Intervento

Elly Schlein
Deputata, Segretaria del Partito Democratico

Vi ringrazio di questo invito e vorrei evidenziare che siamo qui soprattutto per ascoltare con grande rispetto gli interventi che si stanno susseguendo. Con rispetto e nella distinzione anche dei nostri ruoli, ma con tanta attenzione, perché a voi, lo sapete, è affidato dalla Costituzione un compito cruciale che è la tutela dei diritti attraverso proprio l’applicazione della legge. E senza diritti non c’è dignità della persona, senza diritti non c’è eguaglianza e non c’è, quindi, l’essenza stessa della nostra democrazia. E senza una giurisdizione che sia la sede della tutela di quei diritti, quegli stessi diritti spariscono, si affievoliscono, restano sulla carta, diventano inesigibili.

Ma l’impegno ai quali siete chiamati in questi anni si è espanso costantemente per i continui cambiamenti sociali che attraversano le nostre comunità, l’attraversano con una velocità di cui spesso la politica non riesce a tenere il passo.

Ecco, questo ha aumentato la domanda di giustizia, ma anche la complessità del lavoro che svolgete ogni giorno, allargando gli ambiti di intervento che vi interpellano. E alla fine tanti di questi cambiamenti, di queste trasformazioni sociali, tecnologiche e ambientali sono arrivate prima sul vostro tavolo che su quello parlamentare. E non si può scindere, proprio per questo, la funzione applicativa della legge da quella interpretativa. Bisogna riuscire a stare al passo di questioni eticamente sensibili. Interrogativi inediti, aperti dalle nuove tecnologie che poc’anzi venivano citate, dalle problematiche ambientali alla tutela del risparmio dalla salute all’economia. Ecco, dovete misurarvi frequentemente con molti temi sui quali la politica è stata in ritardo nel dare risposte. Sui quali ancora non abbiamo adeguatamente legiferato. Ecco perché è indispensabile che qualunque percorso di riforma in materia di giustizia sia il frutto del confronto costruttivo con tutte e tutti coloro che lavorano quotidianamente per farla funzionare.

L’ascolto e il confronto con voi e con tutte le altre categorie coinvolte – con il personale anche amministrativo, con gli avvocati, tutti gli operatori del settore – deve rappresentare la bussola, la condizione irrinunciabile per qualunque progetto riformatore che parta dall’analisi della realtà.

Ora, come ben sapete il ministro Nordio ha più volte preannunciato un cantiere di riforme organiche, dichiarando di voler mettere mano al codice penale, a quello di procedura e perfino alla Costituzione.

Alle parole, però, non sono seguiti i fatti e, vedendo l’approccio di questa maggioranza, verrebbe da dire ‘per fortuna’. Al momento, più che interventi di sistema abbiamo assistito a spot, a decisioni frammentarie e dannose, di corto respiro, sull’onda spesso dell’emozione del momento. Provvedimenti bandiera per mere ragioni propagandistiche, moltiplicando nuovi reati o inasprendo le pene, apparentemente senza una visione complessiva, senza alcuna organicità e senza alcun afflato ideale che giustifichi gli interventi stessi.

Dopo un anno di governo Meloni, però, qualcosa emerge con chiarezza ed è già stato ben evidenziato dagli interventi che mi hanno preceduta: la persistenza di un atteggiamento di fondo, di una postura animata da due pulsioni.

Da un lato un approccio muscolare e aggressivo verso la magistratura, sintomo che tradisce la tentazione limitarne gli spazi di azione, di autonomia e indipendenza. Questa maggioranza mostra insofferenza verso tutto ciò che non controlla. Vale per la magistratura, vale per l’opposizione, vale per la cultura, vale per l’informazione. Non possiamo dimenticare quella nota firmata “Fonti”, che ha voluto alimentare uno scontro istituzionale dicendo che la magistratura stava facendo l’opposizione. Ma lo scontro istituzionale indebolisce la democrazia, indebolisce quindi tutto il Paese. E lo fa attraverso una delegittimazione di ciò che, invece, dovrebbe ogni giorno sostenere le cittadine e i cittadini, nell’affrontare la complessità delle nuove sfide, nel saper distingue ciò che è giusto da ciò che non lo è.

Ho apprezzato la nettezza con cui il segretario Eugenio Albamonte ha parlato di un tentativo di ridimensionamento del ruolo della giurisdizione. Il retropensiero, nemmeno troppo nascosto, a dire il vero, è che il ruolo del magistrato debba essere solo quello di mero esecutore burocratico. Una visione che contrasta direttamente con lo spirito della Costituzione e degli articoli a questo dedicati. La Costituzione resta per il Partito Democratico, invece, la stella polare di ogni intervento.

Così come ho apprezzato molto il passaggio della relazione del segretario Albamonte sul revisionismo giudiziario, su alcune questioni che mi stanno particolarmente a cuore, anche per ragioni personali, come quella che ha riguardato la strage di Bologna. Il Pd non accetterà tentativi di riscrivere la storia. Chi tra voi ha conosciuto lo sforzo che ha portato a quelle migliaia di pagine di sentenze, l’enorme lavoro fatto dalla Procura di Bologna, la fatica dell’Associazione dei familiari delle vittime, sa che non è possibile a nessun livello istituzionale – ma anche giornalistico e culturale – mettere in discussione ciò che emerge da quelle pagine. E cioè che fu una strage fascista, di matrice fascista, perpetrata da organizzazioni neofasciste con un chiaro intento eversivo, facilitato da apparati deviati dello Stato.

E credo che nessuno che occupa posizioni nelle istituzioni possa permettersi di negare evidenze che sono emerse in modo così chiaro da quel profondo lavoro.

Dicevo, appunto, che non accetteremo tentativi di riscrivere la storia. Ma non accetteremo neanche quel fastidio davanti alle critiche puntuali al cosiddetto “decreto Cutro” che io mi rifiuto di chiamare Cutro, perché penso ci voglia più rispetto per quei morti e preferisco chiamarlo “decreto Meloni”, anche per alcune analogie con con azioni precedenti.

La seconda pulsione è una torsione securitaria di questo governo, su tutto, sostanzialmente. Insiste sulla repressione su tutto e per nulla sulla prevenzione.

Ecco, questo ci aiuta proprio a inquadrare il nodo che voi avete messo come titolo del convegno del Congresso, cioè il ruolo della giurisdizione nell’epoca del maggioritario. Beh, una cosa deve essere chiara il consenso non produce automaticamente verità. Questo bisogna ribadirlo con forza, oggi in Italia, come nel resto d’Europa. Anzi, forse si può dire che la qualità della democrazia la definisci proprio negli strumenti che vengono fatti valere per la tutela dei diritti delle minoranze.

L’abbiamo visto con il “decreto rave”, che rischiava di impedire anche un raduno di scout molto pacifico. Con il “decreto Caivano” che apre le porte del carcere ai quattordicenni, con le misure sull’immigrazione che vogliono comprimere il diritto d’asilo, come già accaduto in alcuni Paesi europei che si definiscono democrazie illiberali (un controsenso).

Quindi, una giustizia sbilanciata, forte con i deboli e debole coi forti. Si invoca il pugno di ferro verso le persone e i reati comuni e ancor più verso gli ultimi, i poveri, gli emarginati, verso chi vive condizioni di vulnerabilità e fragilità. Invece, si è lassisti e permissivi verso, ad esempio, i reati dei cosiddetti colletti bianchi. In particolare contro la pubblica amministrazione, anche attraverso pratiche corruttive e distorsive in materia di appalti, come è stato citato nella bella relazione che mi ha preceduto.

Evocano, invece, condoni: so che la maggioranza ne sta discutendo per la manovra – credo il 14º o il 15º a questo punto –. Tutto in barba a quei contribuenti onesti, imprenditori, pensionati, dipendenti, autonomi che le tasse le pagano anche per chi ha scelto di non farlo e di far mancare risorse preziose. Ne dico una, sulla sanità pubblica su cui stanno facendo tagli già dalla prima manovra.

Evidentemente su questi l’importanza del rispetto delle regole non è più così ferreo, così fondamentale. È lo stesso disegno che chiede alla magistratura condanne esemplari, ma che non si pone il tema della prevenzione. Ma non può essere questo il compito della magistratura e non può essere questo come ci ricorda ancora una volta la Costituzione, il compito del carcere.

Pensare di risolvere le fratture sociali di questo Paese con i soli strumenti repressivi è una scorciatoia che non porta da nessuna parte, se non ad alimentare quel disagio, quelle diseguaglianze.

D’altronde la politica troppe volte ha scelto – e in questo bisogna fare autocritica da parte nostra – di delegare alle sentenze il compito di affrontare temi delicati che impattano sulla vita delle persone. Come evidenziato di nuovo la relazione del segretario Albamonte nella sua introduzione.

Pensiamo alle decisioni dei tribunali sulle vicende legate al riconoscimento e agli affidi dei bimbi e delle bimbe nelle coppie omogenitoriali. Pensiamo ancora una volta a una decisione recente della Corte costituzionale sul processo per i torturatori e gli assassini di Giulio Regeni arrivati lì perché anche la politica e la diplomazia non sono riuscite – e forse non hanno nemmeno provato fino in fondo – a portare a processo quei torturatori e quegli assassini.

Molto spesso i magistrati hanno dovuto richiamare la politica a queste responsabilità, chiedendo gli strumenti normativi che mancano, le leggi che mancano. Ecco, se l’unica risposta viene dall’inasprimento delle pene, significa rinunciare già in partenza alla prevenzione, intervenire dopo che il reato viene già commesso.

Quando contiamo, ad esempio, l’ennesima vittima di un femminicido. È successo in questi giorni a Castelfiorentino: Klodiana Vefa.

O l’ennesimo stupro come quello che si è consumato proprio alle spalle di questo palazzo. Uno degli episodi più sconcertanti in un’estate in cui quotidianamente abbiamo toccato l’orrore della violenza dilagante contro le donne. È fondamentale il ruolo della magistratura nel lavoro di indagine, certo, ma diventa assolutorio pensare che solo l’azione nei tribunali possa cambiare un trend in cui ogni giorno contiamo donne che subiscono violenza, donne oggetto di minacce di persecuzioni. Senza un vasto piano di prevenzione sociale e culturale la repressione non basta. E bisogna, quindi, investire nella formazione specifica di operatrici o di operatori, nelle pubbliche amministrazioni, nella giustizia, nelle forze dell’ordine.

Serve un grande investimento nell’educazione alle differenze e all’affettività a partire dalle scuole, per agire sul pregiudizio sessista prima che si trasformi nell’ossessione del possesso sul corpo delle donne. Altrimenti arriveremo sempre troppo tardi.

Ecco, su questo serve un grande sforzo comune. Mi sono rivolta a più riprese alla prima presidente del Consiglio donna per chiedere che, almeno su questi temi, si riesca a mettere da parte la dialettica – anche aspra – che caratterizza in una democrazia maggioranza e opposizione. Almeno su questo facciamo un passo avanti insieme.

L’approccio di mera repressione non basta neanche sulla criminalità minorile: lo abbiamo nel “decreto Caivano”. Accanto ai presidi delle forze dell’ordine non possono mancare presidi sociali, educatrici ed educatori di strada, insegnanti, associazioni e terzo settore che lavorano per costruire un’opportunità che ti strappi dalla ricattabilità, che spesso è l’unica cosa che si trovano di fronte esposti alla criminalità organizzata.

Ecco, fra i molti esempi di questo volto privo di empatia con i più deboli, vorrei ricordare un caso emblematico, quando, per gli emendamenti peggiorativi di Fratelli d’Italia, abbiamo dovuto ritirare la nostra proposta di legge sulle detenute madri. Una proposta di civiltà e di umanità, una legge per far uscire i bambini dal carcere. Bambine e bambini che non hanno nessuna colpa, oggi reclusi con le madri per le quali venivano pensate misure dedicate. Doveva essere un tema da sottrarre allo scontro politico, che non può e non deve mai consumarsi sulla pelle dei bambini. Avremmo potuto votarla insieme, maggioranza e opposizione, e sarebbe stata una pagina nobile della politica. Ma così non è stato. La situazione nelle carceri è insostenibile, lo sappiamo. Stiamo moltiplicando le visite ispettive con i nostri deputati e senatori. Sono necessari interventi che mirino a migliorare la condizione delle strutture, spesso fatiscenti, ma soprattutto serve un grande investimento nelle misure alternative della pena.

Sul diritto d’asilo si prosegue una strada repressiva, che, peraltro, non ferma i flussi, non rispetta i diritti, non crea inclusione sociale. Stiamo assistendo a un attacco frontale sul diritto d’asilo con norme cervellotiche che hanno costruito le basi per un’emergenza che, come coraggiosamente ha detto in questi giorni anche qui il cardinale di Palermo monsignor Lorefice, non solo non esiste, ma non lo è. Non è tale. Dopo almeno 40 anni che siamo diventati un Paese meta di immigrazione, dobbiamo lavorare a costruire politiche migratorie che sappiano gestire il fenomeno. E lo sappiano gestire, chiamando tutti a una condivisione equa delle responsabilità dell’accoglienza, a partire dai Paesi europei alleati del governo, che sono quelli che dicono no costantemente alla solidarietà all’Italia, anche in questi giorni nel vertice di Malta.

E sul fronte del contrasto alle mafie, fatemi dire: siamo in una città che ha pagato un prezzo altissimo. Una scia di sangue che ha sommerso Palermo per più di vent’anni. Proprio in questi giorni abbiamo ricordato, il 44º anniversario dell’omicidio del giudice Terranova e del maresciallo Mancuso, uccisi in pieno centro nel settembre 1979. E Terranova fu ucciso per aver, tra le altre cose, collaborato alla fondamentale relazione di minoranza della Commissione Antimafia del ‘76.

Un testo frutto di un lavoro organico che con forza poneva il tema del rapporto tra mafia, economia e politica, che sarà anche poi la base della sentenza di morte per Pio La Torre. Terranova, come molti suoi colleghi uccisi anche per l’incapacità che lo Stato ha dimostrato nel proteggerli, aveva capito come la mafia non fosse qualcosa di folcloristico. Si dovesse abbandonare l’idea della lupara e per questo bisogna rincorrerla proprio sul suo profitto. Bisogna rincorrerla sui suoi rapporti e intrecci con gli interessi economici e politici. Quella lezione è ancora viva oggi. E va difeso l’impegno anche sui beni confiscati alle mafie, che è il contrario di quello che il governo ha scelto di fare, levando dal PNRR oltre 300 milioni di investimenti per la valorizzazione dei beni confiscati. Secondo noi è la strada sbagliata. Secondo noi restituire all’uso sociale quei beni vuol dire restituirli alla collettività ferita da quei crimini e da quei reati.

Aggredire quegli interessi vuol dire anche che abbiamo contestato l’innalzamento del tetto dell’uso del contante, perché è un favore che si fa a chi fa nero.

Abbiamo contestato anche le modifiche al codice degli appalti, che prima si ricordavano: il subappalto a cascata. A cosa serve, se non a rendere più grigia la fine della catena, dove sono più difficili i controlli e dove è più fertile il terreno per l’infiltrazione criminale nell’economia, per lo sfruttamento?

Lo sapete meglio di me e lo sa meglio di me chi ha parlato prima. Lo sfruttamento e la precarietà è anche la chiave per capire quanto sono insicuri i luoghi di lavoro, perché non è più possibile che molti lavoratori escano di casa la mattina e non riescano a tornarvi. Anche su questo noi chiediamo uno sforzo a questo governo.

Per il Partito Democratico, che è un partito orgogliosamente riformista, portare avanti riforme è importante, ma farle solo a partire da un ascolto, da una difficile opera di mediazione, di individuazione di un equilibrio tra gli operatori che si occupano sul campo di giustizia. Ci abbiamo lavorato anche nelle scorse legislature. E sono riforme che sono comunque al centro del PNRR. Quindi, tornare indietro o abolirle per andare in tutt’altra direzione sbagliata, mette anche a rischio alcuni di quegli investimenti importanti. Perché è vero che bisogna investire sulle carenze di organico, sulle assunzioni, a partire dalla stabilizzazione a cui siamo anche noi, favorevoli di tutti quegli operatori che sono stati assunti temporaneamente per attuare quel piano.

Partiamo da lì. Perché sicuramente la ragionevole durata del processo è un obiettivo prioritario per tutti, per tutti noi, anche per facilitare il lavoro. Però è da lì, da quegli investimenti mancati che bisogna partire e non coprire sotto questo titolo altre intenzioni che sono quelle di limitare la giurisdizione.

Così come per noi non è accettabile mettere in discussione – è stato detto – l’obbligatorietà dell’azione penale a garanzia del principio di uguaglianza che troviamo in Costituzione.

E così come ci siamo espressi in modo molto netto contro l’ipotesi di rimettere in discussione la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa, funzionale proprio a colpire quell’area grigia di consenso omertoso intorno alle organizzazioni criminali che ne facilitano le attività. Servirebbe invece affinare gli strumenti. E sono fiera che in questi anni abbiamo lavorato con il nostro gruppo anche in Europa, ad esempio, approvando il mutuo riconoscimento degli ordini di confisca e di sequestro. È stato un passo avanti importante perché le mafie, diciamo la verità, fanno affari con disinvoltura nel mercato unico europeo. Si approfittano dell’esistenza di quel mercato senza confini anche più di tante nostre piccole e medie imprese. Se non vediamo che anche a quel livello dobbiamo affinare la collaborazione giudiziaria e gli strumenti che servono per colpire le mafie, rimarremo sempre un passo indietro.

E mi avvio a chiudere parlando di quelle nuove frontiere del diritto su cui siete ugualmente impegnati. Io trovo personalmente inaccettabile se pensate alle sfide delle nuove piattaforme dei dati. Io trovo inaccettabile che anche l’esercizio dell’azione penale, in alcune delle indagini che portate avanti, si scontri e finisca per dipendere dalla buona volontà di piattaforme che detengono quei dati e che hanno sede in Paesi esteri. La Repubblica non può rinunciare e non può delegare l’esercizio dell’azione penale.

Vi voglio ringraziare di questo momento di riflessione comune e anche per il contributo di idee della vostra associazione. Troverete in noi sempre un interlocutore attento e rispettoso della vostra autonomia e indipendenza, consapevole dell’importanza e della delicatezza delle funzioni che siete chiamati a svolgere al servizio della Repubblica. Il nostro compito è quello di dotare la macchina della giustizia di risorse, di leggi e norme chiare e di mezzi, soprattutto adeguati: assunzioni, investimenti, magistrati e personale nelle cancellerie, negli uffici del processo, nelle aule d’udienza, spazi adeguati, edifici agibili. E prima, l’ho sentito dire, anche le risorse per la digitalizzazione e per l’adeguamento tecnologico che sono una parte importante per accelerare i tempi e farlo senza sacrificare le garanzie.

Ecco, andiamo avanti allora su questa strada, consapevoli che i rischi che sono stati annunciati anche dagli interventi di prima non sono solo rischi. Sono realtà in altri Paesi europei molto vicini a noi. Ricordate cosa è accaduto in Polonia sulle più alte corti. Manteniamo alta l’attenzione, quindi, perché la reazione degli altri governi europei è stata troppo timida. Si colpiscono gli organi di autogoverno, di scrutinio indipendente e chi governa mostra una vera e propria ossessione a occupare ogni spazio di potere e ogni spazio anche di informazione.

Sono molto d’accordo con quanto prima ho sentito entrando: deporre le armi delle ideologie e avere finalmente su questi temi un confronto equilibrato. Anche dall’opposizione, vi assicuro che noi cercheremo con senso di responsabilità e concretezza di fare davvero la nostra parte. Perché lo stato di salute della giustizia è essenziale, perché l’Italia possa affrontare al meglio il suo futuro. Grazie.

Trascrizione a cura della redazione,
in attesa di approvazione dal relatore

Gli altri interventi

Saluti

Relazione introduttiva

Tavola rotonda:
I diritti sotto attacco

Dibattito congressuale