Matteo Frasca
Presidente Corte d’Appello di Palermo
È per me motivo di grande soddisfazione ospitare a Palermo il quarto congresso nazionale di Area democratica per la Giustizia dedicato al ruolo della giurisdizione nell’attuale contesto politico.
Le recenti riforme approvate e soprattutto quelle in cantiere rendono il tema estremamente attuale.
Per la verità è un tema che si ripropone ciclicamente con accenti diversi e altrettanto ciclicamente assume le connotazioni e i toni dello scontro politico-istituzionale.
Uno scontro che certamente non è né voluto né alimentato dalla Magistratura, a meno di non volere ritenere tale la intransigente difesa dei principi costituzionali e la coerente denuncia pubblica dei rischi che derivano dai progetti di riforma annunciati.
Una denuncia che, nonostante lo scetticismo e la diffidenza che purtroppo da diverso tempo ormai circonda la Magistratura, non nasce da biechi obiettivi corporativi o, ancor peggio, dal misero tentativo di difendere privilegi di casta, ma dalla consapevolezza della rilevanza costituzionale della funzione attribuita alla Magistratura, cioè la tutela dei diritti e il controllo di legalità.
E se e quando questi capisaldi della democrazia sono in discussione la Magistratura non solo ha il potere ma anche il dovere di intervenire nel dibattito pubblico contribuendovi in modo equilibrato, limpido e comprensibile, senza scendere nell’agone della competizione partitica.
Non si tratta di dettare l’agenda al Governo o al Parlamento; si tratta invece di offrire quel contributo di conoscenza e di qualità che deriva dal ruolo nevralgico che la Magistratura riveste nella giurisdizione.
Per assolvere in modo efficace al suo ruolo la Costituzione prevede l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura quale strumento di garanzia dell’uguaglianza dei cittadini.
Partecipare al dibattito è un esercizio di democrazia che non può essere soffocato trincerandosi dietro il limite del “contributo tecnico” che rischia di divenire un alibi deresponsabilizzante.
L’attenzione, anche mediatica, è indirizzata da diverse settimane al tema della separazione delle carriere, proposto con la presentazione di quattro proposte di legge.
Credo che sia incontestabile che dall’inizio della Repubblica il ruolo del pubblico ministero ha costituito oggetto di un vero e proprio scontro politico.
Diverse crisi politiche sono state innescate proprio dal conflitto sui temi della Giustizia e, in modo specifico, sulla magistratura requirente.
E il problema non investe solo la questione, di più immediata percezione, dell’assoggettamento del pubblico ministero al condizionamento del potere politico, ma anche quella, meno avvertita ma non per questo meno rilevante, della sua indipendenza “interna”.
Una magistratura requirente che sia inerte per condizionamento esterno o interno può tradursi nella sottrazione di intere tipologie di reato al vaglio del Giudice la cui indipendenza finisce per essere fortemente dipendente da quella del pubblico ministero.
E ciò è tanto più vero se si pone mente al fatto che nel nostro Paese la questione criminale si intreccia con la questione democratica.
È un contesto che rafforza il convincimento dell’importanza strategica dello statuto del pubblico ministero, soprattutto alla luce della sua storia che rappresenta plasticamente come il progressivo affrancamento dai condizionamenti esterni e interni abbia rappresentato un’autentica conquista democratica che dovrebbe imporre particolare cautela e far riflettere seriamente sui disinvolti progetti di revisione.
Eppure, si continua a insistere sulla inevitabilità della separazione delle carriere, ancorandola a taluni argomenti suggestivi come il rapporto di colleganza con i giudici, la cui evidente inconsistenza è stata rimarcata di recente anche da un raffinato Avvocato come Franco Coppi, o come la necessità di assicurare la “parità delle armi” con la Difesa, trascurando cha è una connotazione endoprocesuale e non anche ordinamentale, o ancora mediante il richiamo all’Europa, invocata a corrente alternata.
Peraltro, è sempre più diffuso il convincimento che la separazione delle carriere sia un obiettivo di riforma divenuto privo di importanza autentica alla luce della graduale erosione delle possibilità di mutamento delle funzioni, ormai relegata a ipotesi quasi teoriche, come del resto confermato dalla ulteriore contrazione delle già esigue statistiche al riguardo.
Ciò è certamente vero ma non lo è fino in fondo nel senso che la drastica riduzione della mobilità interfunzionale non ha inciso sulla identità della cornice costituzionale all’interno della quale permane la magistratura requirente.
Il risultato non è di poco momento in quanto, anche a voler escludere che rientri nell’obiettivo della riforma la sottoposizione del pubblico ministero al Potere esecutivo, in ogni caso non è meno preoccupante la possibilità di un’attività sostanzialmente incontrollata, con il conseguente rischio di pericolose derive verso forme di personalismo e di protagonismo, nonché della perdita della cultura delle garanzie da parte di un pubblico ministero ostinato alla ricerca a ogni costo della fondatezza dell’accusa.
Ma la vera partita si gioca su fronti diversi dalla separazione delle carriere, con la quale però finisce per saldarsi in un progetto globale di riassetto del rapporto tra i Poteri dello Stato.
Il progetto riformatore vuole riscrivere la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura con l’aumento del numero dei componenti laici in nome di un preteso “corretto equilibrio”, che invece mira in modo evidente ad attribuire un maggior peso alla componente laica, alterando la felice scelta che i Padri costituenti avevano adottato in funzione della garanzia dell’indipendenza della magistratura.
E sulla stessa scia si iscrive l’intendimento di declassare la garanzia del principio di obbligatorietà dell’azione penale dalla fonte costituzionale a quella della legge ordinaria sul presupposto di un’incontrollata sostanziale discrezionalità di fatto nell’esercizio dell’azione penale, alla quale però potrebbe porsi rimedio con ben altri interventi come una seria e robusta depenalizzazione.
Al contrario, assistiamo a una vera e propria involuzione irrazionale del diritto penale e della sua funzione tipica.
Dinanzi a devianze criminali alimentate da disagio sociale, disoccupazione, povertà e all’emersione di ansie e paure si ricorre alla introduzione di fattispecie criminali che concorrono ad aumentare a dismisura il numero dei reati previsti e che spesso sono leggi-manifesto che riproducono fattispecie esistenti.
In questo modo si ritiene di rispondere al bisogno di sicurezza che i cittadini manifestano.
In questo modo il governo della cosa pubblica si attua anche attraverso l’uso strumentale della rappresentazione dei fenomeni criminali.
Un potere quindi che non crea sicurezza autentica ma che rassicura.
Ma la repressione, per quanto ovviamente necessaria, non basta, perché è più importante la rimozione delle condizioni sociali ed economiche sulle quali si radicano i fenomeni criminali e a questo processo di crescita democratica devono concorrere tutte le Istituzioni.
È un compito, quindi, che spetta pure alla Magistratura che dovrà non solo perseguire i reati ma anche garantire effettività ai diritti dei cittadini.
Solo una giurisdizione autenticamente garante dei diritti a ogni livello e in ogni settore può concorrere a realizzare il modello di società disegnato dalla Costituzione.
La funzione svolta dalla Magistratura rende indispensabile che essa goda della fiducia da parte della collettività: fiducia nella competenza tecnica, nell’onestà, nel rigore intellettuale, nell’imparzialità di giudizio.
Anche per questo i magistrati devono evitare ogni forma di collateralismo con il potere politico e con qualsiasi altra forma di potere, e anche soltanto l’apparenza di esso: il mero sospetto della mancanza di indipendenza o di un possibile condizionamento esterno é sufficiente ad alimentare la perdita di fiducia nell’azione della Magistratura e indebolirne il ruolo di garanzia.
Una magistratura debole non è in grado di assicurare tutela effettiva ai diritti individuali, non é in grado di affermare i diritti dei cittadini nei confronti del potere, che alla fine é la misura del tasso di democrazia di un Paese.
Fiducia ma non anche consenso, che invece fonda la legittimazione democratica delle funzioni politiche di governo ma che non è neppure sufficiente a legittimare ogni atto politico di governo che incontra il limite invalicabile del rispetto dei diritti fondamentali.
Il consenso popolare non può rendere lecito un atto contrario ai diritti costituzionalmente garantiti che sono tutelabili anche nei confronti delle contingenti maggioranze politiche e quand’anche la loro violazione fosse conseguenza di un atto politico approvato all’unanimità.
Luigi Ferrajoli scrive che “la prima regola di ogni patto costituzionale sulla convivenza civile non è, infatti, che su tutto si deve decidere a maggioranza, ma che non su tutto si può decidere [o non decidere], neanche a maggioranza”.
Il progetto di democrazia sociale disegnato dalla Costituzione è in crisi.
Alle riforme epocali degli anni 70 come lo Statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, l’istituzione del servizio sanitario nazionale ha fatto seguito una inversione di rotta della quale sono state espressione più visibile la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nonché la graduale destrutturazione del rapporto di lavoro da ultimo operata dal jobs act.
Anche la democrazia politica ha subito un radicale mutamento con l’avvento del sistema maggioritario, con il mutamento dei partiti sempre meno caratterizzati dall’insediamento nel corpo sociale e dalla partecipazione popolare ai processi decisionali interni secondo il modello dettato dalla Costituzione e, al contrario, sempre più personalizzati, con la crescita esponenziale del ruolo dell’esecutivo e il connesso ridimensionamento di quello del Parlamento, con l’insofferenza verso le istituzioni di garanzia.
Nell’epoca delle grandi corporazioni e delle grandi organizzazioni economiche internazionali, come la Banca Mondiale, la BCE, le agenzie di rating, il potere economico prevale su quello politico dal quale viene garantito in nome dell’egemonia del mercato.
Sono scomparsi i corpi intermedi, si sono indebolite le discriminanti ideali, sono stati messi da parte i diritti sociali come quelli alla casa, all’istruzione, al lavoro, che, per quanto fortemente avvertiti dalla comunità, sono trattati come il retaggio ideologico del passato, perché “costano” e perché i ceti più deboli non hanno adeguata rappresentanza.
E in questo contesto la Costituzione, nonostante i pochi decenni di vita e la sua incompleta attuazione, viene invece considerata vecchia e da cambiare, in favore di modelli di Stato in grado di assicurare il valore ritenuto primario della governabilità rispetto alla quale il confronto politico viene vissuto come fattore di rallentamento.
In questo contesto di “nuova democrazia” il ruolo della Magistratura diviene ancora più rilevante.
Stefano Rodotà ha scritto che i temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali perché è da quelli che si misura la qualità di una società e ha aggiunto che i diritti fondamentali si pongono a presidio della vita, che in nessuna sua manifestazione può essere attratta nel mondo delle merci.
E i diritti, come scrive Rodotà, “non sono acquisiti una volta per tutte sono sempre insidiati diventano essi stessi strumenti di lotta per i diritti”.
In tanti suoi scritti ha sollecitato la Magistratura a essere all’altezza del compito richiestole dalla società civile, che vede nella giurisdizione lo strumento di tutela di nuovi diritti e di nuove domande sociali che si dirigono “verso il canale giudiziario non solo perché altri canali erano troppo stretti o del tutto chiusi, ma perché la magistratura comincia a presentarsi come un potere diffuso sul territorio e quindi in grado di garantire una maggiore vicinanza e corrispondenza rispetto al modo in cui le domande si formano e si articolano nell’organizzazione sociale”.
Le istanze sociali, in un contesto storico nel quale si affacciano all’orizzonte nuovi diritti, trovano sempre più spesso come primo interlocutore la Magistratura, avamposto istituzionale per la verifica della tutelabilità di ogni nuova pretesa alla quale il legislatore per scelta o per incapacità non abbia voluto o saputo dare risposta.
Anche nei periodi più bui della storia del nostro Paese la Magistratura ha esercitato con straordinaria efficacia il ruolo che la Costituzione le assegna, nella consapevolezza che la sua inadeguatezza finisce per porne in discussione la stessa legittimazione.
Per continuare a farlo deve mantenere alta la capacità di elaborazione culturale e deve procedere a un autentico rinnovamento per uscire dalla tempesta che l’ha investita e che ha riproposto con durezza l’esistenza e l’attualità della questione morale dalla quale per tanto tempo aveva creduto di essere immune, forse per un’aristocratica presunzione o forse anche perché un diffuso sentire ha ritenuto la Magistratura destinataria del compito di realizzare la pulizia morale della società.
È un processo, però, che richiede che ritrovi la propria coesione ideale e non corporativa in nome dei valori su cui si fonda la giurisdizione, che recuperi, a livello individuale e a livello associativo, la propria credibilità e riprenda a volare alto.