Felice Giuffrè
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura
Sono molto lieto di essere qui oggi. Ieri non sono stato presente per precedenti impegni, ma ho letto la relazione del segretario Albamonte. Ho letto la relazione introduttiva al dibattito della dottoressa Pilla e ho colto molti spunti di grande interesse, sui quali esprimerò in maniera franca, come sanno i colleghi del Consiglio Superiore che sono associati ad Area, le mie posizioni.
Prima voglio sottolineare che in questo Consiglio, che è in carica da poco più di sei mesi, vi sono posizioni differenti, come è normale che sia, ma ciascuna componente, quella togata nelle sue varie articolazioni e quella laica, tiene a preservare i rapporti umani, i canali di dialogo e di comunicazione.
Questo è un Consiglio in cui ci si scontra spesso su posizioni differenti, ma immediatamente dopo la dialettica spinta, riprendiamo a dialogare. Questo è un elemento molto importante per il presidio dell’ordine giudiziario e anche per la garanzia e l’indipendenza della magistratura che mi piace sottolineare. Quelli che mi hanno preceduto mi dicono che non è stato sempre così per varie contingenze. Sono, quindi, particolarmente grato ai colleghi di Area del Consiglio Superiore per avermi chiesto di partecipare.
Riguardo alle relazioni di ieri – e mi rivolgo al dottor Albamonte –, mi preme innanzitutto sottolineare che qualche puntualizzazione vada fatta in relazione al ruolo dei laici. In realtà i laici in questo Consiglio non hanno posizioni predefinite. Come i consiglieri sanno, molte volte, sia in commissione che in plenum, abbiamo votato in maniera divaricata rispetto alla componente che dovrebbe essere culturalmente vicina alla maggioranza dei laici. Certo, molte altre volte abbiamo votato in maniera omogenea, ma perché vi è stata una convergenza di valutazioni. Altre volte non lo abbiamo fatto e questo risulta dagli atti, dai verbali del Consiglio.
E i laici, sotto questo profilo, non sono un corpo estraneo che deve essere tollerato all’interno del Consiglio superiore della magistratura. Per una serie di circostanze, la componente laica in questo Consiglio è particolarmente omogenea e ben assortita, nel senso che abbiamo sensibilità e orizzonti anche differenti, ma facilmente integrabili. Ed è un elemento fondamentale di quel sistema di pesi e contrappesi che i nostri costituenti hanno inteso assicurare alla garanzia di indipendenza dell’ordine giudiziario. Vi è stato un ampio dibattito in Assemblea Costituente per decidere la percentuale fra componente togata e componente laica: questa percentuale di due terzi e un terzo, insieme all’etero-presidenza del Consiglio Superiore affidata al Presidente della Repubblica, ha una uno scopo specifico. Quindi, rifiutiamo il ruolo di stampella di una corrente piuttosto che di un’altra. Noi facciamo le nostre valutazioni e, come sanno i colleghi, ci ritroviamo talvolta compagni di strada di alcune componenti, talvolta compagni di strada di altre componenti, nell’interesse superiore della garanzia, indipendenza e autonomia dell’ordine giudiziario. Questo ci tengo a dirlo, perché ognuno di noi sta svolgendo questo ruolo con grande impegno e, soprattutto, con grande senso di responsabilità. Tanto è vero, che spesso ci siamo anche ritrovati in una posizione dialettica rispetto al vicepresidente, che pure noi abbiamo contribuito in maniera decisiva ad eleggere.
Detto questo, e chiarito che la magistratura non è un corpo separato dagli altri poteri dello Stato, ma deve collaborare lealmente con gli altri poteri dello Stato, ritengo che non si possa – ma mi rendo conto di toccare un nervo scoperto di questa assemblea – concepire il ruolo dell’ordine giudiziario come un corpo di custodi. Il nostro modello costituzionale, infatti, non prevede una potestà attuativa della Costituzione direttamente in capo alla magistratura, senza la mediazione del potere legislativo. Ovviamente vi sono opzioni culturali differenti anche fra i costituzionalisti.
Ieri non ho potuto ascoltare l’intervento dell’amico e collega Enrico Grosso che la pensa diversamente, ma ci si confronta fra orizzonti culturali e dogmatici differenti, tutti legittimi e dotati di una propria dignità. Dico soltanto che se il giudice dubita della legittimità di una norma e si spinge verso gli orizzonti dell’interpretazione creativa non estensiva, a mio avviso, non fa il suo dovere.
È la Corte costituzionale che valuta la legittimità di una norma, anzi, valuta la necessità di accogliere la questione di legittimità. Ed anche la Corte costituzionale ha dei limiti. Nelle ultime sentenze – ne cito una per tutte, quella che riguarda l’eutanasia – la Corte costituzionale recentemente ha inaugurato alcune tecniche decisionali che lanciano la palla nel campo del Parlamento, rendendosi conto spesso che un danno per la stessa Corte, oltre che per la magistratura in altre sedi, svolgere un ruolo di supplenza, perché questo danneggia l’equilibrio fra i poteri dello Stato. Sulla questione dell’eutanasia, come sappiamo, la Corte ha differito con una tecnica nuova la propria decisione, auspicando che il Parlamento intervenisse per trovare il bilanciamento tra valori tutti di pregio costituzione, sul quale un’attività di supplenza poteva essere inopportuna.
Insomma, si confrontano, non solo in Italia, diverse opzioni ermeneutiche, diversi metodi. Per esempio, pensiamo al grande dibattito tipico degli Stati Uniti d’America, ma non solo, sull’interpretazione testualista e l’interpretazione per valori. Non è detto che un’interpretazione per valori, a cui noi tutti i costituzionalisti siamo particolarmente legati perché ha svolto un ruolo importante in una determinata fase storica del nostro Paese, sia quella più corretta, quella che determini un equilibrio, un sistema di pesi e contrappesi tipico di un ordinamento liberale. Certo, come pure è stato detto anche nella parte introduttiva del dottor Albamonte, a una ipertrofia della giurisdizione contribuisce la delegittimazione della politica e direi talvolta lo scarso peso specifico della politica. Sicuramente la causa principale della supplenza dell’ordine giudiziario è la debolezza della politica.
E qui tocco brevissimamente uno dei temi che sono stati affrontati nella tavola rotonda di ieri pomeriggio. Quando parliamo di premierato parliamo di una forma di governo che vale a colmare il fossato che si è determinato nel nostro ordinamento costituzionale nel momento in cui, all’indomani di Tangentopoli e del crollo del Muro di Berlino, sono venute meno le colonne portanti della democrazia italiana. Le colonne portanti della democrazia italiana erano i partiti politici. Quando Costantino Mortati e gli altri costituenti hanno pensato alla nostra forma di governo e hanno messo da parte ipotesi che pure erano state prospettate – per esempio da Calamandrei, le ipotesi presidenzialiste – lo facevano nella consapevolezza che c’erano i partiti politici, cinghia di collegamento fra la comunità e le istituzioni. Nel momento in cui i partiti politici sono venuti meno, non ce lo dobbiamo nascondere, la nostra democrazia è diventata una democrazia claudicante. E, ovviamente, quando la democrazia è claudicante, quando il decisore non riesce a decidere, c’è sempre qualcuno che prende lo spazio lasciato vuoto. Ma non ci dobbiamo compiacere di questa situazione, perché i poteri sono legittimati nella misura in cui rispettano le proprie prerogative, ma allo stesso tempo i propri limiti.
La riforma del premierato, che io ho avuto modo di leggere in bozza ed è molto sintetica, è fatta fondamentalmente di tre articoli – un quarto articolo riguarda i senatori a vita –. Non tocca affatto le prerogative e le garanzie assicurate dalla Presidenza della Repubblica. Perché anche oggi il potere di scioglimento delle Camere, al contrario di quanto spesso si dice nel dibattito pubblico, non è un potere presidenziale. Si tratta di un potere duumvirale, che può determinare una preclusione allo scioglimento, come fece per esempio Scalfaro che impedì lo scioglimento delle Camere. Ma mai il presidente della Repubblica può determinare lo scioglimento delle Camere senza la controfirma del Presidente. Quindi il premierato garantisce il ruolo di mediazione e intermediazione del Capo dello Stato. E non è un caso che nelle ipotesi di riforma si sia virato verso questa formula piuttosto che verso quella semipresidenziale o presidenziale francese.
Sempre a proposito della debolezza della politica, all’indomani di Tangentopoli si sono alterati alcuni equilibri. Per esempio, la riforma dell’articolo 68 della Costituzione che prevedeva l’immunità parlamentare era stata una delle cause che hanno innescato la conflittualità ormai ultradecennale fra politica e magistratura. Non dobbiamo pensare che una politica che non fa bene il proprio lavoro, che viola le regole, debba essere necessariamente sanzionata sul piano penale. Se i rappresentanti del popolo, per varie ragioni che poi potranno essere sindacate dall’opinione pubblica e dal corpo elettorale, ritengono di non assicurare l’autorizzazione a procedere se ne assumeranno la responsabilità. Perché non dobbiamo dimenticare, che la democrazia si fonda su una immagine di cittadino adulto e consapevole dei propri diritti, cioè non possiamo pensare di addossare le responsabilità alla magistratura. Anche il corpo elettorale, il quale decide chi deve sedere in Parlamento, deve assumersi le proprie responsabilità. I costi, a mio avviso, della modifica dell’articolo 68 sono stati sicuramente peggiori dei benefici che quella riforma adottata in quegli anni hanno assicurato.
Tocco gli ultimi due punti: la libertà di manifestazione del pensiero del magistrato e separazione delle carriere.
Nessuno intende contestare la libertà di espressione del magistrato. Però, nel momento in cui abbiamo poteri dobbiamo avere anche la consapevolezza dei nostri doveri. La magistratura ha un potere enorme, incidendo sulla libertà personale e, quindi, deve essere e apparire imparziale. Quando interveniamo nel dibattito pubblico, secondo me, almeno un self restraint da parte del magistrato deve essere assicurato. Al Consiglio Superiore abbiamo affrontato informalmente – ma penso che affronteremo formalmente – gli interventi pubblici di alcuni magistrati sui social network, che spesso danneggiano l’immagine della magistratura e restituiscono una immagine distorta spesso di alcuni magistrati. Altre giurisdizioni già sono intervenute, per esempio il Consiglio di Stato. Io credo che lo dovremmo fare pure noi.
Per quanto riguarda la separazione delle carriere, io credo non sia il problema. Personalmente non sono favorevole alla separazione delle carriere, i colleghi lo sanno perché ne abbiamo parlato. Però non credo neanche che se ne debba fare una bandiera o l’ultima trincea. Detto tra noi, se si parla con molti magistrati giudicanti, sono assolutamente favorevoli alla separazione delle carriere; ovviamente, a microfoni spenti. Io penso che la posizione dei giudicanti non sia perfettamente equiparabile a quella dei requirenti e questo ce lo dice l’articolo 107, quarto comma della Costituzione, che è spesso sottovalutato. E tuttavia non ritengo opportuna la separazione delle carriere. Peraltro ormai con le recenti riforme si tratta di una separazione di fatto, ma non ne dobbiamo fare una battaglia ideologica né da una parte, né dall’altra. Ci sono cose ben più importanti.
Da ultimo, ritengo che come Consiglio superiore dobbiamo lavorare molto sui sistemi di valutazione dei magistrati, perché la legittimazione di un magistrato, che è una legittimazione tipica di un sapere tecnico e quindi non democraticamente legittimato dal voto, si fonda sulla competenza. E allora le valutazioni periodiche dei magistrati contribuiscono a mantenere ferma, salda quella legittimazione che si acquisisce con la vittoria del concorso. Ma non si può pretendere che questa legittimazione rimanga la stessa senza valutazioni effettive nel corso di tutta la carriera. Questa, a mio avviso, è una battaglia importante.
Noi ci muoveremo consapevoli delle nostre prerogative, ma anche dei nostri doveri, a tutela di alcuni principi costituzionali e fra questi l’autonomia, l’indipendenza della magistratura.
in attesa di approvazione dal relatore