Tavola rotonda I diritti sotto attacco

Giuseppe Salvaggiulo
Giornalista

Non riesco a immaginare una norma più giusta di una così formulata: è fatto obbligo ai giornalisti di dire sempre la verità. E non riesco a immaginare una norma più liberticida di una così formulata: è fatto obbligo ai giornalisti di dire sempre la verità.

Ringrazio naturalmente per l’invito e mi scuso se sarò un po’ disordinato.
Giurisdizione e informazione sono l’alfa e l’omega di ogni grammatica illiberale. La sintassi è l’indipendenza.
Benché relativa, quindi, sempre giustiziabile, non autoreferenziale, l’indipendenza entra in collisione con un potere che non accetta fonti di legittimazione diverse da quelle dei rapporti di forza. Un’attenzione inevitabile in ogni tempo e in ogni latitudine si amplifica in funzione del contesto.

Il maggioritarismo non è, in fondo, un’alchimia elettoralistica, ma prima ancora una weltanschauung. Basti guardare i vertiginosi saliscendi elettorali negli ultimi dieci anni: sono ondate, tsunami violenti e ripetuti. Che certo sono gonfiati dai sistemi elettorali sovrarappresentativi, ma sono frutto di un’onda emotiva, mediatica, che ha le sue radici nella rivoluzione digitale con tutto ciò che questo comporta: la prevalenza della comunicazione sull’informazione, la crisi dell’editoria tradizionale, la vanificazione del diritto d’autore, le infinite possibilità di manipolazione in un ambiente caotico.

Con una miriade di produttori non di notizie ma di realtà, che si contraddicono sistematicamente senza che questa sovrabbondanza di offerta – che non dobbiamo nemmeno più andare a cercare ma ci arriva, dalla mattina alla sera, a tutte le ore, addosso attraverso lo smartphone – sia accompagnata da un’analoga capacità di ponderazione. Come ha scritto Giuliano Da Empoli «gli algoritmi che governano i nuovi media fanno sì che ognuno veda solo la parte di realtà che conferma le proprie opinioni», cosiddette “Eco” o “bolle”. «Il punto — dice Da Empoli — non importa se queste informazioni siano vere o false perché potrebbero anche essere tutte vere. Quindi, se vogliamo, siamo oltre la questione delle fake news. Ciò che conta è il peso relativo che si dà a questi fatti e il risultato è che la vecchia frase “Ciascuno ha diritto alle proprie opinioni ma non ai propri fatti” non è più valida».

In questo contesto, manca nel dibattito pubblico uno statuto adeguato e moderno della nozione di indipendenza per questo tipo di professioni: del suo perimetro, delle sue regole, delle sue tutele e dei riflessi collettivi.

Certo, questo è un problema rispetto agli attacchi che arrivano dall’esterno. Ma, ahimè, è un problema che riguarda anche gli operatori del diritto, gli operatori dell’informazione al loro interno. All’interno di questi mondi, il primo problema è la mancanza di una visione olistica: ognuno col suo viaggio, ognuno diverso si potrebbe dire.

Non si spiegherebbe altrimenti, ma è soltanto un esempio, la disinvoltura con cui l’autorità giudiziaria, persino quella animata dai più nobili ideali progressisti, sempre più spesso si introduce con investigazioni informatiche nel rapporto non certo virginale, ma non per questo meno sacro, tra il giornalista e la fonte.
E lo fa non per biechi intendimenti depressivi, ma il nome dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Tutto ciò in un sistema che pure, per legge, riconosce e tutela il segreto professionale persino in sede processuale nelle vesti di testimone.

Quello che non si percepisce è che il danno non è soltanto al giornalista, soltanto alla fonte. Ma il danno procurato è ai cittadini per l’effetto inibitorio che le azioni di questo tipo avranno su potenziali fonti
dello stesso giornalista ma anche di altri, che si sentiranno preventivamente minacciate e, quindi, più restie a svolgere la loro funzione.

Qualche sera fa LA7 ha trasmesso un film di circa dieci anni fa intitolato “Il potere della verità”. Narra una storia vera accaduta negli Stati Uniti nel settembre 2004, a poche settimane dalle elezioni presidenziali.
La CBS trasmette un’inchiesta sulla base di alcuni promemoria interni all’amministrazione militare, la quale si solleva il dubbio del presidente uscente Bush, nonché ricandidato, abbia evitato la guerra in Vietnam grazie ad appoggi militari. Nei giorni successivi alla messa in onda, la CBS viene attaccata violentemente con una 
una campagna mediatica digitale. Viene messa in dubbio l’autenticità dei documenti e, quindi, la fondatezza dell’inchiesta. All’inizio il network difende i giornalisti, poi cede alla pressione politica e mediatica e ne mette in discussione il lavoro. Durante la riunione, nella squadra dei reporter, il più giovane a un certo punto sospira “qui si mette male”. Il reporter più anziano lo fredda “Quando ti chiedono di parlare con la tua fonte allora si mette male”. Questo accade di lì a poco: la CBS chiede di interrogare la fonte, poi nomina una commissione composta dai più famosi avvocati del Paese. Istruisce un processo interno alla fine del quale licenzierà i giornalisti, che non lavoreranno più.

Un altro problema è la limitata percezione dei diritti coinvolti, potenzialmente in pericolo, e quindi da salvaguardare. Che non sono – se non parzialmente e comunque in quanto strumentali – quelli delle stesse professioni coinvolte, ma quelli degli utilizzatori finali, dei cittadini. Questa distorsione percettiva si manifesta anche nella comunicazione. E ciò spiega una scarsa condivisione, quando non una manifesta ostilità, nell’opinione pubblica rispetto alle nostre categorie, rispetto a rivendicazioni che evidentemente appaiono difensive e corporative.

Il terzo limite è l’ipernormativismo e la sovrapposizione – se non confusione – di ruoli. Ma è mai possibile che si debba affidare al pubblico ministero l’obbligo di motivare l’esistenza di un interesse pubblico per poter convocare una conferenza stampa? Oppure che autorità garanti intendano sindacare l’attività giornalistica sulla base di una colluttazione autoritativa dell’esistenza di un interesse pubblico a base del diritto di cronaca? Con una inversione logica che teorizza una specie di comma 22, per cui tutte le notizie sono di interesse pubblico, purché siano state già diffuse prima da qualcun altro.

In un ecosistema digitale fortemente inquinato, fintamente centrifugo e libertario, in realtà centralizzato, in cui chi detiene i dati detiene il potere, e in cui la questione del maggioritarismo non è soltanto politico- istituzionale ma inevitabilmente mediatica – basti pensare a come si svolgono ormai le campagne elettorali,
permanenti, prima e dopo le elezioni – la questione dell’indipendenza diventa friabile, eterea, opinabile.

Finora la rivoluzione tecnologica ha colpito per lo più le mansioni manuali. Ma l’intelligenza artificiale generativa, basata su un accumulo istantaneo ed esponenziale dei dati, sostituisce ormai le professioni intellettuali indipendenti, giudici e giornalisti compresi.

Che la tecnologia possa sostituire un giornalista non deve scandalizzare più di tanto. Nel momento in cui l’informazione diventa commodity e non più bene pubblico.
La vera domanda riguarda il contenuto di una informazione di questo tipo e le dinamiche di potere che genera. Perché avere sotto controllo un algoritmo è più facile che avere sotto controllo tre giornalisti, figuriamoci migliaia se non milioni nel mondo.

Gli ultimi esperimenti sull’intelligenza artificiale sono contraddittori: supera brillantemente i test, anche
master in business administration, ma fallisce miseramente le prove pratiche. I modelli dell’intelligenza artificiale prendono scorciatoie, secondo benchmark statici.
Provate a chiedere a ChatGPT o ad OpenAI un articolo sul nuovo CSM e vedete che cosa viene fuori aldilà del feticismo dell’esperimento. La questione, dunque, non è quanta intelligenza, ma quale.

Qualche giorno fa il fondatore di ChatGPT, Sam Altman, ha dichiarato “l’uso che preferisco è quello che permette di riassumere i contenuti”.
Un podcast del New York Times qualche mese fa si intitolava “L’intelligenza artificiale sta avvelenando se stessa”. Ne ho chiesto conto ad un docente di semiologia chi mi ha risposto così: “È come la fotocopia di una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia…”.
Infatti nelle ultime settimane le società del settore stanno pubblicando annunci di lavoro per assumere non ingegneri informatici ma poeti, con l’obiettivo di colmare il deficit di creatività, di originalità, di novità.
In poco tempo, comunque, l’intelligenza artificiale verosimilmente produrrà riassunti più creativi, originali e appaganti. Non so se arriverà al punto anche per quanto riguarda gli articoli sul CSM, ma ci sono buone probabilità.
Ma sempre di fotocopie di fotocopie si tratterà.
Dunque chi stabilisce qual è il primo foglio da inserire in una fotocopiatrice è questione di democrazia.
C’è qualcosa che la fotocopiatrice dell’intelligenza artificiale non potrà mai fotocopiare, ed è ciò che è inedito, anzi, più specificamente, segreto.
Dunque dovremo prima o poi porci la questione del tabù del segreto.
Va prendendo piede una reificazione del concetto di segreto, che viene ormai assolutizzato, come una pietra angolare nella vita democratica. Non senza insincerità, peraltro, perché quanto meno per coerenza dovrebbe comportare la piena agevole, anzi, incentivata accessibilità di tutto ciò che non lo è, cosa che in realtà non accade.
Noi sappiamo in tempo reale le incriminazioni dell’ex presidente Trump, pubblicate on line dai procuratori americani, ma non riusciamo a sapere per quale motivo un esponente del governo sta per andare a processo per un grave reato.
A monte, l’eliminazione anche solo potenziale di diffusione di informazioni non pubbliche è perfettamente coerente con un’informazione in fotocopia di fotocopie; l’intelligenza artificiale non violerà mai un segreto.

Trascrizione a cura della redazione,
in attesa di approvazione dal relatore

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Relazione introduttiva

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Dibattito congressuale