Intervento

Luca Poniz
Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano

Leoni sotto il trono o cani da compagnia?

1. Il felice titolo di questo Congresso consente riflessioni molteplici, ottimamente svolte nell’importante tavola rotonda di apertura, “diritti sotto attacco”, e negli interventi che mi hanno preceduto, in particolare quelli di Giuseppe Cascini e del Presidente Santalucia.
In che termini si pone la “relazione” tra giurisdizione e maggioritarismo? Se il significato di quest’ultimo si individua (anche) nella tendenza a imprimere all’ordinamento, agli ordinamenti, direzioni, per così dire, non di rado critiche per la tenuta dei diritti, in perfetta coerenza con manifesti (talvolta anche esplicitamente) populisti, allora è evidente che il baluardo della giurisdizione, per come ora disegnato dalla nostra Costituzione, è fatalmente esso stesso sotto attacco. Le riflessioni finora condotte possono essere, in buona sostanza, sintetizzate nel senso che, perché il maggioritarismo non diventi autoritarismo, il ruolo della giurisdizione non soltanto non può essere indebolito, ma deve essere rafforzato, perché ad essa è affidata la tutela di beni fondamentali, di princìpi e di valori che non sono, né possono essere, nella disponibilità di maggioranze contingenti, per quanto solide e per quanto, ovviamente, legittimate dal “consenso”. Di fronte a un “diritto forte” – che sarebbe persino auspicabile fosse, almeno nel senso di norme primarie chiare, e di scelte di fondo responsabili – è irrinunciabile una giurisdizione a sua volta forte, autorevole, indipendente, come peraltro è quella che la Costituzione disegna in modo mirabile.
Ma se questo è, ed è stato, fino ad oggi, nuovi disegni “riformatori” vorrebbero alterarlo in modo radicale, devastante, e direi sorprendente, se tale disegno proviene da chi dice di battersi in nome di “garanzie”, e in proclamata coerenza con manifesti liberali...

 

2. Tra i (tanti) progetti di riforma che suscitano allarme ed inquietudini profonde, vi è certamente il disegno di legge costituzionale (di iniziativa dell’Unione della Camere Penali) denominato “Norme per l'attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”, in discussione alla Camera dei Deputati. Vi è da sottolineare, innanzitutto, l’equivoco (qualcuno prima di me ha parlato di “truffa delle etichette”, e non sembra affatto improprio) che esso riguardi “solo” la separazione delle carriere, come indicherebbe il suo titolo. In realtà è una riscrittura di attuali norme costituzionali fondamentali e, con esse, di principi che costituiscono i cardini dell’attuale assetto della giurisdizione. Vediamole, una per una, le nuove norme…


Per realizzare il dichiarato obiettivo di “separare le carriere” (quella dei Pubblici Ministeri e dei Giudici):

  • vengono previsti due concorsi distinti per l’accesso alla magistratura requirente e alla magistratura giudicante, e vengono previsti un Consiglio Superiore della Magistratura giudicante e un Consiglio Superiore della Magistratura requirente;
  • viene modificato l’equilibrio nella proporzione tra membri laici e togati, per cui ciascuno dei due nuovi CSM sarà composto per metà da magistrati e per metà da eletti dal Parlamento;
  • è espressamente previsto che i due Consigli non abbiano altre prerogative se non quelle espressamente indicate (incomprensibilmente il nuovo CSM privato persino del potere di rendere pareri su progetti di legge in materia di ordinamento…);

ma soprattutto, si badi bene, vengono riscritti:

  • l’articolo 101 della Costituzione, con l’eliminazione della parola “soltanto” dopo “soggetti”, evidentemente, in tal modo, aprendo la via maestra per la soggezione “ad altro”, ancorché non esplicitamente indicato;
  • il primo comma dell’art. 104 della Costituzione, eliminando la parola altro, riferito a potere dello Stato, si da realizzare per tale via l’esplicita espulsione della magistratura (l’intera magistratura, non solo quella requirente…) dai poteri dello Stato, con ciò che esso significa, non solo in termini puramente simbolici;
  • l’art. 107 della Costituzione, cancellandone l’attuale, fondamentale terzo comma, con il suo essenziale principio per cui i magistrati si distinguono tra di loro solo per diversità di funzioni: in assenza di una spiegazione delle ragioni che animano tale proposta (mai fornite, e del resto assenti anche nei testi parlamentari), a noi resta il convincimento che si tratti dell’intenzione di cancellare la più importante conquista di una giurisdizione pienamente coerente con la Costituzione, che mirava a cancellare gerarchie tra i Magistrati, e che, indiscutibilmente, ha consentito di realizzare quel modello di “potere diffuso” evidentemente molto temuto, perché difficile da controllare. E d’altra parte, se i magistrati non si distinguono più solo per diversità di funzioni, si distingueranno – immaginiamo – per le cariche che ricoprono, dunque reintroducendo quella gerarchia che è la più vistosa delle contraddizioni con l’idea stessa della giurisdizione (come dovrebbero ben sapere, ancore di più, i fautori più o meno genuini di un manifesto liberale), minando in modo irrimediabile le basi anche dell’indipendenza “interna”, che è uno dei due pilastri su cui si fonda l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura;
  • l’art. 109 della Costituzione, sottraendo all’Autorità Giudiziaria la disponibilità della Polizia Giudiziaria, che invece, con grande lungimiranza, il Costituente aveva voluto attribuire – con norma solo apparentemente di dettaglio – alla Magistratura proprio a “completamento”, per così dire, della sua autonomia, essendo evidente che una Polizia Giudiziaria che risponde solo alla Magistratura – almeno nel senso funzionale del termine – è sottratta a quell’indirizzo politico-amministrativo cui sarebbe soggetta, per via gerarchica, ove rispondesse solo ai vertici dei relativi corpi: insomma, un sovvertimento delle regole attuali, tali da determinare intuibili conseguenze sulle indagini, la loro direzione, lo stesso loro svolgimento;
  • infine, ma non certo da ultimo, viene riscritto l’art. 112 della Costituzione, prevedendosi che l’azione penale, non più prevista come obbligatoria, andrà esercitata “nei casi e nei modi previsti dalla legge”: credo sia evidente il significato, e l’effetto, della “decostituzionalizzazione” di un principio centrale nell’assetto della giurisdizione, indiscutibilmente collegato ad altri fondamentali principi costituzionali, ove la “tecnica” normativa svuota di contenuto la previsione costituzionale, mantenendo solo la formale riserva di legge.

 

A noi pare che questo disegno costituisca un’ esplicita delineazione di un modello di giurisdizione pre-costituzionale, un modello che consideriamo pericolosissimo, non tanto per la Magistratura, quanto per la stessa tutela dei diritti.
Si crea un’esplicita asimmetria tra i poteri dello Stato, con l’espulsione di quello giudiziario, le cui garanzie di indipendenza – affidate a due distinti Consigli, a loro volta indeboliti nelle rispettive prerogative – sfumano – ed è pure un eufemismo - attraverso un riequilibrio della composizione, a favore di un aumento del peso della parte politica: scelta che non rivela altro che il chiaro intento di realizzare, con il formale disconoscimento del rango di potere, la potenziale sottomissione della magistratura, tutta, al controllo della politica. E d’altra parte è stato detto anche esplicitamente, rivendicato come obiettivo “politico” proprio dalle Camere Penali, in quella “due giorni” organizzata a Roma, nel settembre 2019 – “Stati Generali per la riforma dell’Ordimento Giudiziario”, ai quali partecipai da allora Presidente dell’ANM – ove fu proprio un componente della Giunta ad indicare, nella ridelineazione degli equilibri nella composizione del CSM, l’obiettivo di un “controllo” della Magistratura…
Si prenderebbe per questa via congedo – temiamo, definitivo… - da un modello di giurisdizione coerente con l’attuale visione costituzionale di essa: è cancellata con un tratto di penna la concezione della magistratura come potere diffuso, l’idea più straordinariamente democratica propria del modello costituzionale di giurisdizione, che ripudia la gerarchia interna e l’idea della carriera tra i magistrati, per affermare il quale modello sono state necessarie storiche battaglie associative, il cui esito è stata una vittoria non per la magistratura, ma della stessa Costituzione, anche in questo a lungo inattuata.
Altro che leoni sotto il trono, espressione che pur consideriamo irricevibile: a me pare che ci vogliano cani da compagnia, docili ed accondiscendenti, e soprattutto controllabili.

 

3. Non possiamo che ribadire qui, sollecitati dall’intervento del Presidente Caiazza, la nostra netta e ferma contrarietà alla separazione delle carriere. Abbiamo appena sentito – proprio dal Presidente Caiazza – l’invito a rivedere posizioni che sarebbero solo “ideologiche”, e che dunque nulla avrebbero a vedere con ragioni ordinamentali o processuali, anche sulla scorta delle esperienze di altri ordinamenti, i più a suo dire, ove PM “separati” mantengono intatta la loro autonomia.
Pare a me che ideologica sia proprio la posizione delle Camere Penali, una vera e propria campagna, densa di slogans, da oltre un ventennio.
È agevole infatti obiettare, come ha benissimo argomentato nel lucido intervento di ieri il Prof. Enrico Grosso, che dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 ad oggi, il passaggio dalla funzioni requirenti a quelle giudicanti, e viceversa, è talmente complicato ed oneroso da costituire casi ormai remoti, con percentuali insignificanti, così da rendere evidente come le regole sul “cambiamento di funzioni” abbiano di fatto realizzato una separazione netta. L’argomento dell’“ideologia” come pretesamente sottesa alle nostre posizioni allora si ribalta clamorosamente, ed essa diventa manifesta se gli argomenti (mal) utilizzati per sostenere la richiesta di separare le carriere si saldano con tutti gli elementi che emergono a completamento del disegno complessivo, convicendoci che in realtà è in corso una formidabile battaglia di potere, sub specie “resa dei conti”, come, ancora, è stato detto benissimo ieri. Se, infatti, interessassero davvero le “garanzie”, e preoccupasse davvero la loro “tenuta”, e si ritenesse che essa traballa a causa di interpretazione “poliziesca” del ruolo da parte dei Pubblici Ministeri (o di alcuni di loro), non si capisce la ragione della preclusione anche al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, che dovrebbe giovare all’obiettivo “garantista”, se vi fosse una coerenza, ed una buona fede.
L’attuale assetto costituzionale, con il pieno inserimento del pubblico ministero nella giurisdizione, garantisce un’effettiva forma di controllo giurisdizionale sin dalla fase essenziale delle indagini preliminari, e rappresenta una irrinunciabile garanzia per tutti i cittadini e, in primo luogo, per gli indagati. È del resto la stessa Costituzione a prevedere, nella parte dedicata alle libertà fondamentali, una riserva di giurisdizione “dell’Autorità Giudiziaria”, in essa dunque comprendendo tanto il Giudice che il Pubblico Ministero, anche quest’ultimo concepito in una funzione di tutela delle garanzie di libertà, dentro quella giurisdizione che ne dovrebbe garantire la funzione di “parte imparziale”: che non è affatto un ossimoro, come del resto indicano le norme ordinamentali e processuali che un dovere di imparzialità del pubblico ministero tratteggiano. Contrariamente a quanto affermano i proponenti, esso nulla ha a che fare con l’attuazione dei principi costituzionali in materia di giusto processo, poiché già oggi l’ordinamento garantisce pienamente la condizione di parità delle parti nel processo, e la terzietà del giudice, che certo non può ritenersi compromessa dalla comune appartenenza all’ordine giudiziario. Non credo di dover ricordare io, al Presidente Caiazza, le parole – recenti – con cui un principe del foro come l’Avvocato Coppi – credo non sospetto di difendere posizioni corporative dei Magistrati – ha sottolineato la profonda, ed irriducibile, diversità tra il ruolo del Pubblico Ministero e dell’Avvocato, al primo spettando obblighi anche di ricerca delle “verità” naturalmente assenti, ed addirittura incompatibili, io aggiungo, con la funzione difensiva.
Sorprende, allora, che chi si propone l’obiettivo di assicurare maggiori garanzie agli indagati – denunciando talvolta a ragione prassi “poliziesche” nella nostra azione - anziché percorrere la via della pretesa di un Pubblico Ministero davvero imparziale, e magari reclamare una correzione delle più vistose anomalie determinate dalla riforma del 2006, che ne ha ridisegnato la fisionomia con un impronta marcatamente gerarchica, ne auspichi una separatezza che lo consegnerebbe certamente ad un ruolo marcatamente accusatorio, con garanzie di indipendenza che – a dispetto degli enunciati – risentirebbero negativamente dell’intero assetto della riforma.
Del resto non mi sembrano molto felici gli esempi oggi portati, tratti dalle esperienze di altri ordinamenti: oltre ad esigere comparazioni più analitiche - che tengano conto delle profonde differenze tali da rendere davvero molto più complesso il confronto - è agevole obiettare che alcuni dei Pubblici Ministeri citati obbediscono – nel caso statunitense, per “statuto” stesso, verrebbe da dire – ad evidenti logiche politiche. In Oklahoma il Procuratore Generale sta per ordinare l’esecuzione di un detenuto con un veleno rifiutato persino dai veterinari, per gli animali; in Giappone i procuratori firmano ordini di esecuzione per impiccagione. Spero non siano questi i modelli di Pubblico Ministero “indipendente” cui ispirarsi per delineare il nostro, di modello…

 

4. Non possiamo sottrarci, tuttavia, ad una riflessione che ritengo irrinunciabile soprattutto per noi, noi Magistrati di Area, noi Magistrati progressisti, che riguarda proprio il modo di intendere l’esercizio delle funzione del Pubblico Ministero, in coerenza con quel ruolo che noi reclamiamo come proprio della “giurisdizione”. E la riflessione è suggerita ancora di più dallo spunto che ci ha offerto il Presidente Santalucia nel suo lucidissimo intervento, parlando di un Pubblico Ministero indifferente al risultato della propria azione, nell’interesse obiettivo della Legge, mi permetto di aggiungere io. E proprio in virtù di questo essenziale principio che dovrebbe caratterizzare ed orientare sempre il lavoro del Pubblico Ministero, e dunque la sua “cultura”, che si radicano le ragioni della sua irriducibile diversità rispetto all’Avvocato difensore.
Ecco, questo è il cuore del problema: la “cultura” della giurisdizione non è uno slogan; o almeno, perché non lo sia, o non si riduca ad esserlo, esige non soltanto teoriche declinazioni, ma prassi coerenti con i principi, interpretazioni del ruolo del P.M. perfettamente conforme al modello costituzionale e, soprattutto, a quello processuale, che ne disegna un ruolo di parte imparziale: peraltro, esattamente il contrario dell’Avvocato della polizia, ruolo reclamato non di rado, e sorprendentemente, dagli stessi sostenitori, sedicenti liberali, di una riforma del suo statuto con finalità di “maggiore garantismo processuale”.
Indifferenza al risultato non significa né insensibilità ai valori in gioco, né rinuncia alla giusta determinazione dell’agire del Pubblico Ministero: è invece il doveroso richiamo a quell’obbligo di verità processuale, che i principi e le norme dell’ordinamento impongo al Pubblico Ministero.
Difficile però negare che nei 15 anni dall’entrata in vigore della “grande riforma” (questa si, di portata epocale, senza che forse se ne siano compresi per tempo i guasti che avrebbe causato) Castelli-Mastella sull’ordinamento delle Procure si siano già verificati dei mutamenti degli assetti che sembrano aver inciso, non poco, sulla stessa cultura giurisdizionale del PM.
E un compito arduo, ed una sfida che noi Magistrati di Area dobbiamo raccogliere con lucidità e necessario spirito autocritico, che deve caratterizzare, secondo me, uno dei punti centrali della nostra elaborazione e del nostro lavoro.
Solo così, io credo, saremo coerenti con quella Costituzione sulla fedeltà alla quale abbiamo giurato.

Testo fornito dal relatore

Gli altri interventi

Saluti

Relazione introduttiva

Tavola rotonda:
I diritti sotto attacco

Dibattito congressuale