseritamente “neutrale” che in realtà non esiste più e non può esistere nel contesto costituzionale in cui si manifestano gli equilibri tra i poteri dello Stato. Infine, il sorteggio, lungi dal combattere il correntismo, rischierebbe addirittura di accentuarne ed esaltarne i tratti più odiosi. Non vi è infatti alcuna garanzia circa il fatto che i fortunati, selezionati dalla sorte e successivamente eletti, non interpretino l’assunzione della carica come l’unica “occasione” che sia data loro, nella vita, per garantirsi quei vantaggi e prebende personali di carriera cui mai, altrimenti, si sarebbero sognati di poter ambire. E comincino a comportarsi di conseguenza, consci che non avranno mai più un’altra opportunità e mossi dalla sindrome dell’ “ora o mai più”, alimentando ulteriormente quel sistema opaco di scambi e favori fondato su promesse di protezione o di futuri benefici di carriera, o sulla creazione di ulteriori relazioni politiche o amicali, e così via.

4. Obbligatorietà dell’azione penale

Una proposta di revisione costituzionale prevede poi espressamente di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale, ad essa sostituendo la previsione di una riserva di legge in materia. Già oggi, come noto, esiste un complesso meccanismo di selezione delle priorità, che qualcuno tra l’altro ha criticato, ma che in qualche modo assume un atteggiamento realistico, di fronte ai notissimi limiti di effettività di cui notoriamente soffre il principio costituzionale sancito all’art. 112. Quei criteri di priorità, tuttavia, sono oggi quanto meno sottoposti a una disciplina complessa e bilanciata. Una disciplina che serve a garantire che non venga meno il nucleo duro del principio di obbligatorietà, che serve a garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. La legge Cartabia affida oggi al Parlamento il compito di procedere ad indicare una griglia di criteri generali nel cui ambito le procure devono a loro volta individuare criteri trasparenti e predeterminati, che consentano di trattare prioritariamente alcune tipologie di notizie di reato. Quei criteri generali sono specificati e resi concreti nei progetti organizzativi delle singole procure, che vengono predisposti dopo il confronto con gli uffici giudiziari, nonché con il consiglio dell’ordine degli avvocati, per poi essere approvate dal Consiglio giudiziario e dal Consiglio superiore. Vi è, in altre parole, un sistema complesso che prevede il coinvolgimento a rete di una pluralità di soggetti istituzionali, e nell’ambito del quale la stessa magistratura (oltre all’avvocatura) è attivamente coinvolta a diversi livelli. A tutto questo che cosa si vuole contrapporre? Una brutale semplificazione: la riserva di legge. Sarà il Parlamento a decidere da solo le priorità.

A me sembra che tale scelta sostituisca semplicisticamente il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale con quello della pura e semplice discrezionalità legislativa, che affida la scelta sui reati da perseguire prioritariamente alla transeunte volontà delle maggioranze politiche che si susseguono al governo, le quali di volta in volta sarebbero libere di inserire nella lista  i reati cui siano più sensibili le rispettive constituency politiche ed elettorali. Con effetti pericolosissimi, indipendentemente da chi sia pro tempore al governo. In entrambi i casi sarebbe una violazione, ripeto, non soltanto del principio in sé dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma di tutti gli equilibri che la prima parte della Costituzione garantisce.

5. In conclusione

Mi sembra, se vogliamo individuare un filo conduttore nelle varie proposte di riforma in campo, che esse convergano nella rappresentazione di un’idea del giudice e della giurisdizione che non sono quelli presupposti dalla Costituzione, che non sono cioè funzionali a supportarne “organizzativamente” i principi fondamentali.

Provo a spiegarmi. La costituzionalizzazione del pluralismo sociale (e financo del conflitto sociale), operata dalle Costituzioni del secondo Novecento, comporta anche, inevitabilmente, una profonda trasformazione della giurisdizione. Il modello di società che la Costituzione accredita, in cui gruppi di individui portatori di opinioni, di interessi, di valori, di chiavi di interpretazione della realtà, tra loro legittimamente differenziati, sono chiamati a convivere in un quadro essenzialmente relativistico, nell’ambito del quale alla Costituzione è assegnato il compito di disegnare le condizioni della convivenza e all’ordinamento giuridico è a sua volta ascritta la funzione di rispecchiare il medesimo orizzonte pluralistico, non può non condizionare anche l’esercizio della funzione giurisdizionale. Alla giurisdizione non si attagliano più le caratteristiche strutturali che impregnavano il modello burocratico-verticistico della magistratura tradizionalmente accreditato nello Stato liberale. L’ordine giudiziario era allora concepito come un ramo – strutturalmente simile agli altri – dell’amministrazione civile (e militare) dello Stato, nel quale il singolo magistrato ricopriva il ruolo del funzionario burocraticamente collocato in una struttura piramidale e sostanzialmente autocratica, de-responsabilizzato, eterodiretto. L’ordinamento costituzionale non pretende e neppure tollera il giudice “macchina”, il giudice “burocrate”, il giudice “cieco applicatore” di una legge astratta. Il giudice che la Costituzione presuppone è un giudice ben calato nella realtà sociale, a sua volta pluralistica. Nello Stato costituzionale la politicità, nel senso alto e nobile della pacifica compresenza di diverse opzioni ideali, valoriali, culturali, è un dato ineliminabile e fecondo che inevitabilmente attraversa tutte le istituzioni e investe necessariamente lo stesso potere giudiziario, il quale contribuisce ad alimentare e arricchire il dibattito pubblico e, in definitiva, il progresso complessivo della società.

Il sistema di organizzazione della magistratura disegnato dalla Costituzione è insomma coerente con il modello di società dalla stessa presupposto. Poiché in questo sistema il giudice non è più il mero applicatore della legge, lo stesso principio della “soggezione alla legge” non può più essere inteso come mera funzione di meccanica applicazione del precetto normativo. L’entrata in vigore della Costituzione riconosce infatti al giudice, anche al di là delle affermazioni esplicite, una posizione essenziale per la realizzazione dei principi costituzionali e per la tutela dei diritti fondamentali, il che ne modifica strutturalmente il ruolo. Il giudice che applica la Costituzione non è il giudice che applica la legge. Non lo è il giudice che, ritenendo la legge incostituzionale, promuove innanzi alla Corte costituzionale la relativa questione. Ma non lo è neppure il giudice che, adattandosi progressivamente al nuovo contesto che il “diritto per principi” di ordine costituzionale presuppone, si appropria della Costituzione e ne riconosce la diretta applicabilità.

Al giudice la Costituzione richiede di interpretare, in modo costituzionalmente orientato, la legge che deve applicare, in un contesto caratterizzato tuttavia da un “pluralismo dei principi” oggetto di continui processi di composizione, reciproco adattamento e bilanciamento, rispetto ai quali tale attività di interpretazione fa sempre più fatica a manifestarsi in forma univoca. Se non esiste più una e una sola interpretazione “conforme al diritto”, non esiste più una e una sola strada segnata per l’attività giudiziaria. E il modello gerarchico-verticistico su cui si fondava l’organizzazione dell’ordine giudiziario va inevitabilmente in crisi. Quel modello era funzionale allo Stato legislativo, non può adattarsi allo Stato costituzionale.

Ho l’impressione che sia proprio questo tessuto pluralistico, ciò di cui oggi la maggioranza politica che propone queste riforme ha timore, nella sua ossessione alla verticalizzazione del potere, di tutti i poteri, pure di quello giudiziario. Quelle misure spesso un po’ confuse, pasticciate e magari incoerenti tendono istintivamente e con qualche approssimazione a riportare la giurisdizione verso un modello che guarda, o meglio ammicca, al passato di un “diritto legislativo” che oggi non c’è più, perché la Costituzione non lo presuppone e non lo supporta. Se il giudice è chiamato ad affermare nella società i principi dello Stato costituzionale, in un contesto in cui tra gli stessi principi esiste un equilibrio relativo, instabile e pluralistico, che i giudici (in rapporto con la Corte costituzionale, e poi oggi anche con le Corti sovranazionali) sono chiamati a “mediare”, è inevitabile che il pluralismo sociale finisca per trasmettersi al corpo giudiziario e per trasformarne il modello organizzativo: da corpo burocratico, insomma, a corpo “associativo” che scommette sull’autonomia e anche sulla auto-organizzazione.

Forse questa trasformazione fa paura. Ma è una trasformazione irreversibile. O meglio, è reversibile soltanto al prezzo di sacrificare l’intero patrimonio di cultura costituzionale che si è accumulato nella storia della repubblica. È questo che vogliamo?

Secondo intervento

Non so se l’insieme delle azioni politiche intraprese nel primo anno della XIX Legislatura sia riconducibile a un disegno preordinato e perfettamente razionale o, come forse è più plausibile, costituisca il precipitato di pulsioni culturali un po’ disordinate, che però pretendono in questo momento di avere forza, perché politicamente è stato dato loro spazio a seguito di una prova elettorale.
Vedo, però, un enorme rischio. E avendo ascoltato tutti gli interessantissimi interventi a questo tavolo, provo a enunciarlo.

Oggi abbiamo a lungo parlato di decisioni politiche o proposte politiche che sotto vari profili mettono in discussione o sotto attacco la tutela di importanti diritti costituzionalmente garantiti e lo stesso principio di uguaglianza.
Secondo me, il problema di fondo è che spesso quelle decisioni politiche o quelle proposte politiche disordinatamente messe in campo pretendono di rispecchiare, e sembrano in qualche modo rispecchiare, una forma di volontà popolare, che è sempre più difficile riuscire ad arginare con il solo argomento che si tratta di proposte costituzionalmente illegittime, o con l'invocazione del ricorso al giudice chiamato a riparare alle storture o agli obbrobri normativi.
La dico brutalmente: lo Stato costituzionale di diritto è forte. Ma non è talmente forte da poter fare a meno dei processi di integrazione politica che si sviluppano nella società, pretendendo di poggiare interamente le sue forze solo sulla giurisdizione. Il giudice che, facendo applicazione dei poteri che gli sono riconosciuti e degli strumenti giuridici che ancora fortunatamente possiede, brandisca la Costituzione per colmare lacune legislative o privare di effetti decisione pubbliche in nome della tutela dell'uguaglianza o dei diritti, rischia di esercitare un faticoso e sempre più residuale ruolo di supplenza, che alla lunga non può reggere.

Alla giurisdizione, in altre parole, non può essere permanentemente affidato questo improprio incarico, pur lodevolmente assunto, di resistenza culturale. Non è il suo compito, e comunque nessun giudice potrà alla lunga contrastare il montare di un’eventuale ostilità popolare sorda e diffusa al riconoscimento di quei diritti come effettiva base e cemento del legame sociale.

Mi dispiace che non sia più in sala il presidente Pinelli. Gli avrei detto: io non vedo, tranne poche e isolate eccezioni, un magistrato che pretenda di ergersi ad autorità morale, proprio per niente. Io vedo, al contrario, tanti magistrati che si ergono – e magari preferirebbero volentieri farne a meno – a custodi della Costituzione. Sono costretti a svolgere questo ruolo perché c'è chi ad esso ha abdicato. È questo il vero problema. Molti diritti fondamentali, proprio nella nostra civiltà che da più di due secoli si specchia e si autocompiace tra Dichiarazioni sempre più Universali, continuano a subire sistematiche negazioni in concreto, in conseguenza dell’adozione di leggi e atti amministrativi approvati e talvolta richiesti e acclamati dagli stessi consociati. Tale stato di cose non mi pare essere adeguatamente contrastato da chi – il sistema della rappresentanza politica – in prima battuta dovrebbe presidiare all’attuazione della Costituzione, il quale anzi, spesso, sembra assecondare questo sistematico smantellamento del sistema dei diritti fondamentali faticosamente costruito nel corso del Novecento, in nome – nientemeno – che della “sovranità popolare”. Come se quei principi, che continuiamo a proclamare (e sottintendere) come condivisi, fossero ormai in realtà oggetto di aperta contestazione e messa in discussione. Di fronte a ciò, quale argine, e fino a quando, potrà essere frapposto dai giudici?

La questione, al di là delle singole posizioni di merito, coinvolge un fondamentale snodo teorico del diritto costituzionale contemporaneo. I diritti fondamentali, per usare un argomento caro a Luigi Ferrajoli, servono essenzialmente a proteggere il più debole, colui che si trova in minoranza, colui che non è tutelato dal “numero” e cioè (oggi) dalla regola della rappresentanza politica, laddove il forte trova sempre il modo di tutelarsi da sé, anche in assenza di norme. Si aggiunga che il debole in questione va tutelato anche contro la sua volontà, o contro la volontà del gruppo sociale o culturale cui appartiene (si pensi alle regole costituzionali sulla protezione dell’individuo nel contesto famigliare, della donna contro il marito o il padre, del minore contro i genitori, che valgono proprio contro la volontà spesso manifestata all’interno del gruppo).

Tutto ciò coinvolge evidentemente con prepotenza il rapporto tra politica e giurisdizione. È infatti la giurisdizione (a partire da quella costituzionale) lo strumento cui è stato storicamente e tradizionalmente affidato il compito di tutelare il debole, l’oppresso, il discriminato, dalle maggioranze (politiche, sociali, culturali …) protagoniste di pratiche sopraffattrici, oppressive, discriminatorie. Ma la giurisdizione in tanto può esercitare tale ruolo in quanto sia mantenuta, e sopravviva nel tempo, la “consuetudine di riconoscimento” che le affida il compito di ripristinare l’ordine giuridico violato, quand’anche fosse violato mediante l’esercizio della sovranità popolare

Ma se le due linee di azione cominciano a divaricarsi inconciliabilmente, se in altre parole all’azione politica il “popolo” comincia a chiedere proprio ciò che la giurisdizione è chiamata (dalla Costituzione) ad impedire, l’equilibrio tra i poteri rischia di saltare, e l’intero edificio su cui si regge la teoria dei diritti fondamentali è minacciato di implosione. A meno che non siano gli stessi attori politici, i rappresentanti della c.d. “volontà popolare”, ad assumere su di sé, sistematicamente, una precisa responsabilità sul piano culturale, educativo, financo pedagogico, in nome della Costituzione e della sua effettività.

Insomma: È la politica il luogo privilegiato dal quale attendersi risposte di fronte alla constatazione di una crescente tendenza alla negazione dei diritti all’interno della società? Ovvero, al contrario, la loro tutela è essenzialmente – e può realisticamente restare – nelle mani dei giudici, i quali continueranno ad essere in grado di garantirne l’effettività anche e soprattutto contro la politica, dal momento che la giurisdizione (in primo luogo quella costituzionale) è nata proprio per intervenire, in nome della Costituzione, per arginare la naturale tendenza del potere a far prevalere la propria logica su quella dei diritti?

Se dovessimo concludere che la giurisdizione costituisce, oggi, il solo possibile argine alle sistematiche violazioni del principio di uguaglianza e dei diritti di libertà, richieste ed attuate in nome di quella stessa sovranità popolare proclamata dalla Costituzione, assisteremmo alla sconfitta storica della politica nello Stato pluralista. Si tratterebbe, in poche parole, di una vera e propria disfatta dell’utopia democratica novecentesca. L’idea era che, coltivando la partecipazione di tutte le diverse articolazioni della società all’assunzione delle decisioni pubbliche fondamentali, si sarebbe creato “spontaneamente” – all’interno del quadro costituzionale di riferimento rappresentante il compromesso più avanzato tra le diverse rivendicazioni sociali sollecitate dai singoli gruppi – il contesto adatto ad una più alta protezione dei diritti individuali e collettivi.

L’età della rivendicazione dei diritti è stata, in larga misura, l’età della rivendicazione di una più avanzata partecipazione alla cosa pubblica di tutte le articolazioni della società (una volta si sarebbe detto: “delle masse”). È finito quel tempo, quando constatiamo che proprio in nome di quella partecipazione si arriva talora a negare tali pretese di universalizzazione.

È curioso che oggi la prospettiva si sia completamente rovesciata e alla giurisdizione si chieda di reagire – in nome della Costituzione – a una pretesa opposta. È la giurisdizione ad aver in tal modo assunto (impropriamente) un ruolo trainante che forse avrebbe dovuto esserle risparmiato.

Ecco, allora, mi permetto di concludere così: il problema di fondo è quello di ricostruire una possibile saldatura tra i due poli. Voi magistrati continuate a risolvere singole controversie, a dare risposte a singoli casi concreti, ad attuare la Costituzione nella quotidianità. Ma si torni, per favore, a mettere al centro e, in primo luogo sul piano culturale, la questione degli strumenti collettivi dell’emancipazione mediante i diritti. Cioè degli strumenti attraverso i quali una società è in grado di continuare a mantenere e anche a trasformare politicamente se stessa. Il grande equivoco, secondo me oggi, non è rappresentato dal ruolo di supplenza egregiamente esercitato dalla giurisdizione, ma dall’abdicazione – io mi permetto di dire dalla diserzione sul campo – della politica, o almeno da una parte di essa, che però in questo momento pretende di esercitare una egemonia anche culturale, la quale sembra talvolta volersi autoescludere da questo compito fondamentale.

Non vorrei che alla fine dovessimo concludere che è proprio la consuetudine di riconoscimento che legittima da settantacinque anni la nostra Costituzione a rischiare di venire meno. Per favore evitiamo che questo avvenga perché la Costituzione è un patrimonio di tutti, che ogni generazione ha il compito di preservare e consegnare intatta alla generazione successiva.

Trascrizione a cura della redazione,
rivista dal relatore

Gli altri interventi

Saluti

Relazione introduttiva

Tavola rotonda:
I diritti sotto attacco

Dibattito congressuale